Il 30 novembre sono scaduti i termini (più volte prorogati) per la presentazione al ministero dei risultati dell’Abilitazione scientifica nazionale. Si tratta di un passaggio importante, almeno in teoria, per  il settore nevralgico del reclutamento e delle carriere nel mondo accademico, uno dei nodi strutturali su cui la riforma del 2010 ha operato più in profondità e con i risultati più nebulosi e incerti. Soltanto chi da questa procedura di verifica del curriculum e dei risultati scientifici otterrà l’idoneità nel settore di riferimento potrà aspirare all’ingresso in una delle due fasce stabilizzate dell’insegnamento universitario.

Per ora (la mattina dell’11 dicembre), i funzionari ministeriali hanno proceduto alla verifica , all’approvazione e alla pubblicazione dei risultati di 13 commissioni di settore disciplinare su oltre 180: anche tenendo conto che una quarantina di commissioni non hanno consegnato i materiali, e per esse si dovrà stabilire un nuovo termine, si tratta di una percentuale bassissima, in cui per di più mancano tutti i settori più popolosi (tranne forse Storia contemporanea, settore che mi interessa molto da vicino). Si comincia a pensare, peraltro, che questa lentezza sia dovuta al moltiplicarsi delle obiezioni di metodo a cui ha condotto un esame attento dei verbali di questo primo “assaggio”, e che si sono aggiunte a non meno giustificate ma più difficilmente argomentabili difformità nei giudizi di merito: gli indicatori bibliometrici quantitativi, già tanto criticati per le modalità di rilevazione che li rendevano troppo elevati (e quindi inservibili) per le scienze “dure” e troppo “leggeri” nei settori umanistici e sociali, sono stati considerati in forme diverse, e spesso “corretti” con la richiesta di altri dati di curriculum variabili da una commissione all’altra; le percentuali di abilitati molto simili in diversi ambiti disciplinari (di solito, l’idoneità al ruolo di professore associato è toccata a circa il 40% dei richiedenti) lasciano pensare a un improprio intervento regolatore “dall’alto”; d’altro canto, però, vi sono casi di abilitati in cui i giudizi individuali redatti dai cinque commissari lasciano supporre una maggioranza 3/2, incongrua sulla base dei regolamenti che impongono una maggioranza minima di 4/1, ma nel contempo non desumibile dal verbale complessivo, che parla esclusivamente di idoneità assegnata “all’unanimità” o “a maggioranza”; ci si chiede infine a che cosa possa servire abilitare, e quindi incoraggiare a investire ulteriore tempo e fatica nella carriera di ricerca, un numero di studiosi che il sistema non riuscirà mai ad assorbire con questi ritmi di assunzione.

Dico subito che buona parte di queste critiche parziali trovano riscontri nei primi dati che abbiamo. Per questo, nei lunghi giorni di stillicidio dei risultati di settore, merita senz’altro di essere seguita l’iniziativa di monitoraggio promossa in questi giorni da ROARS. per quanto mi riguarda, mi limiterò a esporre alcune questioni di natura sistemica sul reclutamento e sulla promozione di carriera nel nostro mondo accademico di cui già avevo avuto modo di convincermi osservando il percorso di riforma e di cui ora arrivano conferme. Se quindi non potrò non tener conto (né sarebbe possibile, vista la natura assolutamente personale di queste opinioni) della mia condizione di precario neo-abilitato alla seconda fascia, dall’altro cercherò di mostrare che l’esito del mio caso individuale non ha influito sulle mie idee di massima.

Il primo elemento da tener presente per comprendere alcune delle criticità maggiori riguarda le dimensioni elefantiache di tutto il processo. Cinque persone, sorteggiate tra i professori ordinari considerati idonei ai lavori di commissione dopo uno screening altrettanto generalizzato, lungo e farraginoso (anche se assai più indulgente nei numeri degli “esclusi”), hanno dovuto valutare anche mille candidati tra prima e seconda fascia, ciascuno dei quali oltre al proprio curriculum scientifico ha inviato anche le sue 12 migliori pubblicazioni dell’ultimo decennio, preparando quindi un dossier che nelle discipline umanistiche poteva superare le mille pagine. La scelta di applicare senza sconti ed eccezioni criteri quantitativi rigidi, e di individuare un elenco in ogni caso incompleto di elementi di curriculum irrinunciabili senza i quali l’idoneità sarebbe stata negata, era inevitabile in partenza, almeno nei settori disciplinari più grandi. Ma ha condotto all’inesorabile svalutazione di risultati professionali di rilievo semplicemente non considerati nei criteri iniziali magari per mera ignoranza da parte dei commissari, e quindi alla penalizzazione di personale caratterizzato da percorsi di carriera “atipici”, sempre più frequente in un mondo in cui l’incertezza e la pluralità dei ruoli precari sono diventati la cifra esistenziale e di carriera.

Una prima questione, quindi, riguarda la necessità di diluire il processo di conseguimento dell’abilitazione. Chi ha costruito nel corso del tempo il modello forse più longevo e più caratteristico di accesso “amministrato” alla professione accademica, quello francese, non si è speso nell’inutile sforzo di evitare gli errori inevitabili, ma ha per lo più aggirato l’ostacolo. Intanto il nodo fondamentale per l’ingresso nei ruoli universitari, l’esame di agrégation nel corpo docente della scuola pubblica, avviene attraverso una serie di prove dalla preparazione complessa e articolata; inoltre l’acquisizione dei titoli e delle posizioni necessarie alle idoneità avviene per gradi, istituiti di diritto o di fatto, che partono già dall’ingresso ai percorsi di studio specifici durante la formazione superiore, e chiamano quindi in causa, sul piano locale prima che in sede di verifica nazionale, una buona fetta della comunità scientifica già selezionata.

Guardare da vicino il caso francese aiuta a capire ancora meglio quanto questa continuità temporale dei meccanismi di attribuzione dell’idoneità possa essere importante. Presa singolarmente, l’annuale attribuzione delle abilitazioni transalpina non è in alcun modo meno discutibile della nostra, e ad essere sinceri anche il sistema complessivo è stato soggetto a molte critiche (celeberrime quelle di Raymond Aron negli anni cinquanta e sessanta), per l’elevato margine di errore e la lentezza a riparare eventuali torti. Tuttavia, in un paese in cui la prima agrégation data ad anni precedenti alla rivoluzione del 1789, e in cui proprio con i principi rivoluzionari tale pratica è assurta a modello di attribuzione degli incarichi pubblici ai cittadini “senza altra distinzione che quella delle loro virtù e dei loro talenti” (per citare la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino), questi problemi sono assai meno sentiti. Col trascorrere del tempo, il sistema ha rifinito le proprie pratiche adeguandosi alle richieste sociali e costruendo la lista dei propri criteri e delle proprie competenze irrinunciabili in forma più condivisa. La sua persistenza ha poi finito per far nascere un intero sistema di formazione orientato alla sua soddisfazione, con programmi e istituzioni dedicati a garantire la possibilità di soddisfarne le pretese. Allo stesso modo, sul piano culturale, la necessità ineluttabile di passare per quelle forche caudine ha formato il modo di intendere la professionalità accademica, fino a influire sul senso stesso della comunità scientifica e del suo “spirito di corpo”.

Anche nel nostro caso, con tutta probabilità, una maggiore sicurezza della cadenza annuale delle procedure potrebbe portare a una programmazione più chiara e meno affrettata della partecipazione alle selezioni: da un lato, chi ha un certo tipo di curriculum e di risultati può valutare se e quando presentarsi o ripresentarsi in modo da rispondere meglio alle richieste di massima dei commissari; dall’altro, la rotazione dei selezionatori impegnati fa sì che le distorsioni causate dagli orientamenti di una tornata siano corrette in quelle successive. Allo stesso modo, l’individuazione di passi intermedi caratterizzati da numeri e dimensioni meno massivi per il conseguimento degli attributi necessari renderebbe più “digeribile” nella collettività interessata l’intero sistema.

In effetti l’elemento fondamentale, con cui si va a toccare l’autentico punto dolente della riforma, è quello del maggiore coinvolgimento della comunità scientifica nelle procedure. Tutti i passaggi che ho tratteggiato hanno come comune obiettivo quello di rendere più accettabile il nuovo processo di selezione a un insieme di professionisti che si senta in grado di condividerlo e di parteciparvi. E a questo, in fondo, servirebbero pratiche parzialmente elettive per i valutatori o quantomeno per i comitati che, a monte, decidono i criteri da applicare e valutano i migliori metodi di resa combinata quantitativa e qualitativa dell’impatto scientifico degli studi. È tutto questo che è mancato nella lunga e faticosa lavorazione dell’ASN, portata avanti essenzialmente attraverso sbarramenti puramente quantitativi della produzione scientifica dei possibili collaboratori scientifici al ministero, scelte di evidente sapore politico, orientate a senso unico verso gli studiosi che appena prima si erano espressi pubblicamente a favore delle proposte di riforma generale del comparto universitario in una vera competizione di pamphlet che giustificassero tanto il progetto originario quanto tutti gli smottamenti che l’articolato subiva in sede parlamentare, e sorteggi “secchi”.

Eliminare questo elemento però non è affatto semplice, perché l’intera procedura è stata concepita espressamente per marginalizzare e mortificare la comunità scientifica italiana. Una riforma che ha trovato il suo carburante di consenso in un discorso pubblico volto a scaricare la responsabilità di tutti i problemi dell’università italiana sulla scarsa pulizia morale dei docenti più rappresentativi non ha infatti potuto fare niente di meglio che mettere tra parentesi, in tutto il processo di individuazione dei nuovi esponenti scientifici pronti per la “promozione”, il confronto diretto e non mediato da infingimenti burocratici con chi è depositario della competenza e dell’esperienza professionale richiesta per svolgere il mestiere di ricercatore e di insegnante. E questo dato è tanto più grave, quanto più si nota che in questa voglia di punire esemplarmente i “baroni”, si è deciso di aggredire un sintomo evitando di attaccare le cause delle disfunzioni del sistema concorsuale precedente. Queste ultime, infatti, continuano a godere di ottima salute, e si vedono chiaramente nella filigrana di tutto il percorso di reclutamento.

In primo luogo i singoli esponenti della collettività dei docenti, il cui ruolo di possessori di competenza scientifica è stato pressoché completamente annullato, continuano a svolgere un ruolo decisivo come rappresentanti delle comunità e dei grumi di potere locali, visto che a valle dell’abilitazione le procedure di assunzione vera e propria restano locali, con le sedi che bandiranno ancora un posto per volta. La tendenza, che pare ormai invalsa, a mettere la selezione del vincitore nelle mani di una commissione composta per lo più da docenti esterni a prima vista può riparare ai danni che avrebbe causato l’assoluta libertà dei dipartimenti di prendere qualunque abilitato volessero. Ma si tratta, almeno in parte, di un’illusione ottica. Sul piano delle disponibilità finanziarie, che guidano l’operato degli atenei senza grandi possibilità di sgarrare, il piano di assunzione per gli associati è stato fatto in parallelo alla riforma espressamente per blandire i ricercatori di ruolo, ed è stato quindi creato senza toccare le prassi contabili introdotte con la cosiddetta “autonomia”: detto in parole povere e senza scendere in tecnicismi, una sede può procedere alla chiamata anche se ha un budget adeguato a scoprire la differenza di stipendio tra un associato e un ricercatore già in ruolo. Visto che i bilanci dei diversi atenei sono distinti e le risorse non trasferibili in forma diretta da una parte all’altra, nominare regolarmente associati che non siano già assunti presso le stesse università potrebbe diventare insostenibile. Di conseguenza gran parte dei nuovi posti avranno già dei destinatari sicuri per ragioni strutturali.

Questo apre la pagina, ancor più inquietante, di chi ha ottenuto l’abilitazione pur essendo ancora precario. I rappresentanti di questa particolare condizione possono partecipare a tutti i concorsi per la seconda fascia, a patto però di perdere praticamente sempre, pena uno stress al sistema di finanziamento delle sedi che li assumono difficilmente assorbibile. D’altro canto, teoricamente ad essi è aperta la strada dei posti da ricercatore a tempo determinato tenure track, che ora stanno uscendo col contagocce. Anche qui però il potere di direzione delle sedi accademiche si fa sentire: da un lato la commissione è assai più chiaramente “interna”, con docenti selezionati dal Senato accademico; dall’altro possono accedere alla selezione anche studiosi non ancora abilitati, visto che il passaggio per ricevere la conferma in ruolo è proprio l’acquisizione in tempo utile dell’abilitazione nazionale. Di conseguenza, dipartimenti e atenei potranno continuare a lavorare con la logica di assunzione sedimentatasi nel tempo, per cui l’ammissione in ruolo è una sanatoria per chi nel corso degli anni ha fatto la “gavetta” in sede, indipendentemente dalle sue effettive capacità professionali in un quadro comparativo sul “mercato” nazionale e internazionale. L’unico deterrente a tutto ciò, al di là delle procedure di valutazione della qualità degli istituti di ricerca, la cui efficacia nelle modalità impostate “all’italiana” si è mostrata quasi nulla e che sono state delegittimate da un uso che le ha orientate quasi solo alla giustificazione ex post dei tagli di spesa, sarebbe un mantenimento di standard sufficientemente elevati nell’attribuzione delle idoneità, così da “impallinare” gli studiosi mediocri a cui è stato affidato un posto in tenure track e portare, fallimento dopo fallimento, i dipartimenti a più miti consigli. È però difficile che tutto ciò si verifichi quando la legittimità delle pratiche di abilitazione è, come abbiamo visto, ancora tutta da costruire, e avrebbe bisogno di tempo e di ulteriori ritocchi progressivi per andare a regime. Allo stato attuale delle cose, rispetto all’indispensabile indebolimento della discrezionalità delle sedi locali attraverso una loro sempre più forte responsabilizzazione nelle scelte, è molto più probabile e sicuramente meno faticoso un compromesso al ribasso, che garantisca l’abilitazione a chi ne ha bisogno man mano che essa diventa indispensabile per la conferma in servizio.

Quest’ultimo esito appare plausibile anche tenendo conto del fatto che l’assegnazione delle abilitazioni ha iniziato a esercitarsi su un terreno istituzionale che era minato fin dall’inizio. Le varie commissioni, infatti, sono rappresentative dei diversi settori disciplinari. Questi ultimi sono stati recentemente rinnovati in vista della riforma, con un processo che avrebbe dovuto essere di rimedio all’eccessiva parcellizzazione precedente, per cui quasi ogni titolatura di cattedra era separata dal resto e quindi in mano a pochi cultori, verso un accorpamento sulla base di una maggiore rispondenza all’omogeneità di metodi e di contenuto tra le varie ricerche. L’idea era insomma quella di scardinare il playground in cui i rappresentanti locali della comunità scientifica contrattavano gli accordi e gli equilibri facendosi rappresentanti presso i loro “pari” degli interessi delle sedi coniugandoli con quelli corporativi. Il percorso è però in gran parte fallito. Alcuni settori ormai di scarsa rilevanza sono stati, sì, diluiti in altri più ampi e complessivi. In casi ancor più numerosi, però, ci sono state conservazioni piuttosto sorprendenti basate su differenziazioni e specificità metodologiche fragili, e molto più concretamente su un intenso lavoro di lobbying da parte dei rappresentanti di settore vicini al ministero, o accorpamenti in settori disciplinari Frankenstein che uniscono pezzi molto distanti pur di non farsi inglobare nei campi di studio e di ricerca in cui razionalmente dovrebbero finire. Probabilmente, col senno di poi, sarebbe stato più pratico e conveniente procedere con un indebolimento del potere istituzionale dei settori disciplinari, riservando ad essi compiti esclusivi di natura scientifica e intellettuale. Invece, col loro mantenimento in piedi in questi termini si sono preservate in gran parte le vecchie logiche. Ed ecco allora che, specie nelle aree di dimensioni più contenute, la scarsa afferenza al campo di studi specifico rappresentato dalla commissione (o semplicemente, il che è ancora più grave, lo “sconfinamento” in uno o più lavori, che caso mai dovrebbe essere titolo di merito) è stato usato come una clava per limitare il campo degli abilitati a figure più o meno direttamente riconducibili alla comunità di studiosi interessata alla “gestione”  del settore, eventualmente scaricando su ambiti disciplinari più generici gli esclusi.

Questo, insomma, il quadro di alcuni problemi aperti che le prime evidenze dell’Abilitazione scientifica nazionale stanno mostrando. Tirando le somme, quali possono essere le tendenze per un miglioramento della situazione? Come ho già scritto altrove, io non so se l’introduzione in Italia di un sistema ancora più rigidamente amministrato rispetto a quello precedente sia la strada migliore. Anche il caso francese dal paragone col quale sono partito, e che è sicuramente molto più legittimato per tutti gli attori che se ne interessano, si scontra quotidianamente con l’impossibilità di giustificare teoricamente il “merito” e di individuarlo una volta per tutte attraverso pratiche valutative incontrovertibili. Tuttavia, ora che questa strada si è imboccata può essere effettivamente una scelta di buon senso continuare a percorrerla, anche per evitare il continuo rimescolamento di procedure che col nuovo millennio sono state cambiate in media ogni 3 anni facendo perdere ogni prevedibilità e ogni possibilità di controllo ai percorsi di formazione e di affermazione professionale. In questo caso, però occorre intervenire con una progressiva messa in efficienza che verta essenzialmente su tre capisaldi:

  • Distinzione netta e definitiva tra reclutamento (per il quale occorre prendere coscienza del fatto che le necessità di docenti per l’universalizzazione dell’esperienza didattica post secondaria necessaria a confermare l’Italia nel novero dei paesi avanzati sono evidenti, e che gli investimenti sono quindi indispensabili) e promozione delle carriere;
  • Diluizione nel tempo delle procedure di selezione e di attribuzione dei titoli abilitanti, anche con la responsabilizzazione delle sedi locali, chiamate con maggiore frequenza a render conto su una comparazione a livello complessivo delle loro scelte di assunzione ai primi gradi della carriera accademica;
  • Coinvolgimento più significativo della comunità scientifica nella definizione degli standard operativi e delle caratteristiche professionali irrinunciabili, evitando che i suoi esponenti “rientrino dalla finestra” come rappresentanti di interessi opachi e non immediatamente giustificabili sul piano culturale.

(pubblicato originariamente sul blog A mente fredda de Il Calibro)

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33 Commenti

  1. due osservazioni:
    1. c’è un refuso, dovrebbe essere scritto “4/5” invece risulta “4/1”
    2. per il sistema francese, più che l’aggregation il riferimento corretto dovrebbe essere alla qualification, che è l’omologo (migliore per molti versi) della nostra abilitazione.

  2. in realtà 4/1 va letto specularmente a 3/2, contrapponeva numero di favorevoli e numero di contrari. forse potevo scrivere meglio 3 vs. 2 3 4 vs. 1 o coese del genere.
    Sulla questione agrégation, potevo forse specificare meglio, ma quel che ho detto è appunto che in Francia il percorso di “idoneazione” all’attività d’insegnamento superiore è un percorso articolato, la cui chiave di volta, di fatto anche se non di diritto resta l’agrégation, sia su un piano funzionale (è il passaggio che limitando il numero dei concorrenti con speranze di esito positivo permette al sistema una certa fluidità; d’altro canto per chiunque ottenga l’agrég. ottenere la qualification è tutto sommato scontato, mentre non lo è affatto il contrario), sia sul piano culturale (è la successione delle agrégations che caratterizza il profilo del “servizio” allo stato nel mondo dell’istruzione secondaria e universitaria, e che garantisce a chi la ottiene la legittimità sociale). poi non avevo voluto perdermi in specificazioni perché il pezzo era già abbastanza lungo così. COmunque sì, tratta di puntualizzazioni che è stato bene fare.

    • Grazie per l’articolo, molto interessante.

      Come detto da ecocolombo ed insorgere la differenza tra agrégation e qualification non e’ un dettaglio.

      La prima e’ specifica per le superiori e serve a fare una distinzione tra gli insegnanti specificatamente nel contesto secondario. Un Prof. Agregato insegna meno, in contesti più elevati (anche nei primi due anni di università) e può assumere ruoli dirigenziali di alto livello. Apre quindi le porte alla struttura dell’insegnamento secondario che in alcuni aspetti, in Francia, si fonde un po’ con i primi due anni di università per il sistema delle “classes preparatoires”. Sono qualifiche di solo insegnamento. La selezione e’ un esame piuttosto impegnativo che viene dato, generalmente, dopo il terzo anno di università.

      La seconda apre la strada al mestiere de enseignant-chercheur quindi la cosa più’ simile al Professore universitario italiano. Questa qualificazione e’ portata in atto dal CNU diviso in sezioni tematiche tramite commissioni elettive. La selezione e’ sulla base del CV solo. Questo titolo, permette al candidato di partecipare ai concorsi banditi dalle varie università.
      Quindi questo é il titolo con cui confrontarsi.

      L’agregation puòessere un titolo in più ma non e’ propedeutico. Ne e’ prova che e’ relativamente semplice farsi qualificare da straniero con un buon CV scientifico, un po’ di esperienza di insegnamento e una minima conoscenza del francese.

      Gli unici titoli richiesti formalmente sono per il livello Maître de conférences (MCF) il dottorato e per i posti di Professeur (PR) dottorato e Habilitation à diriger des recherches (HDR).

      L’HDR e’ un sorta di abilitazione in cui si difende una tesi di ricerca avanzata dopo qualche hanno di ricerca dopo il dottorato. Il titolo consente la supervisione di studenti di dottorato.

      Quindi non e’ vero che l’aggregation porta ad una qualification sicura. E’ necessario un dottorato e un’attività scientifica riconosciuta.

      Tornando nel merito dell’articolo, la qualification e’ una procedura che nel bene e nel male funziona abbastanza e’ una maglia relativamente grande che permette una scrematura a livello nazionale.

  3. Tutto questo è giustissimo, secondo me. Ma insisto nel dire che per ovviare – almeno parzialmente, e in tempi forse anche ragionevoli – alle storture di un sistema incapace di assorbire i meritevoli conferendogli legittimità sociale, il mondo accademico dovrebbe rivendicare diritti al di fuori di esso: classico l’esempio di ricercatori (anzi: personaggi che hanno fatto e fanno ricerca, in sedi ovviamente accertate e certificate) da destinarsi a impieghi consoni nella scuola e nella PA. A questo proposito potrebbe essere d’aiuto l’anagrafe della ricerca in corso di svolgimento (infatti qualche settimana fa avevo chiesto on line se era previsto che essa comprendesse anche i titoli dei non strutturati). Non è degno di un paese che vuole restare tra i top il relegare in terza fascia o tra i precari chi ha fior di pubblicazioni e lavori in collane o sedi autorevoli, recensite ed apprezzate (mentre di converso andiamo a vedere i curricula dei dirigenti scolastici – moltissimi dei quali, per carità, degnissimi esecutori dei compiti ai quali sono preposti -: e questo solo per fare un esempio, che oltretutto coinvolge molti, “baroni” compresi, i quali hanno figli a scuola). Cordialmente

  4. “La tendenza, che pare ormai invalsa, a mettere la selezione del vincitore nelle mani di una commissione composta per lo più da docenti esterni a prima vista può riparare ai danni che avrebbe causato l’assoluta libertà dei dipartimenti di prendere qualunque abilitato volessero.”

    Questa “assoluta libertà” causa danni enormi in Michigan, Wisconsin, California e Canton Vaud.

    Un po’ come la NEREA.

    Detto questo, mi si perdoni l’incipit polemico, ma sebbene si possa essere d’accordo con il complesso dell’articolo e con le minime proposte finali, sarebbe bene evitare di assumere che un sistema “libero” basato su finanziamenti ordinari ed a progetto e con chiaro monitoraggio delle responsabilità a livello locale (per non parlare dell’ovvio “thou shalt not enter where thou received your Ph. D.”) debba essere necessariamente “peggio”.

    • in realtà non siamo in disaccordo. ho specificato che per quanto mi riguarda avrei probabilmente evitato, a monte, di affidarmi a un sistema amministrato di accesso, visti tutti i problemi che può causare. ho però ritenuto opportuno considerare alcune proposte migliorative della situazione in essere per ragioni di buon senso.
      Anch’io, sul piano generale, guardo con maggiore interesse al sistema “libero”, per così dire. Ma la necessaria “responsabilizzazione” delle sedi deve comunque essere costruita dalle fondamenta da noi, e questo è tanto più difficile in una realtà in cui la natura pubblicistica del servizio universitario è centrale non solo per mere questioni di proprietà (anche negli USA ormai la proprietà statale degli atenei, e non per forza dei peggiori, è prevalente sul piano numerico), ma proprio per il modo di intendere l’intero servizio e il ruolo professionale di chi ci lavora.
      Arrivare a risultati soddisfacenti da questo punto di vista richiederà comunque tempo, impegno e fallimenti, e sarà un processo per gran parte caratterizzato dall’orientamento indiretto dell’opportunità dei comportamenti: per dire, in nessun posto in cui avviene la “migrazione” post-dottorato è prevista per legge, ma avviene appunto per ragioni di opportunità di tutti gli attori individuali e istituzionali. Fissare per decreto questa pratica come obbligatoria non porterebbe, secondo me, da nessuna parte: non sarà altro che un’altra norma da aggirare, finché di certi comportamenti non si attaccheranno le radici, e non i sintomi.

    • @antoniotti

      ma noi non siamo negli usa. o vogliamo far finta che le varie concorsopoli ecc siano accaduti in un altro pianeta?

      il punto è che lasciati soli e liberi di agire, i nostri dipartimenti si limiterebbero a promuovere i soggetti interni fedeli alla linea, non certo a selezionare i migliori (interni o esterni che siano).

    • E quindi meglio l’ASN e l’ANVUR. Vero?

      Di sicuro, un sistema “liberi tutti” (ma con vincoli di finanziamento) qui, in Italia, non si è mai visto. Il sistema “distribuito” con le “idoneità” non era il “liberi tutti”. Qualcuno poi mi dovrebbe spiegare con che “concorso” si viene promossi da Associate a Full nell’Università quadratica media USA.

      Quello che qui non si vuole mettere in conto (nel senso di contabilizzazione finanziaria) sono i bizantinismi in cui siamo campioni. Almeno i francesi riescono ad essere un po’ efficienti.

  5. L’analisi è puntuale e condivisibile.
    Ma mi chiedo: fino ad ora il reclutamento si è basato su logiche clientelari e baronali (“indipendentemente dal merito”, come dice lei),inanellando scandali e scandalicchi tragicomici. Come si poteva evitare “un discorso pubblico volto a scaricare la responsabilità di tutti i problemi dell’università italiana sulla scarsa pulizia morale dei docenti più rappresentativi”?
    Dal canto mio non vedo che una soluzione: maggiore responsabilità dei commissari, che devono rispondere della (eventuale) mediocrità dei vincitori da loro decretati.
    Con una pena esemplare. Che so, avere uno specializzando (futuro ricercatore) a disposizione come autista, ma solo i giorni dispari…

  6. La differenza non è da poco. L’agrégation è un’ “ammazzata” di prove attraverso cui emergono gli insegnanti delle scuole superiori, studiata in base ai posti effettivamente disponibili. La qualification è davvero qualcosa d’altro; non prevede alcuna prova ma l’invio di un curriculum documentato, in autunno di ogni anno. Non è concepita in base ai posti disponibili ma è solo uno sgrossaggio molto di massima dei candidati, la cui assunzione sarà poi determinata in toto dal concorso locale. In linea di massima, qualsiasi candidato con un cv appena decente la ottiene. Sarebbe da chiedersi semmai perché l’asn non sia stata pensata sulla falsariga della qualification.

    • esatto.

      aggiungo che la qulification è anche gestita meglio: la procedura è più snella e rapida, non c’è una commissione nazionale ma una serie di referees scelti incrociando competenze dei docenti di ruolo con le aree di interesse del singolo candidato.

      cmq è chiaro che è la qualification la versione francese dell’abilitazione.

  7. “fino ad ora il reclutamento si è basato su logiche clientelari e baronali …(“indipendentemente dal merito”).
    Siamo realistici, non è cambiato assolutamente alcunchè.
    Tutto prosegue come prima: se sei figlio di qualcuno hai le pubblicazioni necessarie che addirittura ti abilitano ad ambedue i ruoli. Poi si abilitano anche quelli che hanno il nome nelle srtesse pubblicazioni dei figli di.. Poi si abilitano quelli che hanno pubblicato con i componenti della commissione, poi si abilitano quelli che sono ammanigliati con gli altri big del settore che erano fra i sorteggiabili.
    Il Gattopardo docet! Andate a vedervi le abilitazioni delle 2 aree di 06 (medicina e chirurgia). Vengono addirittura considerati progetti PRIN/EU i vecchi ex progetti 60% finanziati dagli atenei, oppure fare parte dell’editorial board di grossissime riviste internazionali. Uno schifo immane!

    • Purtroppo Lilli ha ragione. Il sistema non può cambiare solo perchè ci sono procedure diverse. Se il reclutamento è affidato alla discezionalità dei c.d. baroni, come è possibile anche solo pensare che il sistema diventi all’improvviso meritocratico?

    • “come è possibile anche solo pensare che il sistema diventi all’improvviso meritocratico?”
      Non può diventarlo, è evidente.
      Anche se nessuno vuole sentirselo dire.
      I regolamenti sempre diversi e sempre più complessi servono solo a celare questa semplice realtà.
      La responsabilità delle scelte evapora a ogni passaggio burocratico.
      “Ma lei ha assunto suo figlio”.
      “Sì, ma guardi che mi figlio ha passato il vaglio di 84 commissioni”.
      “Ma tutti amici suoi”.
      “Ma come si permette?! Me lo dimostri!”.

  8. D’accordo con lilli a aldo.garcia: non è cambiando le procedure di reclutamento che cambia il sistema. In generale sta prevalendo la discussione su aspetti tecnici dei candidati non abilitati ed è comprensibile la loro delusione, ma occorre discutere seriamente dell’università italiana. Il problema non è solo la permanenza di aspetti feudali, della corruzione, del familismo, clientelismo, etc.: il problema è molto più complesso e investe la stessa funzione dell’università italiana, che, non dimentichiamolo, è pubblica e non può essere usata a fini privati. Il merito principale dell’Asn è che è tutto online.

  9. mi permetto di ripetere, ma solo in via riassuntiva, quanto già scritto a proposito di un precedente articolo sull’ASN e su un’interventista a Fantoni.
    certamente le cose sono gattopardianamente cambiate. ma attenzione! io credo che questa asn abbia invece lasciato spazio ad ogni acredine sopita o malcelata; cinque commissari cinque decidono un intero settore. amici degli amici dentro, tutti gli altri fuori. non ci prendiamo in giro: questa à la realtà, il merito che vale è sempre lo stesso… a buon intenditor, poche parole.
    spenderei invece due righe per i commissari: nell’articolo si legge neanche tanto tra le righe qualche dubbio a proposito dei commissari, sorteggiati è vero, ma inseriti in quell’elenco solo per il fatto di essere ordinari. nessuno di loro, però, è stato sottoposto allo stesso, rigido e inflessibile vaglio delle pubblicazioni scientifiche o meno, della attività di ricerca e di insegnamento. insomma la domanda è sempre la stessa: chi valuta i valutatori? è una garanzia il fatto di essere diventati ordinari proprio con quella normativa che si vuole così velocemente e aspramente denunciare e modificare proprio con l’ASN. il tutto mi pare kafkiano, o tremendamente italiano.

  10. ottima domanda. Cominciamo: quanti dei commissari hanno un PhD? Quante pubblicazioni avevano quando sono diventati associati e poi ordinari? Sappiamo quando sono diventati associati e ordinari dai cv, abbiamo i cv e possiamo valutare quali pubblicazioni avevano. Per chi è diventato ordinario con i concorsi locali è reperibile la commissione. Già questo permette una prima valutazione. Chi erano i commissari che li abilitati. Già questo permette un primo, sia pure parziale, screening dell’università italiana.
    L’ASN ci offre almeno questa possibilità.

    • L’ASN ci offre almeno questa possibilità. NO, KERY, l’ASN ci offre SOLO questa possibilità. E’ sotto gli occhi di tutto cosa sono riusciti a fare i commissari. Basta leggere i giudizi per vedere che hanno mal giudicato, in pochissimo tempo, abilitato 3 a 2 in barba alle regole, insomma un disastro. E allora? cosa è successo? cosa succederà? NULLA. Nulla di NULLA. Il mio settore è il 12B1, l’esame dei cv dei candidati è cominciato il 19 luglio e il 12 settembre erano già ultimate le bozze dei giudizi individuali di ben 186 aspiranti associati. Se contiamo che ogni commissario ha dovuto leggere 12 pubblicazioni per ogni candidato, i conti sono presto fatti: 2230 pubblicazioni lette in 60 giorni vuol dire 37 pubblicazioni lette ogni santo giorno, inclusi i sabati, le domeniche e il giorno di ferragosto. DEVO AGGIUNGERE ALTRO? Ministro Carrozza le sembra corretto che il mio futuro professionale possa dipendere da un simile sistema????

    • Basta prevedere la presentazione di non più di 5 lavori per candidato (oltre alla lista completa, ovviamente).

      Come succedeva nei concorsi INFM prima che l’ente venisse accorpato al CNR dalla simpatica Letizia (con qualche suggerimento genovese…).

  11. Mi ripeto. la storia del sistema accademico francese, per come è stata ricostruita dagli studi disponibili, chiarisce abbastanza bene che la qualification funziona (sul piano dei numeri e della fluidità, intendo, per il resto non mi pronuncio) perché si innesta nel sistema di selezioni a cui ho fatto cenno, con la rapidità consentitami dallo spazio, e che proprio nell’agrégation per l’insegnamento alla secondaria superiore (o solo per l’università, nelle discipline che non hanno un corrispettivo liceale e per cui quindi la forte interrelazione tra le figure professionali dell’insegnamento secondario e universitario è assente) trova il pilastro irrinunciabile. E questo sia per il ruolo dell’agrégation sul piano, diciamo così, “cultural-simbolico”, sia per ragioni di “taglio” numerico. La sola qualification senza questo passaggio connesso (di fatto, e in certi settori anche di diritto) sarebbe senz’altro una procedura più accettabile della nostra ASN, ma avrebbe una efficacia limitata, proprio perché è facilmente ottenuta da chiunque abbia messo su un cv appena presentabile. Ciò la porterebbe in tempi brevi al fallimento e alla sostituzione con un altro metodo, come nella nostra tradizione. Sul piano squisitamente sistemico, il vero vizio d’origine dell’ASN è stato proprio questo voler inserire in un unico passaggio la verifica delle attitudini e la limitazione dei numeri, cosa che rendeva impossibile l’importazione del sistema della verifica senza commissione nazionale (per avere anche un controllo sui numeri, occorre un coordinamento piuttosto forte dal vertice).

    • Gentile Mariuzzo, condivido l’esito delle sue osservazioni (l’infinitamente miglior funzionamento della qualification francese rispetto alla nostra ASN), ma non l’analisi. Mi pare del tutto erroneo, in particolare, il legame che lei stabilisce tra qualification e agrégation, come ha già sottolineato giustamente “insorgere”. Per accedere alla qualification come maitre de conférences (equivalente grosso modo alla nostra ASN per la seconda fascia), infatti, non è l’agrégation il titolo richiesto, bensì il Doctorat: di norma, i giovani neodottori di ricerca, subito dopo l’ottenimento del titolo, partecipano alla selezione per la qualification. I loro dossier, consistenti nella tesi con relativo rapport (ovvero la valutazione ottenuta), un curriculum dettagliato e tre pubblicazioni al massimo, vengono assegnati a due relatori, specificamente esperti dei temi oggetto della ricerca del candidato: nell’arco di tre mesi, il candidato conosce l’esito della procedura; se negativo, può senza problemi ripetere la domanda nella tornata successiva. Per la “prima fascia” (Professeur), la procedura è analoga, salvo che invece del dottorato si tratta qui di ottenere, preventivamente, l’Habilitation à diriger des recherches, ovvero una specifica certificazione che si ottiene discutendo una dissertazione (una sorta di superdottorato, riservato a chi già opera professionalmente nel mondo della ricerca): per il resto la procedura è del tutto similare a quella per i Maitres de conférences. Dunque l’agrégation non c’entra proprio nulla, quella serve per l’insegnamento nelle scuole superiori.
      I vantaggi evidenti della procedura francese (a parte quello, ovviamente, di essere già a regime da anni mentre noi iniziamo solo ora) a me paiono i seguenti:
      1 – la qualification si ottiene, per il primo livello della docenza (Maitres de conférences), di norma a un’età effettivamente giovane (25-30 anni in media) e senza particolari problemi, purché la ricerca eseguita in occasione del dottorato sia di qualità;
      2 – il numero dei titoli da valutare è limitato (la tesi più, se ci sono, tre pubblicazioni al massimo): questo consente l’effettiva e attenta lettura da parte dei commissari;
      3 – i commissari stessi, che sono solo due, sono esperti non solo del campo di studi del candidato, ma anche dello specifico tema che questi approfondisce: possono così formulare giudizi pienamente motivati e consapevoli;
      4 – la possibilità di reiterare la domanda nell’anno seguente in caso di esclusione favorisce la non drammatizzazione dell’abilitazione, al contrario di quanto è accaduto da noi, con la solita logica del “dentro o fuori”;
      5 – infatti, sono normali e frequenti i casi in cui la qualification, che se non ricordo male dura tre anni, scade e viene richiesta nuovamente attraverso l’apposita procedura di re-qualification.
      Tutti temi, mi pare, sui quali i nostri legislatori dovrebbero meditare. Purtroppo la disinformazione è molta, e da questo punto di vista il legame agrégation-qualification suggerito nell’articolo, e di fatto inesistente, non aiuta certo a chiarire. Per informazioni e conferme, basta consultare il sito del ministero dell’educazione francese: https://www.galaxie.enseignementsup-recherche.gouv.fr/ensup/cand_qualification.htm

  12. il ruolo evidente dello scoglio dell’agrégation nel percorso di selezione del personale docente universitario è comprensibile da una semplice rilevazione statistica per scoprire quanti docenti universitari di ruolo in Francia non sono anche agrégés, e dalla presenza di agrégations anche per discipline che non hanno un corrispettivo nella secondaria (si pensi all’agrégation in scienza politica, istituita nel 1971, con un curioso parallelismo col primo concorso a cattedre italiano nella stessa disciplina). per converso, un rapido (e sicuramente incompleto) censimento del destino di diversi qualifiés di origine non francese, che durante una permanenza di ricerca in Francia hanno ottenuto senza particolare difficoltà il riconoscimento della loro idoneità per poi essere “rimbalzati” da qualunque selezione che offrisse qualcosa di più sostanzioso di una borsa di studio semestrale, dovrebbe far riflettere sull’importanza (almeno sul piano della “legittimazione” della propria posizione), di quel percorso composito di passaggi e di selezioni (sicuramente non riducibile alla sola agrégation, ma che senz’altro non vede nella qualification l’elemento fondativo) che rappresenta il cammino per il reclutamento.
    Nel breve testo che ho scritto, concentrandomi forse troppo sul funzionamento concreto del sistema che sull’aspetto normativo delle procedure per mancanza di spazio, mi sono soffermato sul tema agrégation (e sulle sue implicazioni nel reclutamento dell’istruzione superiore, evidenti, ripeto, solo che si osservi la percentuale di chi arriva al posto d’insegnamento senza aver passato almeno un esame di quel tipo, per la secondaria o per l’istruzione superiore) perché ritengo la sua portata selettiva l’elemento cardine per il funzionamento dell’amministrazione francese dell’entrata nei ruoli universitari. visti i numeri della selezione, una qualification pura e semplice porterebbe al mantenimento in campo di tutti i candidati con un profilo anche solo appena sufficiente, il che significherebbe, di fatto, la perdita di quasi tutti gli effetti che ci si aspetta da tale passaggio. in due parole, alla qualification ci si può permettere un approccio non “drammatizzato” perché dietro c’è l’agrégation, per la scuola secondaria nella maggioranza dei casi, altrimenti per l’insegnamento superiore, che fa sbattere la testa a un buon numero di laureati per 2-3 anni, prima che una parte cospicua di essi di fronte al fallimento ripetuto decida di cambiare mestiere quando è ancora in tempo e non ha investito nella formazione all’insegnamento e agli studi universitari tempo ed energie irrimediabilmente perdute.

    • Ma il fatto che molti docenti universitari siano anche agrégés non significa che quel titolo sia necessario per l’insegnamento universitario; lo ribadisco perché è davvero fondamentale non diffondere notizie imprecise in una situazione come la nostra, nella quale, come De Nicolao e altri continuamente dinostrano, la disinformatja è continua. Sono d’accordo che un sistema educazionale complessivamente articolato come quello francese abbia nell’agrégation (tra l’altro, uno scoglio piuttosto duro per chi vuole ottenerla) una sorta di pivot: ma il fatto è che in Italia si è recentemente introdotto un sistema di abilitazioni nazionali a carattere universitario, dunque è fuor di dubbio che, se si vuole guardare al modello francese (o tedesco, come sottolinea kery) è al funzionamento della qualification e non a quello dell’agrégation che il legislatore italiano dovrebbe guardare. Sarebbe opportuno ripensare, da noi, anche il sistema del reclutamento per l’insegnamento secondario, e dunque tener conto di meccanismi ed esiti dell’agrégation? è possibile, ma questa è tutta un’altra questione, e a mio avviso quel sistema è davvero troppo specificamente legato alla struttura socio-culturale francese. Invece, e questo è il punto, modificare la nostra ASN sul modello della qualification francese, ininitamente più semplice ed efficiente, è una cosa che si potrebbe fare senza difficoltà QUI e ADESSO.

    • Credo che il punto sottolineato da fausto_proietti, insorgere e da me (più’ in alto) sia fondamentale.

      L’agregation non e’ assolutamente un titolo pessario neanche in maniera informale.

      Il fatto che la gran parte dei francesi di ruolo lo abbia non e’ una sorpresa. La gran parte della gente che rimane in ambito accademico lo passa durante l’università.

      Sono Prof. universitario in Francia e ho parecchi colleghi italiani che non hanno passato l’agregation ma semplicemente la qualification.

      Quest’ultima e’ effettivamente su larghissima scala, ma fatta con regolarità ed efficienza. Credo questa sia l’idea che c’e’ stata dietro l’ASN.

      Parlare dell’agregation in questi termini e’ fuorviante.

  13. concordo con fausto_proietti, perché nel sistema francese, come in quello tedesco e americano, seppure con procedure diversissime, le tappe fondamentali sono la tesi di dottorato e quella di abilitazione, che è un superdottorato: una dissertazione nuova che viene discussa. In altri termini negli Stati Uniti, come in Francia e Germania, non si diventa ordinario, pubblicando sempre sullo stesso oggetto di ricerca.Uno che scrivesse per tutta la vita sul partito repubblicano, negli Stati Uniti verrebbe assunto da qualche think tank repubblicano. L’ASN è importante perché dà uno screening dell’attuale stato della ricerca universitaria italiana.Se analizziamo i cv dei commissari di Storia Contemporanea ( non è il mio settore, lo ripeto) notiamo che il membro straniero, tedesco, divide le sue pubblicazione secondo i temi o topics trattati. Non sono favorevole ai commissari stranieri, perché ciò evidenzia la difficoltà ad autoselezionarsi dell’università italiana, però ci indica una differenza notevole rispetto ai commissari italiani. I cv dei commissari italiani mostrano che si può spendere l’intera vita universitaria facendo ricerca sullo stesso argomento, oltre a essere unicamente concentrati sull’Italia o su una regione italiana. Esiste poi il problema epistemologico di comprendere cosa distingua un demografo, un archivista, un medico, un sociologo da uno storico. La pluridisciplinarietà era destinata a frantumare la struttura tradizionale delle facoltà, favorendo l’emergere di nuove filiere nate da raggruppamenti interdisciplinari e a estendere gli insegnamenti. Per varie ragioni sono stati eliminati vari ssd e ora ci ritroviamo un settore Storia Contemporanea I fascia dove domina la confusione. Mi piacciono tanto le canzoni e le biciclette, ma è necessario essere ordinari per scrivere un libro sulle bicicletta o sulla canzone italiana? In Francia Les Annales sono stati un paradigma serio e importante negli anni 1970-80, quando in Italia era in genere snobbati. Il problema emergente da questa ASN è capire quale sia lo statuto della Storia contemporanea, di cosa si debba occupare, cosa debba studiare uno storico. Per il resto, i parametri dell’ASN hanno prodotto la corsa ad avere una monografia in più, le case editrici sono state impegnate a pubblicare come mai libri di ogni tipo e sono state anche contente perché intascavano contributi per pubblicarli. Mi rendo conto di scrivere cose antipatiche, ma dovremo seriamente riflettere su come impostare e dirigere la ricerca univeristaria in futuro. Perché lo stato dell’arte attuale corre il rischio della licealizzazione e renderà necessarie inevitabilmente creare nuovi centri in cui ridefinire lo statuto della storia contemporanea, oppure decidere di abolirla e sostituirla con la sociologia, l’archivistica, la demografia. Per il resto, come ho già detto, ritengo del tutto giustificate le proteste di chi non è stato abilitato. Però occorre anche parlare dello stato dell’arte della ricerca in Italia, perché – aspetto da non sottovalutare – è finanziata dallo stato.

    • A dire il vero negli USA non mi pare che funzioni “così”. Uno diventa “full” (sans concorso galattico) se la sua istituzione gli ha detto “hai rispettato le nostre regole e raggiunto i nostri requisiti” (regole chiarite al momento dell’assunzione).

      Come sempre ricordiamo poi gli obiettivi minimi in conflitto riguardo i SSD (o le “Aree”). I SSD devono sparire al più presto; purtroppo, allo stesso tempo si meritano di morire di morte lenta e dolorosa e tra mille torture.

  14. La liberta’ nell’assunzione e’ stata un fatto, e forse lo sara’ ancora. Le commissioni di settori disciplinari ristretti di fatto hanno allargato la decisione ad una oligarchia di settore che si scambiava favori. A differenza degli USA, le conseguenze di questa metodologia non si sono mai viste in termini di impatto su atenei.
    In Francia le procedure di valutazione si e’ ricordato iniziano generazioni fa; certo che sono rodate come noi, in nessun caso potevamo sperare di raggiungere in uno (pochi anni). Tutto perfettibile, ma voglio leggere di qualcuno che sostenga apertamente che nulla doveva cambiare.
    L’abilitazione ha eletto indici biblimetrici come variabile fondamentale per la valutazione. Come sottolineato da qualcuno, c’e’ chi in prospettiva superera’ piu agevolmente il problema – il figlio del “barone” apparira’ piu’ sistematicamente nei lavori pubblicati di un dipartimento. MA, servira’ comunque ad innalzare mediane, in casi particolarmente basse.
    A parte miglioramennti slla procedura, che potrebbe includere una abilitazione biennale, quello che forse manca ora sono assunzioni sotto esclusiva responabilita’ del singolo ateneo con una rigorosa valutazione, certo anche questa da migliorare, degli atenei.
    Dato per certo che, partite tardi, abilitazione e valutazione non potevano comunque essere perfette, forza, venite fuori e dichiarate apertamente che non ci dovrebbe essere alcun tipo di valutazione. Non “vi” lamentate poi che il mondo accademico sia marginalizzato: non si e’ saputo riformare dall’interno ed e’ stato quindi riformato prevalentemente dall’esterno.

  15. Marco Antoniotti, anch’io preferisco il sistema americano ( vedi commenti in Monitoring ASN), ma qui si commentava un articolo basato sulla comparazione col sistema di reclutamento francese. Il sistema accademico francese è completamente pubblico come quello italiano, il sistema americano non lo è: tutto qui. La pertinenza a un ssd è stata usata strumentalmente per eliminare candidati validi o non è stata affatto considerata per favorirli,ma non vanno eliminati i ssd: vanno messi sotto controllo i commissari che hanno usato tale tecnica erroneamente. Non credo si debba ricorrere al Tar, ma il ministro Carrozza, che conosce il mondo accademico, il familismo, il clientilismo, dovrebbe richiedere ulteriori controlli, quando è stato usato tale metodo, valutando i commissari sorteggiati. Un sistema incapace di autocontrollarsi e valutarsi delibera la propria fine. I commissari non erano stati eletti, ma sorteggiati, quindi possono essere valutati dai candidati commissari non sorteggiati e considerati sorteggiabili. Quindi non prendiamocela con gli ssd, ma come sono stati usati, semmai.

  16. Scusate c’e’ chi sa dirmi con CERTEZZA per un non idoneo, tirnata 2012, quando ci si puo’ ripresentare? non e’ una cosa cosi’ banale…il decreto parla del biennio successivo. Ma come viene calcolaro? si puo’ rifare domana nel 2014 oppure nel 2015
    Grazie

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