Rilievi e interrogativi sul ruolo delle discipline umanistiche a margine della lettura di “Non per profitto”, di Martha Nussbaum.
C’è una crisi ben più profonda di quella economica, che sta attraversando il mondo e che ne sta compromettendo il futuro: è la crisi dell’istruzione. Da questa osservazione prende le mosse Martha Nussbaum nel saggio Non per profitto, che offre un’ampia disamina sullo stato e sulle tendenze dei sistemi educativi e sulle ripercussioni che la deriva in atto è destinata a produrre sullo sviluppo democratico delle società.
L’analisi della Nussbaum è condotta sui sistemi educativi degli Stati Uniti e dell’India, due paesi caratterizzati da significative differenze sul piano culturale e dello sviluppo socio-economico, ma in cui è possibile ravvisare la comune tendenza a ridurre sempre più lo spazio dedicato alle materie umanistiche in tutti gli ordini di istruzione e nel finanziamento dell’attività di ricerca. Lo scopo è quello di mostrare come si stia delineando un’epocale crisi di civiltà, tale da mettere in discussione le conquiste della democrazia sulla base delle quali si è plasmato il modello di sviluppo delle nazioni più avanzate. La visione che negli ultimi decenni si è andata affermando consiste nel considerare il prodotto delle attività economiche – sintetizzato nell’indicatore del Pil – l’obiettivo fondamentale dello sviluppo, al cui raggiungimento debbono tendere le politiche dei diversi paesi. La massimizzazione della crescita economica assicurerebbe peraltro il raggiungimento di tutti quegli obiettivi di benessere diffuso e di equità dei quali un reale processo di sviluppo deve essere portatore. Da ciò discenderebbe la necessità da parte di ciascun paese di concentrare l’impiego delle risorse disponibili in attività strettamente connesse alla crescita economica, rese per lo più possibili dal possesso di competenze di natura tecnico-scientifica. Investire in attività in cui debbono essere messe in campo competenze di tipo umanistico andrebbe invece a detrimento di questo obiettivo, motivo per cui un consistente ridimensionamento della spesa destinata ai settori delle discipline umanistiche risulterebbe tanto giustificato quanto auspicabile.
Ma la tesi che la crescita economica è portatrice di benessere ed equità è immediatamente smentita dai fatti – sottolinea la Nussbaum. Non vi sono che scarse correlazioni tra le conquiste del welfare e la crescita economica, né c’è modo di riscontrare un collegamento sistematico tra crescita economica e livello di democrazia dei paesi. A questo modello la Nussbaum contrappone quello dello “sviluppo umano”, in base al quale «ciò che è davvero importante sono le opportunità, o “capacità”, che ogni persona ha in ambiti chiave che vanno dalla vita , salute e integrità corporea alla libertà politica, partecipazione politica e istruzione. Tale modello di sviluppo riconosce che tutti gli individui posseggono una dignità umana inalienabile che dev’essere rispettata e tutelata da leggi e istituzioni. Una nazione decente riconosce come minimo che i suoi cittadini hanno diritti in questi e altri ambiti, e implementa strategie che portino ogni persona a livelli di opportunità accettabili.» E la condizione imprescindibile perché un modello di questo tipo possa realizzarsi, è quella di coltivare le discipline umanistiche, poiché è grazie ad esse che può formarsi nella popolazione quel “pensiero critico”, che consenta di contrastare le tendenze autoritarie e di favorire lo sviluppo di una società inclusiva, capace di rispondere alle sfide che la crescente complessità del mondo globalizzato pone di fronte. Si tratta, in ultima analisi, – conclude la Nussbaum – di recuperare lo spirito della pedagogia di Socrate, orientato allo sviluppo del ragionamento e quindi idoneo a dotare la società di un vero e proprio di sistema di anticorpi contro qualsiasi forma di autoritarismo. Una pedagogia, quella socratica, che ha influenzato il radicamento della democrazia nel XX secolo non solo in Occidente (Europa e Nord America) ma anche in Oriente, come mostra l’esperienza condotta in India da Rabrindanath Tagore, intellettuale poliedrico nonché Nobel per la Letteratura nel 1913, che si fece promotore di vari istituti nei diversi gradi dell’istruzione, dalle primarie all’Università, di cui quest’ultima divenne l’asse portante.
Il fuoco di fila aperto contro le discipline umanistiche e contro l’uso del pensiero critico – che esse sottendono – appare dunque, secondo la Nussbaum, il sintomo di un manifesto regresso di civiltà, tanto più pericoloso quanto più si considerano le innumerevoli problematiche che il dilatarsi dei confini nazionali e i contorni sempre più intersecati dello sviluppo mondiale impongono di fronteggiare. L’attenzione dei governi e dei maggiori consessi istituzionali a livello internazionale appare, invece, spostarsi inesorabilmente verso un tipo di formazione tecnologica-scientifica che garantirebbe migliori performance economiche, ma che è anche meno attenta nel promuovere obiettivi di democrazia, persino quando – come è possibile riscontrare nei discorsi pronunciati dallo stesso Presidente Obama – si cita la necessità di un pensiero critico. Peraltro in tutte le procedure preposte alla valutazione delle conoscenze acquisite nei diversi livelli di istruzione (anche quelle tese ad accertare le competenze nei campi umanistici) si vanno sempre più radicando test di verifica a risposta multipla, idonei a rilevare la componente tecnica delle competenze, ma meno che mai adatte a cogliere la componente critica orientata alla formazione del pensiero.
A ben vedere la portata del messaggio della Nussbaum risulta ben più consistente se la lettura fa un passo in avanti, andando a cogliere tutta una serie di questioni, apparentemente tralasciate ma immediatamente chiamate in causa dalla sua complessiva riflessione. Quando viene sottolineata la necessità di una cultura umanistica per i fini della democrazia e si constata che alle discipline rappresentative di tale cultura sono progressivamente ridotti gli spazi a favore di quelle tecnico-scientifiche, l’impressione che se ne ricava è che venga di fatto assunta una frattura tra le due culture, che può riassumersi in una separazione dei fini a cui esse sarebbero funzionali e, in qualche modo (visto l’accento posto sul carattere riduttivo dell’obiettivo della crescita economica), nella definizione di una sorta di gerarchia di valori di cui sono portatrici. Ma se davvero così fosse (se cioè fosse stato nelle intenzioni dell’autrice porre una frattura tra le due culture) saremmo in presenza di una forte lacuna, tale da minare il valore del messaggio che si è inteso trasmettere. Questa osservazione muove innanzitutto dal considerare che il sapere scientifico si è sempre più compenetrato nello sviluppo della società, arrivando a definire nel XX secolo i contorni di una “società della conoscenza” sempre più complessa[1]. Ma c’è di più. E’ fondamentale infatti guardare in termini assai più globali al concetto di cultura, così come efficacemente proposto dal genetista e antropologo Luigi Luca Cavalli Sforza nel saggio “L’evoluzione della cultura”[2]. Scrive Cavalli Sforza: «La parola cultura ha molti significati. Vogliamo usare quello più generale: l’accumulo globale di conoscenze e di innovazioni, derivante dalla somma di contributi individuali trasmessi attraverso le generazioni e diffusi al nostro gruppo sociale, che influenza e cambia continuamente la nostra vita. …[…] L’evoluzione culturale, nel suo insieme, è determinata dalla somma delle innovazioni e delle scelte o più, più esattamente, dall’accettazione o meno di queste innovazioni da parte della società e da quali innovazioni vengono accettate […] La storia della cultura è quindi la storia delle innovazioni: quali sono state proposte, quali hanno avuto fortuna e perché.» Cultura, innovazione ed evoluzione del genere umano, sono dunque questioni inestricabilmente collegate e concorrono alla definizione di un solo sapere.
Ci sembra, dunque che, fatta salva la doverosa denuncia dell’attacco agli studi umanistici, l’elezione di un “pensiero critico” a salvaguardia di un corretto processo di sviluppo garante dei princìpi della democrazia, come esclusivo prodotto di elezione degli studi umanistici, sia da rigettare. E d’altra parte non è pensabile né una scienza che possa fare a meno di un pensiero critico, né una tecnologia riducibile a puro tecnicismo, come emerge nettamente dalla riflessione di Cavalli Sforza. Né è pensabile che le applicazioni scientifiche possano prescindere dalla capacità di sviluppare una scienza di base, stando a quanto sembrano invece implicare le forti decurtazioni nei finanziamenti che questa sta subendo in tutti gli ambiti disciplinari, e non solo in quelli umanistici (il recente Programma europeo Horizon 2020 in materia di finanziamento della ricerca ne è una conferma), come sostenuto dalla Nussbaum. Come più volte sottolineato da Paolo Sylos Labini, giova inoltre osservare che, diversamente dalle fasi originarie dello sviluppo industriale, nelle quali l’attività inventiva degli scienziati era il presupposto di una qualche “rivoluzione tecnologica” e l’aumento di efficienza del sistema produttivo appariva come l’esito dell’esplicarsi del potenziale innovativo di tale rivoluzione, il progresso tecnologico si è man mano imposto in forme assai più composite[3]. La possibilità di distinguere la natura “inventiva” del progresso dalla sua dimensione “innovativa” collegata al mercato, è divenuta sempre più sfumata, attenuando o, comunque, modificando di conseguenza l’importanza di quegli interrogativi intorno a questa distinzione che la riflessione economica aveva da tempo posto alla sua attenzione[4]. Si è attenuata, in questo senso, anche la portata di quella “visione paradigmatica” che anima le “rivoluzioni tecnologiche”[5], mentre si è andato estendendo il dominio di una sofisticata “progettazione” tecnologica non collegata necessariamente alla base scientifica-culturale di un unico paradigma dominante e in grado di orientare l’affermazione di nuovi paradigmi. Il significato ultimo di “sviluppo tecnologico” che da ciò discende, trattiene perciò in sé una concezione molto ampia di sviluppo, nella quale trova spazio la possibilità di definirne gli obiettivi e di “progettare” le risposte più utili a soddisfarli. Per questo è innanzitutto auspicabile che si realizzi un cambio di prospettiva sui fini dello sviluppo, guardando alla necessità di assicurare tanto gli equilibri delle risorse materiali su cui è impostata la crescita economica, quanto il rispetto dei diritti umani, per arrivare finalmente a tracciare il percorso di una “società della conoscenza” che abbia nel “pensiero critico” la sua prima ragion d’essere.
[1] Cfr. Andrea Cerroni, Scienza e società della conoscenza, Utet, Torino, 2006.
[2] Luigi Luca Cavalli Sforza, L’evoluzione della cultura, Codice, Torino, 2004.
[3]Cfr. Paolo Sylos Labini, Nuove tecnologie e disoccupazione, Laterza, Roma-Bari, 1989.
[4]Cfr. Bruno Jossa (a cura di), Progresso tecnico e sviluppo economico, Franco Angeli, Milano, 1974.
[5] Franco Momigliano e Giovanni Dosi, Tecnologia e organizzazione industriale internazionale, Il Mulino, Bologna, 1982
[…] Elogio del pensiero critico, per una reale cultura della conoscenza. […]
L’attacco all’istruzione è in primo luogo attacco alla cultura umanistica e a tutto ciò che non ha (apparentemente) ricadute monetizzabili. Nei processi valutativi attuali l’individuo scompare, sostituito da una somma di variabili statistiche; il percorso istruttivo viene abbreviato o svilito; le specificità locali e le tradizioni storiche annullate al fine di creare una massa molto livellata verso il basso, senza passato, poco pensante e strumentalizzabile. Le classi intellettuali dagli anni Settanta in poi si sono ampiamente rese corresponsabili di questo processo.
La costruzione di Identità Nazionali si è spesso basata sull’elaborazione di Miti, a loro volta fondati su letture dello Spazio (il Territorio) e del Tempo (il Passato). Anche l’epoca attuale presenta un tentativo del genere; in questo tentativo, evidentemente, le Culture che in precedenza riassumevano l’esperienza di ciascuna Comunità sono sottoposte a un’opera di destrutturazione. Come sempre, ciò che preoccupa in questi tentativi è la finalità aggressiva, per cui i Fruitori della Cultura finiscono per essere bestie allevate allo scopo di venire sacrificate in uno scontro, nel nostro caso il famigerato Clash of Civilizations. Le misure di elementare autotutela che, pur nelle nostre limitatissime possibilità, siamo in grado di opporre comprendono sicuramente la trasmissione e diffusione di tutto il patrimonio di conoscenze che ancora ci è rimasto dal Passato, anche preistorico oltre che – naturalmente – storico, di qualsiasi Comunità umana, quantitativamente soprattutto dal vasto àmbito eurasiatico-mediterraneo: comprendere e far capire le lingue e culture, anche remote, di tutte queste regioni è un compito per certi aspetti arduo, ma dagli effetti dirompenti…
Condivido e appoggio il senso generale dell’articolo. Trovo in generale funesto qualunque tentativo di creare una gerarchia fra saperi, mi irrita davvero profondamente l’atteggiamento di chi disprezza la cultura umanistica dall’altro di una supposta superiorità delle scienze “pure”. Non credo ci sia davvero una separazione fra le due culture. Nel mio piccolo, mi sforzo sempre molto di evidenziare le radici umanistiche della mia materia (Economia Pubblica) e qualche anno fa detti il libro della Nussbaum come lettura integrativa per il mio corso – ricordo con piacere che fu apprezzato dagli studenti. Ma non necessariamente tutti i miei colleghi economisti saranno d’accordo con me … comunque, rinnovo i complimenti per l’articolo.
@Brih…: è un’analisi davvero molto interessante. Quali sarebbero i primi passi da compiere nell’immediato? Cosa ne dice di un ministro che afferma “il greco non serve alla conoscenza del mondo moderno”? Mente o è totalmente ignorante?
Il testo dell’Agenzia (con citazione inclusa) era che «è “un’illusione pensare che si capisca il mondo con il greco antico. E’ bene studiare le materie classiche”, ma serve una seconda lingua.» Da un lato gli auspici non finirebbero mai (certo che serve una seconda lingua e certo che serve il greco antico, aggiungerei che serve anche molto altro in campo linguistico), dall’altro se ci si mette sulla strada dello scetticismo sull’utilità delle lingue per capire il Mondo ugualmente non si finisce mai (non lo si capirà del tutto col greco antico, ma nemmeno lo si capisce del tutto con una seconda lingua e così via). Le due affermazioni sono quindi una critica a un’illusione che non c’è (non so chi possa affermare che il Mondo si capisca *solo* col greco antico) e un’aggiunta che nessuno contesta (quale linguista si potrebbe opporre all’insegnamento di una seconda lingua?). Dato che nella stessa dichiarazione è esplicitamente ribadito che la seconda lingua non deve essere in sostituzione delle materie classiche, la questione si precisa come un problema di tempo: se è vero che più lingue si imparano più si ha facilità a impararne altre (la monoglossia è assimilabile a una condizione patologica, dato che la dotazione naturale dell’Uomo rende normalmente possibile il plurilinguismo), è altrettanto evidente che aggiungere materie di studio richiede o più tempo o diminuzione della qualità; se nessuno vuole la seconda, bisogna prolungare il corso degli studî
Come “primi passi da compiere nell’immediato” la massima urgenza, dato il clima di esasperato pseudonazionalismo (pur creato solo artificiosamente, ma ormai divenuto realtà) antitedesco, antieuropeo, antirusso, antiarabo, antiturco, antipersiano, anti-’islāmico, antiindiano, anticinese e antigiapponese (oltre agli odî più noti), riguarda forse il bisogno di informazione su lingue e storia di queste culture, soprattutto a cominciare dalle origini (fin dove raggiungibili), perché più direttamente di quanto si immagini normalmente riguardano la stesse origini – di fatto anch’esse misconosciute – di ciò che è stato incluso nell’insieme dello Stato italiano. Se due principali motori della Storia sono l’Urbanesimo e la Geopolitica, quasi tutto il resto dei fenomeni di lunga durata è riassunto dalla nozione di Continuità (dalla Preistoria) e in questo l’Indoeuropeistica offre rivelazioni clamorose, rispetto alle quali le notizie più famose si riducono alle proporzioni di pettegolezzi da cortile
Non si può non concordare con Bhrih… il greco antico non è indispensabile ma aiuta certo a capire il mondo moderno, così come una seconda lingua aiuterebbe. Realisticamente, però, in una scuola superiore si possono fare quelle tante materie – occorre fare delle scelte. Sarebbe importante offire quante più opportunità possibile ai ragazzi, forse si dovrebbe pensare a una modifica radicale della struttura degli ultimi tre anni di liceo, con materie base (italiano, matematica, ecc.) e materie facoltative su cui si possa cominciare a costruire un proprio percorso di formazione. Il tutto però richiederebbe uno sforzo progettuale immenso che non vedo facile al presente, perché non si dovrebbero mai, credo, riformare pezzi della scuola senza considerare l’intero cammino dal nido all’università (ad esempio, la presenza di materie facoltative nell’ultimo triennio delle superiori dovrebbe presumibilmente avere un impatto sull’ammissione all’università).
L’idea di abolire per sostituire è tipica dei nostri tempi e almeno da una cinquantina d’anni le riforme sono feticci agitati per dare impressione di cambiamento/miglioramento/innovazione, ma il progetto retrostante è sostituire l’istruzione con l’intrattenimento, che è più funzionale a far girare l’economia, mentre l’istruzione è un investimento organizzativo di lungo periodo che si riflette piuttosto sulla struttura della società: un conto è comprare prodotti, un conto è creare coesione sociale. la continuità ’68-Berlusconi va letta in questa chiave. Prima si demoliscono i saperi fondanti dell’Occidente, bollati come retrogradi, fascisti, inattuali etc., poi li si sostituisce con Inglese-Internet-Impresa e via cantando fino a una decadenza inarrestabile sostenuta e promossa dal ministero.
Infatti, l’impressione è che non si tratti di una vera contrapposizione tra Scienze Umane (o “Inesatte”) e Scienze Esatte (o “Disumane”), già per il fatto che le Scienze Umane sono un sottoinsieme di quelle della Natura; come sarebbe insostenibile una posizione che raccomandasse lo sviluppo di tutta la Biologia, ma non – per esempio – lo studio del Coccodrillo o del Frassino, così non ha senso la contrapposizione fra categoria sovraordinata (Scienze Naturali) e subordinata (Scienze dell’Uomo). Non si tratta neanche della classica questione sullo statuto epistemologico della Critica d’Arte o Letteraria; piuttosto la vera contrapposizione che emerge – perché ogni giudizio obiettivo deve essere relativo, tra due oggetti appunto (o un oggetto e un’unità di misura) – è fra Storia integrale della Natura (quindi con ampio spazio alla ricostruzione – metodica e scientifica – del non attestato) e Valorizzazione proporzionale delle Fonti, ossia privilegio di ciò che è contemporaneo, vicino, facilmente osservabile (ma per ciò stesso a rischio di banalità)…
La crisi silenziosa: osservazione del mondo attraverso un libro!
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Ci tengo a sottolineare che lo “sviluppo tecnologico”, come tutte le scoperte e l´impatto sulla vita umana che da esso ne discendono non sono intrinsecamente negative o positive, ma dipende dall´uso che di esse ne viene fatto. Non solo ma l´interazione e l´effetto sul benessere sociale deve essere valutato e comprovato soprattutto a breve e lungo termine, vista l´urgenza di procedere verso un sistema globale sostenibile a prescindere dal prodotto interno lordo. Aggiungo poi che lo sviluppo tecnologico non è rivolto in alcun modo a sminuire o “denigrare” le materie o Scienze Umane che servono alla crescita e allo sviluppo della critica. Non c`è un BUONO e un CATTIVO, non c`è un UMANO e DISUMANO.
Io personalmente sento di ribadire la necessità di salvaguardare l´insegnamento delle materie classiche nelle scuole e nell´università al fine di educare “una classe dirigente”, ma ancor più dei “cittadini”, alla responsabilità verso il mondo e la società in cui viviamo. Non solo, NON PER PROFITTO, ma anche NON PER SERVILISMO.
Spesso si parla di sistemi educativi come quello inglese, americano, tedesco ma altrettanto spesso solo per sentito dire o perché si fa riferimento alle statistiche del momento che convalidino l´una o l´altra ideologia di moda o per propaganda. Chi crede che la scuola sia una merce e tutti noi un mercato su cui speculare si sbaglia. Al centro non c´è il mercato o il denaro ma l´uomo, “non tutto ciò che può essere comprato conta, e non tutto ciò che conta può essere comprato” parafrasando A. Einstein dove al posto di “contare” ho messo il verbo “comprare”. Una visione sicuramente contrapposta a quella economica prevalente.
L´ipotesi secondo la quale sussiste uno stretto collegamento tra scuola e sviluppo economico viene messa in discussione non però nel senso che “con la cultura non si mangia”, ma bensì suggerendo che lo sviluppo economico abbisogna di investimenti e politiche che migliorino le condizioni in cui operano le scuole stesse e naturalmente di chi vi lavora. Bisogna salvaguardare l´educazione dallo tsunami della mono cultura delle “scienze dure”e dell´”Homo Economicus” .
Alcune brevi citazioni dal libro “NON PER PROFITTO. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica”M. Nussbaum:
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“Questo libro parla di ciò per cui dovremmo lottare. Finché non avremo chiaro di cosa si tratta, è difficile immaginare come proporlo a coloro che ne hanno bisogno”
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“Per pensare a un´educazione alla cittadinanza democratica, dobbiamo pensare a cosa sono le nazioni democratiche, e per che cosa lottano. Che cosa significa per una nazione progredire? Secondo una certa ottica significa incrementare il prodotto interno lordo (pil).”
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“Ma i partigiani della crescita economica non si limitano ad ignorare le arti. Essi le temono. Infatti la sensibilità simpatica coltivata e sviluppata è un nemico particolarmente pericoloso dell´ottusità, e l`ottusità morale è necessaria per realizzare programmi di sviluppo economico che ignorano le disuguaglianze”
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http://www.youtube.com/watch?v=mxgYsx1AJ68
A proposito di .. “Il significato ultimo di “sviluppo tecnologico” che da ciò discende, trattiene perciò in sé una concezione molto ampia di sviluppo, nella quale trova spazio la possibilità di definirne gli obiettivi e di “progettare” le risposte più UTILI a soddisfarli.”
Forse la possbilità crescente di *”progettare” risposte UTILI* [in senso monetario] – a soddisfare obiettivi di sviluppo – si traduce in una capacità decrescente di *”gestire” processi COGNITIVI* [in senso sociale] – per condividere percorsi verso un obiettivo?
Forse abbiamo un manifesto bisogno d’inutilità – https://plus.google.com/101438010163979157405/posts/348FMCDCJCd
[…] Roars.it, di Daniela […]