Quale destino per l’imponente e assurda macchina delle abilitazioni?
- Un po’ di storia
In un bel saggio, purtroppo poco conosciuto, e significativamente intitolato “Considerazioni sulla grandezza e decadenza dei concorsi universitari in Italia (Quaderni di Storia n. 71 (2010)) il fisico matematico Sandro Graffi ha confrontato gli esiti dei concorsi universitari di Matematica svoltisi nel primo cinquantennio della storia unitaria con il giudizio storico, ormai definitivamente assestato, sulla qualità scientifica dei vincitori (e degli sconfitti) ed è giunto alla lapidaria e argomentata conclusione che il meccanismo concorsuale poteva funzionare sostanzialmente bene finché operava per un’università d’elite e ha inevitabilmente cessato di funzionare non appena ha dovuto rispondere alle esigenze, qualitative e quantitative, dell’università di massa.
Se giudichiamo fondata quest’analisi non ci stupiremo nel constatare che nel corso dell’ultimo secolo i meccanismi concorsuali sono stati molte volte modificati, con periodicità all’incirca decennale, provando e riprovando, ossia tentando ogni strada e il suo contrario, e più volte tornando al caso precedente, senza che si sia mai configurata, anche soltanto vagamente, una soluzione plausibile all’esigenza di selezionare la docenza universitaria garantendo al tempo stesso la trasparenza delle procedure e la qualità delle scelte.
Negli ultimi due decenni la parziale implementazione normativa del principio costituzionale di autonomia, non sostenuta da un’adeguata riforma della governance e non accompagnata dall’attivazione di meccanismi di valutazione ex post, e inserita in un contesto caotico (scarsità di risorse economiche, pesanti riforme degli ordinamenti didattici, stati giuridici della docenza arcaici, inesistenti o demenziali, perenne alternanza di Ministri e di Ministeri) ha prodotto un’ulteriore caduta delle residue barriere etiche e deontologiche che in non pochi casi avevano comunque consentito il mantenimento di standards quasi internazionali nelle concrete pratiche di selezione e cooptazione.
Le circostanze politiche ed economiche interne e internazionali hanno fatto il resto, e l’università italiana si è in poco tempo ridotta a una Testa di Turco da esporre al bersaglio e al ludibrio della pubblica opinione, anche grazie a ben orchestrate campagne di stampa, accolte con entusiasmo iconoclasta non solo dai tanti seguaci del Grande Fratello (orwelliano) che popolano le nostre contrade, ma anche da molti tra i maggiori beneficiari dei privilegi di casta che chi è riuscito a collocarsi in posizioni strategiche (come le istituzioni “di eccellenza”) ancora riesce a salvaguardare.
- Rimedi peggiori del male
Un Ministro esecrabile, del(la) quale non si può che auspicare una vera damnatio memoriae, combinando perfetta ignoranza dei problemi (ignorance is strength) con levantina astuzia politica ha usato il terreno dell’università per giocare una partita di auto-affermazione conclusasi con l’approvazione di una riforma chimerica (nel senso dell’omonimo mostro mitologico), capace di combinare alcune importanti acquisizioni del precedente dibattito culturale sull’autonomia con il determinato e intransigente recupero di alcuni capisaldi dello storico centralismo ministeriale, vanificando nella sostanza le prime senza fare i conti con l’ormai largamente dimostrata incapacità del Ministero di gestire processi ormai talmente differenziati e complessi da non poter essere regolati con norme unitarie, neppure se concepite da menti giuridiche geniali (di cui peraltro non v’è grande abbondanza).
Non v’è dubbio che gli aspetti più deliranti della Legge 240/2010 si annidano nel Titolo I, dedicato alla governance degli Atenei, ma anche il Titolo III, relativo al reclutamento, pur partendo da un impianto concettuale abbastanza condivisibile (frutto di quel dibattito culturale cui si faceva cenno in precedenza) nasconde nelle sue pieghe normative (in cauda venenum) le tracce di quell’ansia centralizzatrice e normalizzatrice e di quella volontà quasi persecutoria che caratterizzano la “cultura di governo” di chi ha voluto quel testo. Sono stati necessari diciotto mesi per emanare tutti i decreti necessari all’effettivo avviamento di un meccanismo di reclutamento di cui già un anno prima dell’approvazione della legge si avvertiva tutta l’urgenza. Quando si potrà davvero reclutare nuovamente saranno passati almeno cinque anni dalle ultime valutazioni comparative, e almeno diecimila dei quasi quarantamila professori a suo tempo in servizio se ne saranno andati in pensione.
La storia anche recente dell’università ci insegna che questo fatto rappresenta già di per sé un danno epocale, al quale non sarà facile porre rimedio in meno di una generazione: basti pensare che il sistema universitario non si è ancora oggi del tutto ripreso da alcuni dei danni prodotti dal DPR 382 del 1980. Ma i peggiori esiti del furore ideologico incapsulato nella Legge 240 non si sono forse ancora manifestati, in quanto la comunità accademica non ha ancora potuto beneficiare dell’effetto dei “criteri e parametri” che dovrebbero d’ora in poi governare tutti i processi di reclutamento accademico, impedendo definitivamente ogni perverso arbitrio commissariale nella valutazione dei candidati. Poco male per i “criteri” che, convertendo in norma giuridica i più elementari principi di buon senso accademico, avranno la stessa efficacia (e possibilità di verifica) di una legge che obbligasse a lavarsi i denti prima di andare a letto. Ma i “parametri”, quelli sì che mostreranno la devastante potenza che può avere una norma cervellotica se posta nelle mani di una burocrazia occhiuta e pervasiva, di una giustizia amministrativa perennemente tentata dal giudizio di merito e soprattutto di una comunità ormai psicologicamente delegittimata a formulare autonomi giudizi.
L’Italia scopre oggi, con il consueto ritardo, la bibliometria, una “scienza” forse non più tanto in auge nei paesi che l’hanno vista nascere (e che comunque in nessun angolo del pianeta è mai entrata a far parte della locale legislazione), e trasforma in norma un dato statistico, per di più sotto molti profili opinabile. Proviamo a immaginare l’impatto di una legge che dicesse che metà dei medici non è più autorizzata a formulare una diagnosi. Ma non è tutto: aggiungiamo che il parametro discriminante potrebbe essere il numero dei pazienti assistiti in passato, e per maggior garanzia si potrebbe fare una graduatoria sulla base del numero h di pazienti che sono sopravissuti almeno h anni alle cure, indipendentemente dal fatto che siano stati curati per il cancro o per le emorroidi. Penso che, malgrado i casi anche numerosi di malasanità, l’opinione pubblica si ribellerebbe a norme di questo genere. I Romani antichi, che certamente amavano il diritto, avevano però un principio che oggi sembra dimenticato: summum ius, summa iniuria
- Esiste una cura?
C’è una sola via d’uscita, ed è molto stretta. Occorre uscire dal tunnel delle interpretazioni burocratiche e dei cavilli giuridici (un tunnel più lungo e più inverosimile di quello dei neutrini) e assumersi fino in fondo le proprie responsabilità. Toccherà in primo luogo ai cirenei che si candideranno come commissari chiarire fin dalla prima seduta se e in quale misura intenderanno assoggettarsi a regole di validità indimostrata (e probabilmente indimostrabile), e quali saranno invece i loro criteri. E poi però dovranno rispettare davvero i propri criteri, costi quel che costi in termini di consenso accademico. E toccherà al resto della comunità far sentire con forza a coloro che si assumeranno questa responsabilità che questo è ciò che la maggioranza di noi si aspetta da loro, niente di più ma neanche niente di meno. E bisogna sapere fin d’ora che ci saranno comunque errori, e che non basterà la buona fede a evitarli. E ci saranno ricorsi, talvolta irragionevoli (ma non per questo destinati a peggior sorte). Ci saranno attacchi sui giornali e attacchi politici.
Ma se crediamo ancora nell’università la strada è questa. Se poi non ci crediamo più, buona mediana a tutti.
Sorbole, boia d’un mond lader.