giannino baroniNegli ultimi mesi il mondo universitario ha iniziato un movimento di contestazione che, per certi aspetti, ha dimensioni maggiori dell’ultima stagione di lotta universitaria, contro la approvazione della legge 240/2010. In questo quest’epoca di reazioni istantanee e di totale assenza ad ogni filtro, si è in parallelo sollevato il solito polverone di luoghi comuni. Chiunque si prenda la briga di leggersi i commenti, ad esempio, agli articoli sulla ricercatrice che ha zittito la Giannini o che riportano le posizioni di professori di punta a sostegno della protesta troverà la solita litania di accuse contro la classe dei professoroni: raccomandati, corrotti, nulla facenti.

Parte di queste accuse sono però mosse anche dall’interno del mondo universitario. Non è un segreto per nessuno che i concorsi universitari sono spesso “pilotati” in modo da far vincere chi ne era predestinato. La stima di quanto grande sia questo fenomeno è al di là delle intenzioni di questo scritto. Così come è indiscutibile che la crisi del sistema universitario pubblico non è dovuta al sistema di corruzione, a prescindere da quanto possa essere esteso, ma è la necessaria  (cercata?) conseguenza di molti anni di cattiva gestione centrale e taglio radicale delle risorse.  Detto questo, il problema di concorsi irregolari nella forma e nella sostanza è un problema serio, che dovrebbe essere affrontato sia per motivi “tattici”, come riposta ad accuse generalizzate, sia come strumento migliorativo del sistema. Di seguito si propongo alcune riflessioni in merito.

Una premessa è necessaria, visto la delicatezza dell’argomento. Chi scrive è un docente universitario, e, confesso, una volta ho usufruito di una raccomandazione: nel 1991, per evitare la leva nell’esercito durante la stesura della tesi di laurea, ho colto un’occasione per svolgere il servizio di leva nei Vigili del Fuoco, cui, ai tempi, si accedeva esclusivamente mediante segnalazione di uno sponsor. Successivamente ad un periodo di studi all’estero (senza alcun finanziamento italiano) ho deciso di tornare in Italia per motivi familiari, e di conseguenza ho partecipato a decine di concorsi per dottorato, borse di studio, posizioni da ricercatore e da associato. Dopo la mia dose di umiliazioni, risultando sconfitto da candidati molti fragili, almeno come curriculum, sono riuscito a vincerne due, senza alcuna raccomandazione, prima per un ente pubblico di ricerca e poi, finalmente, per l’università. Lo scopo di questa premessa è di chiarire che non ho alcuna intenzione di difendere un sistema di selezione che, personalmente, ritengo abbia pesantemente danneggiato la mia carriera impedendomi di far parte delle istituzioni che avrei preferito. Non posso neanche però ergermi a vittima di un sistema che, con tutti i limiti, mi ha favorito più di tanti altri colleghi. Da questa prospettiva provo a spiegare il motivo fondamentale della “corruzione” nei concorsi.

Quali sono i motivi per cui si “truccano” i concorsi? Oltre a quello evidente, ottenere “utilità” dal favorire un candidato che mai avrebbe vinto senza l’aiutino, ve ne è un’altro, che, a mio avviso, è il prodotto della necessità, diciamo la “corruzione virtuosa”, che funziona da comoda copertura per le violazioni di interesse. E’ necessario ricordare che nei concorsi universitari vale il principio di legge per cui si deve selezionare il “migliore” tra tutti i candidati, e che la commissione è libera di valutare quello che vuole come vuole, senza alcun vincolo sostanziale. Uno dei problemi è che raramente risulta facile, o addirittura possibile, distinguere il “migliore” tra candidati che, come ogni persona di scienza, ha esperienze e caratteristiche uniche. Il lavoro del docente universitario è fatto di tanti aspetti, ad esempio didattica e ricerca, e non è detto che le capacità in una attività si trasferiscano anche sull’altra. Anche solo limitandosi alla ricerca, accogliendo la prassi (deleteria) di ignorare la didattica ai fini valutativi, la maggior parte dei concorsi vede candidati che sono hanno specializzazioni diverse, e di conseguenza la definizione di “migliore” deve necessariamente basarsi su criteri soggettivi su quale settore sia il più rilevante. Utilizzando la solita metafora calcistica, è come se un presidente di una società calcistica selezionasse i migliori calciatori ignorando i loro ruoli. Avere un Messi in squadra sicuramente aiuta, ma se dovesse servire un portiere prendereste un piede fatato che non arriva a toccare la traversa? Tentare di risolvere la questione con una definizione dettagliata non risolve il problema, come può testimoniare chi, come me, ha visto la gran parte delle sue pubblicazioni ignorate perché “non in perfetta aderenza al Settore Scientifico Disciplinare”.

Il problema fondamentale che conduce alla necessità della “corruzione virtuosa” è che un centro di ricerca come un dipartimento non è un insieme di monadi operanti per conto proprio, ma un organismo che richiede coordinazione e complementarietà. Quindi aggiungere un elemento ad un gruppo di ricerca senza alcuna considerazione per il contesto nel quale andrà ad operare porterebbe necessariamente alla distruzione della “conoscenza collettiva”, fondamentale per la ricerca come per la didattica.

Come si può quindi avere contemporaneamente un giudizio che ponderi correttamente il valore (anzi, i valori) dei candidati con le necessità delle istituzioni che li devono accogliere? Il problema non è semplice, e sicuramente non è solo italiano, come sa chiunque abbia frequentato istituti di ricerca all’estero dove sempre si annidano persone che, diciamo, godono di stima ridotta da parte dei colleghi. La percezione di corruzione in questi contesti è comunque molto minore, e vale quindi la pena indagare per possibili strumenti che potrebbero facilmente applicarsi anche al caso italiano.

La maggiore differenza tra l’Italia e almeno alcuni dei paesi considerati “virtuosi” è la assunzione diretta di responsabilità da parte di chi è coinvolto nelle selezioni. Ad esempio, è pratica comune che i candidati per una posizione indichino uno o più nomi di prestigiosi studiosi, i quali sono chiamati a dare le loro impressioni sul candidato, elencandone pregi e possibili difetti. La scelta di chi scrive la recommendation letter è molto delicata, implicando un delicato equilibrio tra prestigio dello scrivente e conoscenza approfondita del candidato. Non è raro il caso che chi scrive la lettera raccomanda, più o meno esplicitamente, di non selezionare il candidato, allo scopo di non compromettere la sua reputazione.

Le raccomandazioni sono quindi istituzionalizzate, e chi ne firma una è moralmente responsabile di eventuali divergenze tra qualità dichiarate e dimostrate dal un candidato. Scrivere lettere che risultano ingiustificate impedirà non solo il riconoscimento di future raccomandazioni, ma comprometterà anche il rapporto di fiducia tra il ricercatore e l’istituzione. Vale la pena rovinarsi un rapporto fiduciario per, forse, contribuire ad una posizione ingiustificata?

Anche le commissioni possono essere responsabilizzate, invece di permettere loro di nascondersi dietro il ruolo fintamente tecnico (ma sostanzialmente impossibile) di individuazione del meglio in assoluto. Dovendo giustificare le motivazioni delle loro scelte, pubblicizzando i giudizi espressi sui candidati e permettendo un facile confronto tra questi ed i risultati conseguiti nel corso della carriera, può scoraggiare almeno i comportamenti più indecorosi. Ovviamente, ogni commissione che arriva al punto di farsi sanzionare dal TAR deve aver interdetta la possibilità di ripetere lo stesso errore, almeno per un periodo congruo di tempo.

5-things-you-should-never-do-in-a-job-interviewUn altro aspetto che bisogna affrontare è la necessità di distinguere tra le progressioni di carriera di personale in forza ad un ateneo e le assunzioni esterne di nuovo personale. L’ipocrisia di ipotizzare
una competizione equilibrata tra chi aspira ad un riconoscimento di anni di lavoro svolto all’interno di una istituzione e chi, dall’esterno, vuole entrare in un ateneo, è causa di un gran numero di concorsi-scandalo. Una semplice distinzione delle risorse, con quote minime vincolanti, per le due distinte operazioni ridurrebbe la necessità di “forzature”, permettendo ai concorrenti di avere un po’ di fiducia in più sulla correttezza dei commissari.

In conclusione, non credo esistano ricette che garantiscano la cessazione di comportamenti clientelari quando non proprio corrotti. Al fondo, è una questione dignità e reputazione: di fronte a persone prive di ogni scrupolo non c’è altra difesa che la pubblicità dei suoi atti. Chi sa che le sue scelte saranno rese pubbliche, e potrebbe essere chiamato a giustificarle in futuro, avrà maggior coraggio nell’opporsi a pressione improprie.

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40 Commenti

  1. ridicolo, semplicemente. 500 lavori è un numero da far riflettere. per le citazioni è ben nota la presenza di ring of citations con moderatori che regolano i flussi. A nessuno sembra strano però osservare autori che decuplicano il numero delle citazioni da un anno all’altro….bisogna isolare e punire questi comportamenti, temo però che la strada sia lunga prima di vedere qualche serio ripensamento.

  2. Io ho preso l’abilitazione a PO alla prima ASN, ma fatico a far uscire più di 3-4 articoli decenti all’anno dal mio gruppo (un PO prossimo alla pensione, due dottorande due tecnici) nonostante abbia collaborazioni ultradecennali con colleghi EU ed extra EU. Ovvio che con questi colleghi non ci siamo mai scambiati i nomi, né mi è mai stato proposto di moltiplicare pani e pesci. Abbiamo progetti insieme, ma alla fine se ognuno fa qualcosa e ognuno pensa alla stesura delle sue parti, c’è sí crescita culturale, ma i lavori non si moltiplicano.
    Per es. un collega del Sudafrica è stato da me un paio di mesi per seguire delle analisi in laboratorio che da alcuni doppi ciechi davano risultati discordanti: ci siamo imbottigliati in una faccenda che solo ora, da novembre dell’anno scorso, ne stiamo uscendo fuori. Sei mesi in cui sia da me che da lui non abbiamo fatto altro che ripetere e ripetere: ora ci mettiamo a scrivere e se tutto va bene per nov 2016, ossia un anno dopo il lavoro sará pubblicato. Nel frattempo abbiamo fatto anche altro, ma quando hai la testa impegnata in una questione (la ricerca, chiamatela pure Piccolo Chimico) il resto passa in secondo piano.
    Quindi mi meraviglio tanto di curriculum che da 5 lavori in 15 anni ora sono passati a 10 all’anno.
    Anche perché ricordo il mio concorso a PA, senza santi in paradiso, in cui mi chiesero di tutto e di piú sui miei lavori: per ciascun lavoro mi fu chiesto qualcosa, quando fu chiaro che non solo avevo lavorato in laboratorio, ma avevo anche scritto mollarono la presa. In particolare fu il presidente a farmi i complimenti quando risposi a una domanda molto profonda e specifica spiegando che se il commissario scorreva di 4 righe sotto al grafico n. 3 avrebbe trovato tutti i chiarimenti e che comunque il metodo era una variazione di quello descritto 2 anni prima da un autore neozelandese (forse proprio quello di aldo, giovanni e giacomo ne “anvur figlio di miur”)…
    Ecco se ci fosse garanzia di queste commissioni, forse i curriculum da un paper al mese avrebbero le ore contate.

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