L’Agenzia Nazionale per la Valutazione dell’Università e la Ricerca (Anvur) si appresta a svolgere la valutazione della qualità della ricerca (Vqr), con cui si vorrebbe quantificare la qualità della produzione scientifica di questo paese. Un’opera senz’altro importante per capire quale siano le reali potenzialità e i limiti del sistema: si comincia sapendo che la ricerca italiana si posiziona all’ottavo posto al mondo come articoli scientifici e citazioni di questi. In pratica, ogni docente universitario deve selezionare 3 pubblicazioni tra il 2004 e il 2010 e ogni ricercatore degli enti di ricerca 6 per lo stesso periodo. In totale si avranno circa 250,000 pubblicazioni da esaminare e il costo dell’intera operazione può essere stimato essere di circa 300 milioni di euro. Ricordandoci che il finanziamento all’università si posiziona agli ultimi posti tra i paesi con cui vorremmo “competere”, ci si chiede se a questo notevole investimento di risorse pubbliche corrisponderà un adeguato “ritorno”. Chiaramente la risposta a questa domanda dipende da come sarà eseguita la valutazione. Per usare una metafora, se si ha la polmonite è chiaro che bisognerà curarsi. Se come cura il medico proporrà un costoso ciclo di fisioterapia per l’artrite non si avrà un gran vantaggio.
La comunità scientifica è dunque chiamata non solo a farsi valutare, ma a vigilare che la valutazione sia eseguita in maniera trasparente, da persone competenti che rispettanodegli standard internazionali, acquisiti in quei paesi dove da parecchi anni si è costituita un’agenzia della valutazione. Quest’opera d’analisi è stata svolta da molti autori che hanno scritto contributi tecnici sul sito Roars che hanno fatto nascere un dibattito che altrimenti non sarebbe stato presente, vista la superficialità, e spesso la mistificazione, con cui i media trattano i problemi dell’università e dato che il tema di cui si discute somiglia al calcio: come al bar tutti sono potenziali allenatori della nazionale così qualsiasi ricercatore pensa di essere un innato esperto di valutazione. Ovviamente non è così, e la valutazione, come qualsiasi altro campo del sapere, richiede approfondimento: il mero fatto di essere dei valenti scienziati non implica di saper maneggiare le tecniche che servono per valutare un sistema universitario.
Ad esempio bisogna aver studiato le esperienze d’altri paesi. Nel Regno Unito, dopo un’approfondita indagine svolta tra il 2008 e il 2009, l’agenzia di valutazione ha escluso che si potessero usare indicatori bibliometrici per giudicare in modo automatico le pubblicazioni scientifiche. L’Anvur, senza aver svolto alcun’indagine, userà gli indicatori bibliometrici secondo regole improvvisate per l’occasione e scientificamente discutibili. In Australia avevano lavorato dal 2008 al 2010 per classificare le riviste scientifiche, ma nel 2011 hanno abbandonato questa tecnica riconoscendone i potenziali danni. L’Anvur, ignorando il precedente australiano, ha classificato le riviste in meno di tre mesi, con risultati affrettati e talora palesemente assurdi.
Per difendere le proprie scelte, come sottolinea Giuseppe De Nicolao, “…Andrea Bonaccorsi, membro del consiglio direttivo Anvur e vice coordinatore della Vqr, riporta una comunicazione personale anonima che attribuisce il ritiro della classifica delle riviste nella valutazione nazionale australiana non a debolezze metodologiche, ma a pressioni politiche esercitate da influenti ricercatori ed opinion-maker. Tuttavia, alla luce della letteratura internazionale, la lettura di Bonaccorsi, non priva di una sfumatura cospirativa, appare scientificamente isolata e alquanto irrituale per un documento ufficiale.” Questa maniera di procedere è semplicementeinaccettabile. Le voci di protesta ci sono (vedi ad esempio qui e qui) ma non sembrano scalfire il manovratore.
Alcuni non si preoccupano più di tanto di queste quisquilie. A parte gli eterni irrecuperabili distratti, ci sono quelli che pensano “meglio questo che niente”, “ma tanto cosa vuoi che cambi”, “una metodologia vale l’altra”, e il retro pensiero di molti è che chi critica la valutazione è in fin dei conti contrario. La possibilità che si pretenda uno standard di professionalità minimo nel paese degli arruffoni non è proprio contemplata. Chi giudica dovrebbe dare l’esempio; inoltre una valutazione mal fatta può condizionare negativamente non solo le carriere dei singoli ricercatori ma interi campi di ricerca. L’unica maniera di contrastare questa deriva civile prima che culturale, è quello di ribattere con analisi circostanziate e documentate.
Molti iniziano a pensare che l’unico modo di fermare la macchina Anvur sia quella di muoversi sul fronte giuridico, mentre negli enti di ricerca si considera anche diboicottare il Vqr. Non varrebbe forse la pena di fermare le macchine, come propone la Flc-Cgil, e ripensare a tutta l’operazione, tenendo conto anche delle riflessioni che possono emergere da un sano e trasparente confronto pubblico sul tema? Troppi sono i punti oscuri e sbagliati di un’operazione organizzata in modo troppo affrettato. E’ evidente che andando avanti in questa maniera l’unico risultato tangibile che si otterrà sarà la perdita di credibilità della valutazione della ricerca in Italia prima ancora che sia stata introdotta. Che sia questo il vero obiettivo?
Caro FSL,
condivido le tue garbate considerazioni, che leggo con qualche ritardo rispetto alla redazione. Desidero sottometterne a te ed alla comunità alcune riguardanti l’ambito della abilitazione e dei valutatori. Il settore in cui mi (di)batto, da anziano precario della docenza, è la didattica nell’ambito delle professioni sanitarie, in particolare della fisioterapia, che afferisce a Medicina in termini di Facoltà. Dall’analisi dei criteri di valutazione per ottenere l’abilitazione, risulta evidente la mancanza di qualsivoglia attribuzione ai titoli o “meriti” didattici, a favore di titoli legati alla ricerca che tu stesso consideri discutibili. Credo che qui si possa individuare una lacuna ontologica che non rende giustizia ad una delle principali “mission” dell’università in alcuni indirizzi di studio (come le professioni sanitarie): formare professionisti ad alto impatto sociale (salute, stile di vita, autonomia dell’individuo, costi sociali). La docenza in questi corsi è affidata, per le materie “del sapere” esclusivamente a Docenti con formazione diversa (medici, biologi, ) e per le materie del “saper fare” quasi esclusivamente a docenti in possesso di contratto da dipendenti ASL, in virtù di accordi fra aziende sanitarie ed università. In sostanza i docenti sono equamente divisi fra cultori di altri saperi e professioni e docenti delle materie “professionalizzanti” filtrati, in tempi ben antecedenti, attraverso il canale del concorso pubblico per svolgere una determinata professione in ambito dipendente e non già per insegnarla.
La seconda lacuna ontologica traspare dalle categorizzazioni dei settori concorsuali e dalle relative valutazioni dei titoli.
Suddivido la lacuna in due sottoinsiemi: in primis confluenza di profili diversi in medesime categorie, con conseguente impossibilità di comparare equamente percorsi universitari caratterizzati da start lines diverse; il corso di laurea di medicina annovera numerose specializzazioni e numerosi dottorati (numerose pubblicazioni) esistenti da tempi memorabili, i corsi di laurea nelle professioni sanitarie prevedono un’unica laurea specialistica comune per le venti diverse professioni (tra l’altro priva di contenuti professionalizzanti). Ne consegue una evidente discriminazione nei confronti dei professionisti sanitari , ove questi ultimi si trovano ad avere come competitors medici e biologi specialisti (5 H1 anatomia , 6F4 malattie apparato locomotore, 6N1 scienze delle professioni sanitarie, 6B1 medicina interna -che comprende reumatologia e medicina dello sport- )
In secundis si evincono incongruenze fra indicatori bibliometrici richiesti in settori similari, ove 6F4 malattie apparato locomotore prevede indicatori bibliometrici inferiori a 6N1 scienze delle professioni sanitarie
Concludo tornando alla garbata provocazione contenuta nel tuo titolo: se la selezione dei valutatori, come sembra giusto ed evidente, nasce da una selezione nelle gerarchie universitarie il gap professionale fra valutatore e valutato risulterà difficilmente colmabile, come l’esempio della polmonite curata con la fisioterapia fa preconizzare, ma in senso contrario.
L’inquietante quesito per il prossimo futuro è: chi insegnerà ai futuri logopedisti fisioterapisti, neuropsicomotricisti la professione? Quali professionisti avremo a disposizione sul territorio?