Quanto è sentito e difeso oggi il diritto allo studio? Siamo già il Paese fanalino di coda per numero di giovani laureati – siamo stati superati anche dalla Turchia – e ciò nonostante le immatricolazioni sono in calo. Per quanto le cause di questo calo siano molteplici (l’aumento delle tasse, l’abuso degli accessi programmati in moltissimi corsi, la propaganda ossessiva e millantatrice di molta stampa che agita lo spettro della disoccupazione per i laureati senza spiegare che per i diplomati va persino peggio), è evidente che la scarsità di finanziamenti al diritto allo studio abbia contribuito in modo importante a questo ritardo. Questo disegno di dismissione, mai discusso in sede politica, è attuato attraverso valutazioni tecnocratiche, vendute come neutrali e diffusamente accettate nella classe accademica che confonde collanine di vetro colorato con collanine d’oro: è sufficiente che ci sia scritto sopra “valutazione” e “meritocrazia”.

Ripubblichiamo l’ntervista a Roars apparsa su Voci Globali, alla cui redazione hanno collaborato Antonio Banfi, Giuseppe De Nicolao, Marco Viola, Francesco Sylos Labini.

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Gli esami – dice Edoardo de Filipponon finiscono mai“. Ma – aggiunge amaro Roberto Gervaso – “non finiscono mai nemmeno le raccomandazioni“. Che, con buona pace del diritto allo studio e della meritocrazia, via via che si cresce, si cominciano a salutare con un’alzata di spalle, considerandole quasi una male endemico e inevitabile della nostra società.

È per questo che sul tema formazione non bisogna mai allentare la presa, perché l’Università – da luogo di valorizzazione delle competenze e della serietà di un percorso universitario – non si trasformi nell’incubatrice supremo di frustrazioni, che poi ci si porta con sé anche nel mondo del lavoro.

Quanto è sentito e difeso oggi il diritto allo studio? E la laurea è davvero un investimento sbagliato, un pezzo di carta non necessario alla costruzione di un soddisfacente percorso professionale? Quanti ancora ci puntano, considerandola un valido strumento di mobilità sociale?

Lo abbiamo chiesto al professor Antonio Banfi, Direttore del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Bergamo e fra i fondatori dell’Associazione Roars. Con lui abbiamo cercato di fare il punto sul diritto allo studio e sullo stato di salute della ricerca in Italia e in Europa.

Per quali Paesi è ancora valido l’obiettivo europeo stabilito in Horizon 2020, quello cioè di raggiungere il 40% di laureati entro il 2020? Quali sono le esperienze più virtuose cui guardare?

Nel suo complesso, l’UE punta a raggiungere almeno il 40% di laureati. Come si può vedere dalla tabella riportata di seguito, otto nazioni hanno un target superiore al 40%. L’Italia, al contrario, non solo è tra le dieci nazioni il cui target è inferiore al 40%, ma presenta il target più basso dell’intera UE: 26-27%, partendo dal 21,7% del 2012. Un target decisamente meno ambizioso di quello di altri Paesi come Malta (MT), Croazia (HR) e Slovacchia (SK), il cui dato di partenza supera di poco quello italiano. Per avere un raffronto internazionale, vale la pena di consultare le statistiche Eurostat. Nel 2000, l’Italia pur essendo già nelle ultime posizioni, con il suo 11,6% aveva una percentuale di laureati superiore a quella di Portogallo (11,3%), Slovacchia (10,6%), Romania (8,9%) e Malta (7,4%). Il distacco dalla media EU27 (22,4%) era di 10.8 punti percentuali. Tredici anni dopo, nel 2011, pur essendo salita al 22.4%, l’Italia è scivolata in ultima posizione e il distacco rispetto alla media EU27 (37,0%) è salito a 14,6 punti percentali. D’altronde, nel decennio 2000-2010, l’Italia è stata l’unica nazione europea la cui spesa (in termini reali) per l’istruzione non è cresciuta (fonte: Funding of Education in Europe The Impact of the Economic Crisis).

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L’Università italiana sembra molto distante dall’essere un’Università europeista. Il Paese investe appena l’1,0% del proprio PIL nel sistema universitario contro una media UE dell’1,5% e una media OCSE dell’1,6%. Non è vero, dunque, che l’Università italiana – come si sente spesso dire – costa troppo rispetto alla media europea? 

C’è un senso importante in cui è vero che l’Università costa troppo rispetto alla media europea, ma non è quello che viene suggerito dai molti politici che vi hanno visto solamente un capitolo di spesa su cui risparmiare. L’Università italiana costa troppo agli studenti: dopo Regno Unito e Olanda, l’Italia è terza in Europa per costo delle tasse universitarie. Negli ultimi anni, questa cifra è aumentata costantemente presumibilmente per compensare la riduzione dei finanziamenti pubblici, e i Governi che si sono succeduti non hanno mosso un dito per invertire la rotta.
Anzi, il Governo Monti ha dato la sua benedizione a questo trend innalzando il tetto alla contribuzione studentesca e, quel che è peggio, legando l’allocazione dei punti organico (anche) al gettito delle tasse universitarie: in parole povere, se gli atenei vogliono assumere i giovani ricercatori, sono incentivati ad aumentare le tasse agli studenti.
Un sistema che volesse essere inclusivo dovrebbe fare l’esatto contrario: garantire più assunzioni a quegli atenei che abbassano le tasse favorendo così l’accesso anche ai meno abbienti.
Negli ultimi anni si è verificato un aumento del contributo richiesto ai privati, tipicamente sotto forma di incrementi delle tasse universitarie. L’aumento della percentuale di spesa privata, vede, infatti l’Italia in quarta posizione. Nella parte sinistra del grafico, il balzo, superiore a 40 punti, compiuto dal Regno Unito è spiegato dalla riforma Cameron che ha innalzato in maniera brusca le tasse universitarie fino a 9.000 sterline.

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È giustificato a suo avviso il calo degli studenti che godono di una borsa di studio scesi in soli due anni dall’86% al 69% degli aventi diritto?

Chiaramente noi guardiamo a questo dato con preoccupazione. Siamo già il Paese fanalino di coda per numero di giovani laureati – siamo stati superati anche dalla Turchia – e ciò nonostante le immatricolazioni sono in calo. Per quanto le cause di questo calo siano molteplici (ad es. il sopra citato aumento delle tasse, l’abuso degli accessi programmati in moltissimi corsi, la propaganda ossessiva e millantatrice di molta stampa che agita lo spettro della disoccupazione per i laureati senza spiegare che per i diplomati va persino peggio), è evidente che la scarsità di finanziamenti al diritto allo studio abbia contribuito in modo importante a questo ritardo.

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Purtroppo, non sembra che il problema interessi granché il Governo: basta pensare che nella prima versione della legge di stabilità 2016 non vi era nemmeno un euro e che, nonostante i ripetuti appelli delle associazioni studentesche, il Governo non ha fatto nulla per arginare i contraccolpi della riforma del calcolo dell’ISEE: molti studenti, a parità di condizione socio-economica, si sono ritrovati improvvisamente “non idonei” alla borsa di studio, solo perché il MIUR non si è preso la briga di adeguare i parametri per l’accesso alla borsa alle nuove modalità di calcolo ISEE.

Tra il 2008 e il 2014 – questi i dati dell’European University Association Public Funding Observatory – l’investimento pubblico si è ridotto del 21% in termini reali. Ma in Spagna e in altri Paesi europei la situazione è molto diversa. Quali le ragioni di questa differenza?

La situazione in Europa anziché migliorare, negli ultimi anni si è aggravata: basta considerare che la spesa pubblica in ricerca è aumentata del 15% dal 2009 in Germania, mentre, ad esempio, in Italia, nello stesso periodo, è diminuita di quasi il 20%. Per effetto delle cosiddette politiche di austerità, adottate secondo convinzioni ideologiche ma i cui fondamenti teorici sono stati smentiti dai dati, la dinamica della crisi non ha fatto altro che accentuare divergenze strutturali tra le economie dell’eurozona, che a loro volta precedono perfino l’introduzione della moneta unica.

L’apprendimento lungo l’intero arco della vita è uno dei pilastri dell’Unione Europea. Per quali Paesi europei è effettivamente valido?

È valido per qui Paesi in cui il sistema produttivo ancora richiede personale con istruzione superiore. La contrazione delle risorse umane nei settori dell’Università̀ e della ricerca nei Paesi mediterranei – accentuatasi ulteriormente per effetto dei tagli alla spesa pubblica dovuti alle politiche di austerità̀ – finisce persino con l’essere coerente con la scarsa richiesta che ne fa il sistema economico, dato il maggior peso che in questi Paesi detengono i settori tradizionali. In altri termini, l’arretramento dei sistemi nazionali d’innovazione nei Paesi dell’Europa meridionale, una volta innescatosi, non fa che auto alimentarsi, aggravando sempre di più̀ le prospettive di sviluppo di queste economie. Le differenze di crescita tra Paesi europei sono, dunque, chiara espressione di una disomogenea capacità di sviluppo delle conoscenze scientifiche e tecnologiche e d’innovazione dei loro sistemi produttivi. Nei Paesi dell’Europa meridionale la bassa spesa in ricerca attribuibile all’industria è il segno della marginale presenza di settori avanzati, nei quali è invece più̀ elevata la propensione all’investimento in ricerca. Questa marginalità̀ dei settori avanzati implica a sua volta una crescente marginalità̀ di questi Paesi con una perdita complessiva di potenziale di sviluppo economico.

L’Italia è stato l’ultimo Paese europeo a dotarsi di una Agenzia Nazionale di Valutazione, che è diventata operativa nel 2011. Si può trarre un primo bilancio del suo operato?

L’operato dell’Anvur è stato disastroso da ogni punto di vista. Tecnicamente sono state adottati criteri di valutazione, come l’uso della bibliometria automatica, che non solo sono criticati a livello internazionale ma che in alcuni Paesi sono stati esplicitamente giudicati inadeguati, per esempio nel Regno Unito. Inoltre, l’operato dell’agenzia è stato caratterizzato da una opacità generalizzata nell’uso dei dati, cosa che ha generato perfino un contenzioso legale. L’Anvur ha fatto il drammatico errore di non studiare in dettaglio esperienze di valutazione in altri Paesi, a cominciare proprio dal Regno Unito dove una agenzia simile è stata introdotta trent’anni fa. Inoltre l’Anvur è assai costosa. Per rendere l’idea, se si rapportano i costi al numero di delibere (contando anche quelle di cui – e sono la quasi totalità – si conosce solo l’esistenza, ma non il contenuto, visto che non sono state pubblicate) si ottiene una media di 100,000 euro a delibera. Siamo dell’idea che l’agenzia debba essere ripensata daccapo.

Il network Roars si pone come obiettivo di intervenire nella discussione avendo per interlocutori coloro che devono gestire il processo di trasformazione dell’Università italiana. Che tipo di ascolto e contributi avete fino ad ora ricevuto?

L’ascolto, in termini di letture e conoscenza di Roars fra ricercatori e accademici è molto buono: riceviamo diverse migliaia di visite al giorno (abbiamo superato i 12 milioni di visite complessive in quattro anni) e abbiamo un gruppo facebook con più di 10.000 membri. Otteniamo anche numerosi contributi da colleghi di tutte le discipline, sia sotto forma di articoli che come commenti. A quattro anni dalla nascita, potremmo dire che RoarsS è diventato una lettura imprescindibile per tutti coloro che si occupano di Università. In genere, pur avendo numerosi contatti, fatichiamo a farci sentire dal mondo politico, ciò è dovuto soprattutto al fatto che la politica italiana non considera prioritario l’investimento in formazione e ricerca e in genere preferisce affidarsi, piuttosto che ad analisi critiche ben documentate, a un ristretto numero di consiglieri spesso portatori di istanze particolari.

In uno degli più recenti interventi presenti sul vostro sito si mette a confronto l’Università di Cambridge con quella di Pisa. Emergono risultati inquietanti: “il finanziamento che Cambridge ottiene dal Research Council è maggiore di tutto il finanziamento MIUR per il totale delle Università italiane”. La qualità dell’insegnamento è principalmente una questione di differenza di investimenti?

Gli investimenti impattano prevalentemente sulla ricerca. Ciò detto, è chiaro che essi toccano anche la didattica, non solo per quel che riguarda le strutture (aule, strumenti didattici ecc.), ma anche per quanto concerne il personale docente. In assenza di risorse non sono possibili nuovi ingressi e questo certamente danneggia la didattica. Da ultimo: spesso una buona ricerca genera una buona didattica.

A settembre scorso si è tenuta una tavola rotonda co-organizzata da Roars dal titolo “Le università italiane: Nord, Centro e Sud tra competizione e sopravvivenza”. Quali sono i dati più significativi che ne sono emersi? È vero che l’Italia produce troppi laureati? È possibile fare una stima dei laureati che andranno all’estero nei prossimi anni per esercitare il loro “diritto al lavoro”?

Uno dei temi centrali che è stato messo in evidenza riguarda uno degli effetti più vistosi del futuro che ci sta assicurando la meritocrazia all’italiana: la grande fuga dal Sud di giovani studenti e giovani laureati. Ci sono certamente profonde ragioni storiche nell’arretratezza del Meridione, già evidenti dall’unità d’Italia. Tuttavia, dopo innegabili miglioramenti dal Dopoguerra, la situazione è peggiorata in maniera evidente dall’inizio della crisi a oggi. In Italia il conto della crisi è stato pagato con un tasso di disoccupazione che si è raddoppiato dallo scoppio della crisi finanziaria a oggi, raggiungendo il 12,7% nel 2015. Il problema del Meridione, e dunque di tutto il Paese, è che mentre il tasso di disoccupazione è del 9.5% al Nord, raggiunge il 20,5% al Sud. Come effetto delle politiche in corso, questo squilibrio ha, un’unica prospettiva: quella di aumentare. Il flusso di forza lavoro qualificata da Sud a Nord è inesorabile così come l’impoverimento degli atenei del Sud, che sembrano condannati a chiudere o a diventare una sorta di licei di terz’ordine. Come scrive l’economista Gianfranco Viesti: “Negli ultimi anni, l’investimento pubblico nell’istruzione universitaria nel nostro Paese si è profondamente modificato. In estrema sintesi, tre sono stati i principali cambiamenti: 1) una forte riduzione del suo ammontare; 2) una ripartizione asimmetrica di questa riduzione fra le sedi universitarie e le grandi circoscrizioni territoriali; 3) l’entrata in funzione di meccanismi di allocazione delle risorse assai discutibili, che tendono ad avere un effetto cumulato nel tempo. Tutto ciò può rapidamente portare, senza ulteriori interventi, ad un ulteriore, drastico ridimensionamento di alcune sedi universitarie o alla loro definitiva chiusura”. Questo disegno di dismissione, mai discusso in sede politica, è attuato attraverso valutazioni tecnocratiche, vendute come neutrali e diffusamente accettate nella classe accademica che confonde collanine di vetro colorato con collanine d’oro: è sufficiente che ci sia scritto sopra “valutazione” e “meritocrazia”.

Intervista apparsa su Voci Globali. Hanno collaborato alla sua redazione Antonio Banfi, Giuseppe De Nicolao, Marco Viola, Francesco Sylos Labini.

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12 Commenti

  1. Il problema non è tanto il diritto allo studio,

    ma il diritto AL LAVORO DOPO CHE HO STUDIATO, dopo che ho ottenuto la laurea, il diploma di una scuola di specializzazione o il titolo di Dottore di Ricerca.

    Cosa ci faccio con tutti questi titoli?

    Qualcuno dei commentatori spesso mi critica quando io dico che nei concorsi pubblici devono contare tanto i titoli universitari post lauream, come il dottorato ecc…

    E’ gia, ci sono le prove scritte ed orali, che bisogno c’è dei titoli accademici?
    Ma che obiezione è questa?
    Ma non vi rendete conto che “tutto fa cultura”?
    E non parlo solo dei titoli accademici come il
    Quando, ad esempio, ho dovuto preparare l’ESAME ORALE DI AVVOCATO, ho dovuto superare 6 materie orali, tra le quali diritto civile, diritto costituzionale, diritto internazionale, procedura civile ecc….e questo è un esame di Stato.
    Perché se voglio fare un concorso pubblico queste materie “non mi vengono abbonate?”, non è sempre cultura anche questo?

    Con questo sistema delle prove scritte ed orali dei concorsi pubblici è come se lo Stato dicesse: “la tua laurea, il DOTTORATO, IL CURRICULUM UNIVERSITARIO (pubblicazioni, post.doc., assegni ecc.)E’ MERDA, studiare i manuali per i concorsi pubblici è ORO e vera cultura.
    Ma non vi rendete conto che è tutta cultura?
    Ma non vi rendete conto che cosi facendo si dà vita a quella separazione tra UNIVERSITA’ e MONDO DEL LAVORO che ci portiamo ancora dietro?
    E come se dicessimo: “la laurea è importante, il post lauream, cioè il dottorato e io post. doc. ecc… no.
    E’ come se dicessimo: “la serie B è importante, la serie A no”.
    Condividete questa mia preoccupazione?

  2. Scusi, ma se ha un dottorato o comunque una laurea in legge e una abilitazione alla professione di avvocato, dovrebbe essere lei a spiegarci il motivo per il quale il dottorato non è considerato nei concorsi pubblici (alcuni).
    Tuttavia suppongo che può essere attributo un punteggio al dottorato di ricerca ma non che il punteggio debba per forza sopravanzare sulle prove del concorso, il quale come ben lei saprà è un principio stabilito dalla costituzione. Imparzialità della PA, buon andamento della PA stessa.

  3. @pisa40 :

    Non so perché non conti il titolo di dottore di ricerca, io vorrei, non sono io che faccio il bando.
    2 sono le possibili risposte:

    1)Nei concorsi degli enti locali, si vuole avvantaggiare il candidato che ha la tessera di partito e che ha contribuito al voto di SCAMBIO ELEZIONE-LAVORO, quindi gli viene suggerito il titolo del tema ed è privo di titoli, quindi partirebbe svantaggiato.
    2)Chi fa il bando in buona fede, è affezionato alle norme anni 50, 60, 70, nei quali chi aveva la laurea era un numero esiguo, quindi la selezione non poteva essere fatta se non con le prove scritte ed orali (peraltro non esistevano gli altri titoli, come il dottorato, o gli assegni di ricerca e chi aveva qualche pubblicazione era già strutturato all’interno dell’università.

    In ogni caso, rispondo al Sua supposizione.
    Non sono esperto di diritto amministrativo, ma
    non è dimostrato che il buon andamento della PA possa essere conseguito attraverso l’imparzialità (supposta) a livello concorsuale: tale imparzialità è un’imparzialità al ribasso stile SOVIET, tutti uguali di fronte alle prove scritte ed orali, una stupida uguaglianza formale al ribasso.

    Nella Costituzione vi è un valore, quello del merito, che lo si estrapola dall’art. 34 cost.

    Art. 34 cost. « I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso».

    In questo contesto, si evidenzia il ruolo del merito nel diritto allo studio, ma essendo parametro costituzionale, vale anche per tutte le altre situazioni.

    Ora la domanda: il merito emerge solo della prove scritte ed orali o anche dai titoli che uno si è sudato con anni ed anni di studio post lauream, di pubblicazioni (anche libri, oltre agli articoli, insegnamenti a contratto, dottorati, assegni di ricerca ecc…)?

    Chi ha titoli del genere e lo si fa partire da zero, a pari punti degli altri che non hanno nessun titolo e tutti uguali giù a fare le prove scritte ed orali senza distinzione di titoli, perbacco, secondo me siamo di fronte ad una PALESE VIOLAZIONE DELL’ART. 34 COST.

    CONCLUSIONE:
    Se si vuole far valere l’Università bisogna ESPORTARE LA CULTURA UNIVERSITARIA nel mondo del lavoro; se non basta più la laurea, in quanto tutti sono laureati, è necessario FARE CONTARE I TITOLI ACCADEMICI NEL MONDO DEL LAVORO – anche PUBBLICA AMMINISTRAZIONE -(dottore di ricerca e altro), altrimenti nessuno considera più il valore universitario.

    • Se è per questo nemmeno col titolo dottorale è supponibile l’imparzialità e il buon andamento. Principi che, almeno fino ad ora, sono scolpiti nella pietra e a meno che la corte costituzionale non ci fornisca una nuova interpretazione e/o che qualcuno decida di cambiare la costituzione, sono dei principi da rispettare, pena l’illeggittimità dei concorsi.
      Al punto 1:
      Nei concorsi degli enti locali, si vuole avvantaggiare il candidato che ha la tessera di partito e che ha contribuito al voto di SCAMBIO ELEZIONE-LAVORO, quindi gli viene suggerito il titolo del tema ed è privo di titoli, quindi partirebbe svantaggiato. Se si sa di un illecito si va da un avvocato che sa come poter far valere le proprie ragioni. L’unico metodo per passare un concorso è quello di studiare. I metodi illeciti sono tanti e non fanno testo. Tra l’altro anche il dottore di ricerca può benissimo essere fruitore di un illecito.
      Al punto 2: mi pare insensato richiedere il titolo di dottore di ricerca per assumere personale amministrativo, ancorché dirigenziale (titolo che comunque prevede la normativa attuale). Può essere valutato il titolo, ma non in misura tale da stravolgere gli esiti del concorso (concorso che poi un pulrititolato non dovrebbe aver timore di perdere con un modestissimo laureato).
      Poi non è dimostrato che il buon andamento della PA possa essere conseguito meglio assumendo coloro che hanno conseguito il dottorato di ricerca.
      Infine
      Non capisco dove stia la violazione dell’art.34.
      Piuttosto, assumere solo persone con titolo di dottore di ricerca significa adottare un certo atteggiamento elitario. Magari colui che è privo di mezzi e che non ha potuto raggiungere i più alti gradi degli studi, ma solo una laurea quinquennale, sudata con studi notturni e attività lavorativa similprecaria e senza assistenza, si vedrà sempre e comunque chiusa la possibilità di accedere alle cariche pubbliche di più alto valore pur dimostrando capacità e merito.

    • Credo che abbia linkato l’articolo errato. Non trovo connessioni con quello che stiamo dicendo.
      Nell’articolo l’emigrazione mi pare che sia una buona cosa, richiesta per una maggiore spendibilità del titolo in Italia.
      citando : “almeno per quanto riguarda le partenze dalle metropoli del Nord, spesso si tratta di giovani mandati all’estero dalle famiglie (imprenditori o professionisti della media borghesia settentrionale) per studiare o comunque acquisire conoscenze, competenze e know-how da riversare poi, una volta rientrati in Italia….
      “l’emigrazione va attribuita piuttosto al cambiato contesto professionale, che ormai è globale, soprattutto per quanto riguarda il sistema delle imprese». Un’esperienza di qualche anno all’estero negli anni della formazione universitaria e lavorativa, insomma, è ormai naturale e più che mai incoraggiato”

  4. Mi sembra un articolo poco attendibile …. tutto qui! Ripeto: mi sembra. Si sostiene che l’emigrazione è “buona” e “Lo dimostra il fato che le città da cui nel 2014 si è partiti di più sono Milano (con quasi 3.300 cambi di residenza di giovani tra i 18 e i 39 anni), Roma (quasi 3mila trasferimenti) e Torino (1.650). «Rispetto al passato, si tratta di una emigrazione più limitata nel tempo e di qualità – precisa Mattioni – almeno per quanto riguarda le partenze dalle metropoli del Nord».
    di Giovanna Mancini – Il Sole 24 Ore – leggi su http://24o.it/y1vm9E
    Questo secondo me dimostra solo che quelle sono tre città fra le più popolose … o no?

  5. Premetto che, per rimanere in tema con l’articolo, i fondi che dedica l’Italia ai fini del DSU sono pochi e lo sanno tutti e nessuno, nemmeno io, lo nega.

    Tuttavia c’è da notare che se la borsa di quella ricercatrice era scaduta c’è poco da fare. Non conosco le norme che regolano le borse per i dottorati, ma se la sua borsa aveva raggiunto il massimo del tempo previsto, anziché lavorare gratis poteva non farlo. In Italia ci sono delle basi legali sui cui muoversi per erogare soldi pubblici. Se venisse prorogata una borsa di studio senza una pezza di appoggio, d’altronde, sarebbe illegale. E qualsiasi altro ricercatore potrebbe manifestare il proprio dissenso se vede erogare la borsa sempre alla stessa persona mentre lui non ne beneficia.

    Comunque la metto che l’articolo linkato non ha nessun collegamento con i suoi commenti precedenti, almeno credo, dato che la questione si era spostata sui concorsi e i titoli di studio.

  6. pisa40:

    qui c’è un DIVARIO enorme tra 2 fenomeni:

    1)FINO A 10, 20 o 30 ANNI fa un curriculum corposo, sostanzioso, consistente e oggettivamente molto molto molto meritevole consentiva l’ingresso come strutturato, magari semplice ricercatore a tempo ind., con avanzamenti di carriera.

    2) OGGI, lo stesso IDENTICO curriculum corposo, sostanzioso, consistente e oggettivamente molto molto molto meritevole fa in modo che la persona che ha quel curriculum venga espulsa dall’università, questa è la mia storia e quella di molti altri giovani.

    Su questo possiamo almeno essere d’accordo o dobbiamo dire che non vi è alcun problema?

    Vogliamo per favore porre il problema ed avanzare proposte per non dire che la nostra lunga e prolifica esistenza accademica (12 anni di precariato, sebbene con mille pubblicazioni, mille libri scritti, mille insegnamenti tenuti) sia stata un fallimento totale?
    ALMENO SIAMO D’ACCORDO SU QUESTO?

    • Quanti drammi individuali sono racchiusi nei seguenti grafici?



      La scelta di far scendere l’Italia all’ultimo posto OCSE per numero di laureati e al penultimo come finanziamento dell’istruzione terziaria (in rapporto al PIL) comporta il sacrificio di una generazione di studiosi che sono superflui per una nazione che punta su gastronomia, turismo e produzioni a basso valore aggiunto.

      Un tempo, quei CV erano ritenuti utili. Da quando siamo convinti che siamo un paese di serie B, quegli stessi CV sono un lusso che non possiamo più permetterci.



      E Giuseppe De Rita, riguardo alla crisi del Sud, è ancora più radicale. Altro che dottorati. Non vale nemmeno la pena di laurearsi. Meglio imitare i conigli e fare più figli.


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