L’intervento di Nadia Urbinati su Giustizia e meritocrazia, ci ricorda come, talvolta, anche alcuni concetti di per sé condivisibili rischiano, se male interpretati, di dar luogo a politiche sbagliate. È il caso della “meritocrazia”,  un termine col quale tanti si riempiono la bocca. Quale persona di buon senso potrebbe essere contraria a dare un giusto riconoscimento al merito, specie se lo contrapponiamo al dilagare dell’incompetenza, allo strapotere delle lobby e alla pratica diffusa del nepotismo e del clientelismo?

Ma cosa c’è dietro l’ideologia meritocratica, così come va affermandosi? Nella vulgata neo-liberista, una spietata selezione dei quadri dirigenti in base alle loro competenze tecniche – se non accompagnata da massicci investimenti nell’istruzione pubblica e in un sistema finalizzato a offrire pari opportunità – diviene di fatto un alibi morale e una definitiva legittimazione delle disuguaglianze, che spesso hanno origine nelle condizioni socio-economiche e nell’ambiente di provenienza. Come si può immaginare una valorizzazione del merito e dell’eccellenza indipendentemente dalla provenienza degli individui, senza sentire il bisogno di garantire un punto di partenza equo?  E dire che il termine era stato coniato dal laburista inglese Michael Young proprio per denunciare il rischio di una nuova casta, fondata sul merito scolastico e forse addirittura sul quoziente intellettivo, che avrebbe dominato un mondo in cui i valori del mercato e della competizione avrebbero condizionato ogni aspetto della vita sociale, a cominciare dall’istruzione. Non aveva torto.

Quindi, prima ancora di premiare il merito, la questione da porre con forza è la possibilità per tutti e per ognuno di spendere i propri talenti. Come ha scritto Andrea Ranieri in un bell’intervento pubblicato in questa sede poco più di un anno fa, che ricostruisce e smonta in modo convincente l’inganno meritocratico,  «la base etica della meritocrazia si fonda sulla capacità di promuovere l’uguaglianza delle opportunità, per permettere a tutti di competere ad armi pari nella scuola e nel mercato del lavoro, così da rimettere in movimento il famoso ascensore sociale»; sono questi i presupposti di una pedagogia democratica, che si chiede se sia proprio «vero che i figli della povera gente siano più stupidi di quelli dei signori, come i risultati scolastici facevano pensare». «La motivazione allo studio e all’impegno – prosegue Ranieri – non era quella di prendere l’ascensore per uscire da soli dalla propria classe, ma quella di crescere tutti assieme dando valore alle capacità, che è cosa ben diversa dal merito, che tutti possiedono, e che la scuola deve far emergere e valorizzare […]. In estrema sintesi mi pare che si possa dire che l’ascensore individuale funziona solo quando funziona anche l’ascensore collettivo, quello che misura il crescere in termini di reddito e di consapevolezza delle classi più svantaggiate, e si riduce la disuguaglianza».

Ecco perché l’istruzione è un bene meritorio, in quanto, anche se ne usufruisce solo una parte della comunità, l’opinione pubblica riconosce che essa contribuisce a migliorare la qualità di vita della collettività ed è quindi parte integrante dei valori condivisi e accettati dai suoi componenti. Ed ecco spiegato il motivo per cui essa viene di solito finanziata con risorse pubbliche.

Ma non basta affermare questo principio per vederne realizzati gli effetti. In Italia l’ascensore di cui parlava Ranieri è da tempo fuori servizio. L’analisi empirica della trasmissione intergenerazionale delle disuguaglianze economiche – fenomeno strettamente connesso alla mobilità sociale e alla disparità delle condizioni di partenza – ha destato molto interesse tra i sociologi e, più recentemente, anche tra gli economisti: il nodo può essere individuato proprio nella insufficienza dell’istruzione come leva «per ridurre gli svantaggi che la lotteria della vita assegna a chi nasce in famiglie disagiate»[1].  Per molto tempo l’accesso ad un livello di istruzione più elevato rispetto a quello raggiunto dai propri genitori è stato sufficiente per consentire ai giovani l’inserimento ad un gradino più alto della scala sociale. Ora non è più così: risulta sempre più difficile riuscire a perforare il tetto che divide lo strato sociale di appartenenza da quelli immediatamente superiori. Una società poco dinamica, con scarsa mobilità, addirittura bloccata, rende improbabile la realizzazione di queste eventualità.

Il Rapporto sul Benessere equo e sostenibile pubblicato da Istat e Cnel, ha evidenziato che in Italia la solidarietà familiare pesa più che altrove. Questo fenomeno ha attutito i danni del definanziamento delle politiche di welfare, ma ha anche dei risvolti negativi, fino a diventare un nemico del merito. Lo ha sottolineato molto bene Franzini in un altro suo volume, parlando dei vantaggi di cui godono i figli dei ricchi e dei potenti: «Le relazioni sociali sembrano essere la risorsa principale che le famiglie mettono a disposizione dei loro figli. Una risorsa anche più importante, nel determinare i vantaggi di questi ultimi, del capitale umano che, invece, ha un ruolo preminente in altri paesi nei quali la trasmissione intergenerazionale è di intensità simile. […] Il capitale umano è, per noi, certamente un problema ma non è il problema principale per la trasmissione delle disuguaglianze. Qui domina, se si può usare questa espressione, il capitale relazionale che, in questa accezione e a differenza del capitale umano, ha valore solo per chi lo possiede e non anche per la società nel suo complesso»[2].

Se vogliamo evitare che le differenze esistenti fra i gruppi sociali si trasformino di fatto in una rigida separazione fra caste in cui si rischia di rimanere imprigionati, occorrono politiche per l’istruzione mirate ed efficaci, coerentemente inserite all’interno di un quadro complessivo di trasformazione della società in senso progressivo, e quindi anche un sistema economico capace di assorbire e valorizzare le competenze che così verrebbero generate. L’elevato tasso di disoccupazione o di sottoccupazione intellettuale che si riscontra in Italia, pur in presenza di un numero di laureati inferiore a quello di altri paesi, sta a dimostrare che attualmente il nostro apparato produttivo non richiede personale con alti livelli di istruzione.

Una politica per l’uguaglianza e la giustizia non può essere slegata da una politica per l’istruzione e per uno sviluppo knowledge-based. Solo in questo modo potremo davvero «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese», come recita l’art. 3 della nostra Costituzione repubblicana.



[1] Maurizio Franzini, Ricchi e poveri. L’Italia e le disuguaglianze (in)accettabili,  Milano, EGEA – Università Bocconi Editore, 2010, p. 62.

[2] Maurizio Franzini, Disuguaglianze inaccettabili. L’immobilità economica in Italia, Roma-Bari, Laterza, 2013, p. 129-130.

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6 Commenti

  1. L’opportunità di ricercare un compromesso, tra un’evoluzione [tecnologica e sociale] “knowledge-based” e uno sviluppo [tecnologico] “market-driven”, si è presentata a inizio anni ’90.
    Putroppo non è stata colta e, ancor più purtroppo, non ce ne siamo ancora accorti.
    A questo dobbiamo il dilagante fenomeno della politica “cinguettata” e il mito dei “nativi digitali”.

  2. Certo che le condizioni in cui si costruisce la propria competenza e prima ancora la preparazione formale sono fortemente diversificate tra i singoli. Bene, di questo ci occupiamo nell’esaminare e nel proporre soluzioni che da ingiustizia per i singoli arrivano ad essere una opportunità mancata per la società. Dovremmo farlo seriamente, con rigore, per ragioni etiche e per un interesso diretto per la maggioranza che esclude i privilegiati.
    Ma OGGI, se dobbiamo far operare nostro figlio di appendicite, abbiamo bisogno di un chirurgo che sappia operare. Ad un livello di astrazione più alto, se abbiamo bisogno di docenti nel più alto livello d’istruzione, se abbiamo bisogno di ricercatori in grado di sviluppare innovazione, selezioniamo individui all’altezza del compito. Non lo facciamo solo per necessità contingente, lo facciamo anche per indicare chiari obiettivi per chi si forma.
    Selezionare individui capaci, con criteri trasparenti e riproducibili, è un obbligo nei confronti di una società che si vuole si sviluppi. Questa è un’azione indipendente dal fornire opportunità d’istruzione, ma è invece indissolubilmente legata alla qualità dell’insegnamento nell’assegnare cattedre.
    Proprio se vogliamo che il capitale relazionale non continui a pesare in questo paese in modo abnorme e tanto maggiore quanto più è elevata la “casta” di provenienza, bisogna selezionare per merito come indicatore della capacità, ma oggi, non in un futuro idealizzato. Se anche selezionare per merito oggi può avvantaggiare chi è partito in condizioni migliori, non selezionare nella sostanza, peraltro possibile solo nel pubblico, cementa una società in cui il capitale relazionale inchioda gli individui nella classe sociale di appartenenza. Non vogliamo mantenere i raccomandati attraverso il concetto che la meritocrazia blocca la mobilità sociale.

  3. Continua a sfuggirmi come mai, finché non avremo risolto il problema delle disuguaglianze sociali (di fatto un’utopia, la solita utopia…), non potremmo avvalerci di strumenti di meritocrazia di fatto universalmente riconosciuti (piaccia o no, non abbiamo nulla di meglio adesso!).

  4. […] Il Rapporto sul Benessere equo e sostenibile pubblicato da Istat e Cnel, ha evidenziato che in Italia la solidarietà familiare pesa più che altrove. Questo fenomeno ha attutito i danni del definanziamento delle politiche di welfare, ma ha anche dei risvolti negativi, fino a diventare un nemico del merito. Lo ha sottolineato molto bene Franzini in un altro suo volume, parlando dei vantaggi di cui godono i figli dei ricchi e dei potenti: «Le relazioni sociali sembrano essere la risorsa principale che le famiglie mettono a disposizione dei loro figli. Una risorsa anche più importante, nel determinare i vantaggi di questi ultimi, del capitale umano che, invece, ha un ruolo preminente in altri paesi nei quali la trasmissione intergenerazionale è di intensità simile. […] Il capitale umano è, per noi, certamente un problema ma non è il problema principale per la trasmissione delle disuguaglianze. Qui domina, se si può usare questa espressione, il capitale relazionale che, in questa accezione e a differenza del capitale umano, ha valore solo per chi lo possiede e non anche per la società nel suo complesso»[2]. […]

  5. Va bene, bisogna migliorare l’istruzione, renderla più accessibile etc etc. Poi a me oggi serve un chirurgo (o un ferroviere, un meccanico, un filosofo, un archeologo, un cuoco etc) , e vorrei il migliore, anche se fosse il rampollo dei Rothschild. Nessuno ha la ricetta semplice per definire chi sia il migliore, ci possono essere un milione di variabili, ma il reddito del papå non è tra queste.

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