Poco più di un secolo fa l’uomo che in qualche decennio aveva saputo trasformare un provinciale college bostoniano nell’università leader della scena accademica statunitense, destinata a diventare il centro di eccellenza mondiale a cui oggi si attribuisce valenza paradigmatica in via quasi discorsiva (…è di Harvard, ha studiato ad Harvard…) distillò le sue idee sul concetto di libertà accademica in un editoriale apparso sulle colonne di quella che, allora come oggi, era una delle più prestigiose riviste scientifiche del mondo (C. W. Eliot, Academic Freedom, Science, Vol. 26, N. 653, July 5, 1907).
Per quasi 40 anni Charles W. Eliot aveva governato sul campo una straordinaria comunità di studiosi, dimostrandosi fra i più convinti alfieri di quel meccanismo di accreditamento rigorosamente privato che nel corso del novecento accompagnerà l’inarrestabile successo del sistema universitario statunitense nel panorama della higher education mondiale [W.K. Selden, Why Accreditation?, 31 The Journal of Higher Education 296, 300 (1960)]. Un’esperienza che non lasciava vivere dubbi: per il decano dei rettori nordamericani, la libertà accademica era un valore fondativo ed essenziale per garantire il successo di una istituzione universitaria. Si era del resto alla vigilia di tempi che avrebbero fatto conoscere al mondo la terribile esperienza del totalitarismo.
Oggi vale la pena di rileggere quelle idee, raccontandole al presente, perché possano tornare a vivere nelle coscienze di tutti. Anche a beneficio di quanti sono pronti ad alludere ad Harvard e all’eccellenza archetipica di quella comunità accademica, per architettare riforme e assetti di governance dell’università che si rivelino in grado di emularne i fasti, per riprodurli nella propria realtà di riferimento.
La libertà accademica possiede tre dimensioni strettamente correlate, tutte capaci di influenzarsi vicendevolmente: la libertà del docente, la libertà dello studente e la libertà senza la quale le prime due non sarebbero possibili: la libertà e l’autonomia di governo dell’università.
Ebbene, per E. in una società democratica la libertà del docente va difesa dalla tirannia della maggioranza, o di quel pensiero dominante che in un dato momento storico può manifestarsi con riferimento ad uno qualsiasi dei nodi centrali della conoscenza e del mutevole sistema di credenze accolte in una società sul piano religioso, politico ed economico.
A questo rischio, secondo E., si deve ovviare prevedendo la tenure of office, ovvero concependo ruoli di insegnamento non sottoposti a termine o rinnovo, l’accesso ai quali è subordinato ad un processo di valutazione rigoroso, preceduto da severi periodi di prova, ma sempre retto in modo esclusivo dalla comunità accademica.
Un privilegio di casta? No. Un meccanismo che all’occorrenza permette al docente, non diversamente dal giudice della Corte suprema degli Stati Uniti che giura sulla Costituzione di fronte al Presidente che lo ha nominato, di votare contro gli interessi dell’istituzione artefice della sua designazione.
Il board of trustee – il consiglio dei finanziatori dell’università – è l’organo su cui grava l’enorme responsabilità di assicurare che questa dimensione della libertà accademica sia rispettata, conferendo il potere di amministrarla a un corpo organizzato di docenti stabili denominato Facoltà. Nessuno dei presidenti delle istituzioni universitarie dovrebbe mai cedere alla tentazione di farsi assegnare poteri statutari volti a comprimere o condizionare, nel determinare le procedure di reclutamento del corpo docente, la libertà dei singoli ricercatori-docenti.
La somma delle libertà così garantite a ciascun docente serve ad alimentare la vera ragione, a un tempo elemento chiave e forza trainante dell’istituzione universitaria: ciò che Eliot chiama “l’esprit de corps” espresso dalla facoltà stessa.
La libertà va tutelata anche facendo sì che nessuno dei gruppi disciplinari prevalga e soffochi l’altro – “è facile che un dipartimento diventi dispotico, specie se in esso opera un personaggio dotato di un ego dominante” – curando che la principale missione del presidente dell’università (o, più in piccolo, del preside della facoltà) sia quella di prevenire o contrastare il verificarsi di queste situazioni.
L’unico vincolo che E. immagina possa limitare la libertà del docente è quello dato dal rispetto dei canoni della cortesia e dell’onore. Sentire che i propri comportamenti possono danneggiare l’istituzione e la comunità a cui si appartiene e comportarsi di conseguenza, evitando di fare cose che, in difetto di quella appartenenza, sarebbe perfettamente lecito compiere in base alle leggi della società civile. È questo peso che deve accompagnare l’agire di ciascun singolo docente e studioso ammesso a contribuire alla vita di una comunità accademica.
Il discorso che E. svolge con riferimento alla libertà accademica dello studente mira invece a promuovere una finalità assai chiara: e cioè che allo studente sia concesso di capire chi è, per costruirsi un percorso educativo rispondente alle proprie passioni, suscettibili di rivelarsi nel confronto con le molteplici possibilità dell’insegnamento.
Alla base di ciò, la consapevolezza che una giovane mente può raggiungere l’eccellenza solo scoprendo e seguendo le proprie inclinazioni, senza esser costretto a seguire corsi nei quali soffrire la perdita dell’interesse, il peggior male che il sistema formativo dell’università deve combattere.
Sviluppare le proprie inclinazioni significa essere in grado di sviluppare la capacità di controllarle, seguendo un percorso di apprendimento concepito per indurre lo studente a darsi da sé i propri limiti. Un percorso nel quale riuscire a maturare la capacità di coniugare le proprie propensioni con una visione realista e rispondente al proprio essere disvelatosi in quel cammino formativo, all’occorrenza tale da indurre a comprendere l’importanza di conseguire quel bagaglio di conoscenze e abilità minime richieste per accedere, al termine del proprio percorso nell’università, al mondo delle professioni.
Questa libertà è anche figlia della necessità di sostenere un percorso nel quale lo studente sia messo nelle condizioni di prescindere dai limiti di reddito impostigli dalla propria base di partenza sociale, nel nome di un rispetto rigoroso del merito, osservato su un piano rigorosamente sostanziale e non meramente formale.
Questi due piani della libertà accademica – la libertà del docente e quella dello studente – per E. sono solo apparentemente suscettibili di esame disgiunto, perché la libertà e i modi per promuoverla e tutelarla (devono essere e) sono al centro di una perfetta solidarietà di intenti, condivisa allo stesso modo da studenti e docenti.
Queste considerazioni sulla libertà dei protagonisti della vita dell’accademia permettono ad E. di disegnare la forma ideale di governo dell’università, quasi si tratti di una profezia destinata a compiersi per rivelare i tratti della suprema forma di governo di tutte le istituzioni di governo dell’uomo, un modo di governare basato sulla cooperazione delle intelligenze e sulla benevolenza universale.
Una università moderna, prodotto di una libera associazione cooperativa di individui dai marcati tratti individualistici votata all’insegnamento e all’avanzamento della conoscenza, possiede un’anima intimamente democratica.
Ovunque fra i suoi scopi vi è la volontà di allevare la capacità di elaborare e produrre idee, passarla da una generazione all’altra, e infine destinare l’enorme complesso di queste capacità tramandate nel tempo allo sviluppo della conoscenza.
Questo particolare tipo di associazione democratica ha bisogno di leaders e di amministratori, ma l’attività di un’università è così radicalmente diversa dall’attività svolta nella politica o nell’impresa, che non sorprende constatare – dice Eliot – come i leaders e gli amministratori dell’università debbano possedere caratteristiche assai differenti da quelle esibite da quanti emergono nell’attività politica o nell’impresa.
Diventa allora interessante chiedersi di quale tipo di leaders e di amministratori l’università abbia bisogno; quale contributo alla libertà accademica possa essere recato dal migliore degli individui che può essere chiamato a guidare un’università; e di quale tipo di libertà quest’ultimo possa avere bisogno per interpretare al meglio il proprio ruolo.
Il governo dell’università è il più delle volte affidato ad un esperto attentamente selezionato, che nella propria vita ha già avuto modo di mettere alla prova e dimostrare le sue capacità.
Costui dovrebbe essere stato a sua volta (prima uno studente e poi) un ricercatore brillante in qualche settore della conoscenza – storia, economia, linguistica, scienze, arti, non importa quali – e dovrebbe aver avuto la possibilità di apprendere attraverso l’esperienza cos’è e cosa implica la produttività accademica.
Proprio come un capitano di industria o come un leader politico, chi guida l’università deve possedere abilità, capacità e conoscenze, deve elaborare un pensiero costruttivo e innovativo, e deve apprezzare l’idea di prendersi cura e di essere responsabile per gli altri.
Ma, rispetto a capitani d’industria e politici emergenti, diversa deve essere la molla che spinge questa persona a rendere un servizio responsabile e laborioso. Una retribuzione elevata o la prospettiva di vivere di agi e ricchezze non devono tentarlo. Questo tipo di incentivi non saprebbe attrarre il giusto tipo di persone nell’amministrazione dell’università, così come del resto nell’insegnamento e nella ricerca. Perché l’uomo post alla guida dell’università non potrebbe in ogni caso essere indotto a fare del suo meglio dalla prospettiva di acquisire un premio in danaro, o un grande potere su grandi masse di individui, o anche ciò che si è soliti definire fama o gloria per la posterità.
Ciò che davvero incentiverebbe questa persona, questo leader ideale dell’università, sarebbe altro. L’utilità e l’alta considerazione sociale per il lavoro svolto. Avere a disposizione quanto serve concretamente per svolgere la propria attività. Un salario sufficiente a consentirgli di concentrare le proprie energie verso la propria missione ideale, e comunque mai tale da evidenziare un divario eccessivo con la retribuzione dei colleghi professori.
Questo esperto dell’istruzione terrebbe in altissimo conto la propria libertà. Egli vivrebbe nella speranza che i finanziatori dell’università, le singole facoltà, gli ex studenti e l’intero contesto sociale nel quale è collocata la sua università lo mettano in condizione di portare avanti i propri piani e le proprie visioni strategiche, essendosi persuasi del fatto che queste ultime siano opportune.
La sua speranza sarebbe quella di sapere che le proprie responsabilità lo mettano in condizioni di beneficiare di una deferenza rinnovata e rinsaldata giorno per giorno dalla stima nei giudizi espressi dai propri colleghi e dagli organi accademici.
In breve, per il leader di una università la libertà accademica è più importante che per ogni altra persona connessa all’università, per la semplice ragione che nell’istruzione, come per qualsiasi altra funzione di un governo democratico o per qualsiasi impresa operante in uno qualsiasi dei settori produttivi del paese, creare e sviluppare attraverso il consapevole esercizio della libertà una vera capacità di leadership è un problema cruciale, il più importante che si pone in seno ad una società che s’intenda dire democratica.
In tutti i campi, la democrazia ha bisogno di veder crescere leaders di grande capacità inventiva, forte iniziativa, con un’attitudine quasi geniale al governo cooperativo e capaci di esercitare i propri rilevantissimi poteri non per tornaconto economico o per amore di dominio sulle coscienze altrui, ma per la gioia procurata dal raggiungimento degli obiettivi, e per la continua e crescente soddisfazione data dal riuscire a rendere un buon servizio alla collettività. Sarebbe esattamente questo il tipo di leader che la democrazia dovrebbe saper produrre per le grandi imprese e per la pubblica amministrazione.
Il comandante militare è necessariamente un autocrate, il sovrano ereditario corre il rischio di rivelarsi un despota o un uomo di paglia. La figura del capitano di industria è troppo spesso mossa da motivi che non sono né altruistici né ideali.
Nessuna di queste categorie di leader si presta ad incarnare il leader democratico del futuro, sia esso chiamato a servire in una grande impresa, nella pubblica amministrazione o in un’università, università che, per essere tale, deve restare, come continua ad ammonire Eliot a cent’anni dal suo discorso, libera, almeno come gli uomini e le istituzioni destinati a guidarla, farla vivere e perpetuarla.
Molto bello. C’e’ un link all’articolo di Eliot? Dopo oltre 100 anni non dovrebbero piu’ esserci problemi di copyright, immagino.
Ecco il link: http://www.sciencemag.org/content/26/653/1.full.pdf
[…] Continua a leggere l’articolo su ROARS […]