Qual è il ruolo della valutazione nella «buona scuola» di Renzi? Quali le analogie con l’università? Perché nel mondo della scuola la parola “merito” produce di regola risposte difensive? Come viene ridisegnato il ruolo dei Presidi-Manager? Come mai dagli anni ’80 ad oggi l’istruzione è oggetto di un vero e proprio bombardamento a suon di riforme? La sollecitazione di un coinvolgimento dal basso segna un cambiamento di tendenza? Si va delineando una linea strategica e, se sì, quale? Su questi temi Roberto Ciccarelli intervista Valeria Pinto, l’autrice di “Valutare e Punire”. Una sintesi dell’intervista è stata pubblicata sul Manifesto del 3.9.2014.
Roberto Ciccarelli: «Il “patto educativo” di Renzi sulla scuola è ispirato ad una politica dell’istruzione coerente con le politiche neoliberali da tutti considerate un riferimento. Su questo non c’erano illusioni da farsi – afferma Valeria Pinto, docente di filosofia teoretica alla Federico II di Napoli, autrice di un attualissimo e fortunato libro sulla valutazione nell’università e nella ricerca “Valutare e punire” (Cronopio) – Il governo accelera un processo costruito in decenni. L’unica sorpresa è che un governo non eletto si sia impegnato in una trasformazione così ampia».
Qual è il ruolo della valutazione nella «buona scuola» di Renzi?
Valeria Pinto: È il cuore della riforma di Renzi. Il suo ruolo emerge quando si parla del «piano di miglioramento», un concetto ingannevole della nuova retorica pubblica, come la parola «qualità» cui spesso si accompagna. Si tratta di un tipico strumento di controllo del management per obiettivi. Quando si parla dell’aggiornamento e della formazione continua si chiarisce che i docenti devono raggiungere gli obiettivi «preposti». Preposti da chi? Chi decide? Sempre più questi obiettivi coincidono con i quelli dei cosiddetti «portatori di interessi», interessi che, alla fine, sono solo interessi di classe, gli unici dotati della forza per imporsi su altri. Con buona pace della libertà di insegnamento, la riforma neoliberale lo converte in un servizio di formazione per le aziende. Anche nell’università la valutazione costituisce ormai l’architrave istituzionale e il nuovo luogo di potere: una concentrazione mai vista prima. Essa è infatti una forma di governo, la forma di governo dello «evaluative State», lo Stato della valutazione. Si chiama «governing by number», governo con i numeri o governo a distanza. A dispetto della parvenza democratica – siamo consultati su tutto ormai, specie online, ma a contare sono solo le opinioni che danno copertura a scelte già fatte – è un governo di controllo capillare teso a «cambiare le menti», come disse Monti premier, di fatto citando la Thatcher.
Altro aspetto della riforma è quello del controllo. Anche questo rientra nella valutazione?
Certo. Sono ricorrenti i concetti di ispezione e rendicontazione. C’è l’accentramento del potere nelle mani del preside-manager e del consiglio di amministrazione, l’annullamento degli organismi intermedi di rappresentanza. Si premia la disponibilità allo sfruttamento, sotto l’etichetta «produttività», formalizzando un aumento dell’orario di lavoro che arriva anche a raddoppiare. C’è il «registro nazionale dei docenti», dove questi saranno tracciati in tutte le loro attività, costantemente sotto controllo, per «individuare coloro che meglio rispondono al piano di miglioramento preposto». In tutto questo forse una novità c’è: la violenza, la nettezza, con cui emerge il disegno di spossessamento. Questo è avvenuto anche nell’università, dove forse solo ora qualcuno inizia a capire cosa significa valutazione: un potentissimo strumento di centralizzazione del potere e di spossessamento di chi è impegnato sul campo.
Che cos’è la «meritocrazia» che Renzi vuole introdurre nella scuola?
Quando è stata istituita, l’agenzia di valutazione Anvur è stata giustificata con l’esigenza di «premiare merito e qualità». Chi potrebbe opporsi a questo? Il problema è, credo, capire la cornice ideologica che sostiene questa apparente evidenza. Ciò «che premia il merito facilita il processo di equità sociale. Il merito non è il privilegio dei ricchi, ma la carta che hanno i poveri per riscattarsi» disse Fabio Mussi da ministro del centrosinistra nel 2006. Si deve a lui, che già parlava di «equità», l’ideazione dell’Anvur. In realtà, il sistema del merito emana, rafforzandolo, dal riconoscimento della giustizia e dell’evidenza dell’ordine sociale esistente. Rendendo le diseguaglianze accettabili su basi razionali e eticamente legittime, la meritocrazia risponde all’esigenza di mantenere fermo questo ordine. Essa non combatte le diseguaglianze, ma si preoccupa di legittimarle. In questa cornice l’istruzione è l’arma per la perfetta razionalizzazione dell’esclusione. Il modello che si prospetta per la scuola è questo.
Perché l’istruzione è stata bombardata da riforme dalla fine degli anni Ottanta ad oggi?
Il momento centrale per le politiche dell’istruzione è il Processo di Bologna nel 1999, definito oggi da Žižek «un attacco concertato a ciò che Kant chiamava l’uso pubblico della ragione». Il principio è lo stesso che vediamo all’opera nel progetto renziano: educare al problem-solving, subordinare l’istruzione alla produzione di un sapere competente e utile. L’attuale riforma della scuola è in assoluta continuità con i progetti sviluppati fin dalla bozza Martinotti, alla base della riforma Berlinguer dell’università. Evidentemente alla fine ha fatto breccia l’idea che l’istruzione garantita dallo Stato sia una «industria socialista», secondo la celebre espressione di Milton Friedman.
Perché, quando si parla di «merito», le risposte della scuola sono sempre difensive?
La forza di questo discorso intimidisce e rincoglionisce, come disse Tullio Gregory dell’Anvur a Il Manifesto. Si teme di apparire estremi, ideologici, conservatori. L’immagine di discredito del nostro sistema formativo, oggetto di diffuse campagne stampa, è stata interiorizzata, mentre la «cultura della valutazione» – nel migliore dei casi pura cultura neoliberale, per lo più semplice paccottiglia – ha cucinato a fuoco lento la nostra coscienza critica. È come la rana bollita di Chomsky, quella che all’inizio sguazza felice nell’acqua tiepida. Poi, mentre la temperatura sale, si sente un po’ fiacca ma non se ne dà pensiero, sdrammatizza. Quando l’acqua diventa calda davvero magari sì, si mette sulla difensiva, ma non serve niente, in un attimo è cotta. Ecco che cose che ci avrebbero fatto orrore solo qualche decennio fa sono oggi proposte e accettate come soluzioni «semplici e concrete», secondo una «pragmatica generale» che è la nuova cifra del tempo.
Il governo rilancia il ruolo dei privati nella scuola. Si prospetta una privatizzazione oppure si vuole gestire la scuola – e in generale il pubblico – come se fossero delle aziende?
Le due cose non sono mai state in alternativa: si tratta di formare nuove soggettività flessibili conformi alle regole del mercato. Quello determinato dalla valutazione è un «quasi-mercato», l’analogo del sistema informativo dei prezzi. Sorprendentemente ancora qualcuno si ostina a non vedere il nesso, peraltro dichiarato (basta sfogliare, ad esempio, il recente libro della Fondazione Agnelli La valutazione della scuola).
Qual è l’idea di fondo di questa strategia?
La cosiddetta «school choice». L’intento è fornire alle famiglie le informazioni per scegliere come investire il proprio capitale (in primis capitale umano) e per rendersi quindi responsabili delle proprie scelte ovvero del proprio destino. La conseguenza logica è il modello «voucher» per rendere le famiglie «libere» di scegliere la migliore scuola per i loro figli, nella sostanziale liquidazione della scuola pubblica. Si parte dall’assunto che «le risorse pubbliche non saranno mai sufficienti», presentato come un’evidenza naturale, nella neutralizzazione di qualunque interrogativo sul perché, e si rende semplice buon senso l’ingresso dei privati. Ecco che la finanziarizzazione del sapere diventa qualcosa di molto tangibile.
Tutto questo è presente nella «buona scuola» di Renzi?
Nel «patto educativo» si parla di «finanza buona», di «obbligazioni ad impatto sociale», i «social impact bond» già utilizzati in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. La scuola è sempre più risucchiata in un universo di concetti, valori, criteri che ha nel mercato il suo unico riferimento. Questo movimento è cominciato con la trasformazione di sufficienze e insufficienze scolastiche in crediti e debiti. La logica privatistica è funzionale all’ingresso dei privati, ad affari in carne ed ossa, fino al grande business della formazione.
Quali possono essere gli ostacoli che questa ipotetica riforma potrà incontrare sul suo cammino?
Come si farà, ad esempio, nella scuola dell’obbligo ad affidare degli alunni a insegnanti riconosciutamente di serie B o a istituti trasparentemente di serie C? Di fronte a risultati negativi degli allievi, le famiglie dovranno prepararsi a una class action? In un sistema dove l’istruzione è un diritto sancito dalla costituzione, è legittimo che qualcuno abbia insegnanti «eccellenti» e altri abbiano invece insegnanti «screditati»? Ma anche questi scogli saranno superati, perché a questo punto gli insegnanti mal valutati – per qualunque motivo – non potranno che essere allontanati… al momento si parla di mobilità, ma così come si parla di «superare il grigiore dei trattamenti indifferenziati» avendo di mira il contratto collettivo, si potrà ben chiamare «resi finalmente mobili» gli insegnanti accompagnati alla porta.
Una riforma che premia il «merito» ed è basata sulla valutazione è stata già introdotta nell’università dal 2011. Qual è il bilancio?
Quello atteso da chi avesse avuto la pazienza di guardare dove queste pratiche avevano già mostrato le proprie vere finalità: tagli, estinzione dei processi democratici, una ricerca addomesticata e di respiro sempre più corto, vincolata a programmi e obiettivi funzionali agli interessi delle oligarchie imprenditoriali globali e alla loro legittimazione culturale. Poi un po’ di ridefinizione dei rapporti di potere: sostanzialmente una rilegittimazione dei vecchi poteri sotto forma di nuove «tecno-baronie». E soprattutto: nessuna evidenza – nessuna evidenza indipendente – che la valutazione abbia migliorato la ricerca e l’istruzione. D’altra parte non è concepita per questo.
A differenza della riforma Gelmini, Renzi oggi dice di sollecitare il coinvolgimento della scuola. La sua è un’apertura effettiva al dialogo?
Stiamo parlando di processi che sollecitano sempre una «spontanea» adesione a quanto richiesto dall’alto. Quello di Renzi non fa eccezione perché fa appello alla convinta partecipazione di coloro che vi sono sottoposti. È sulla base di una consapevolezza indebolita, fiaccata (la rana bollita), che si rende possibile quello che viene definito «patto sulla scuola», espressione che ricorda il patto che Berlusconi diceva di avere siglato con gli italiani. Lo Stato valutativo funziona sempre solo con la sostanziale complicità di coloro che vi sono sottoposti. Non a caso c’è chi parla di «servitù volontaria». A me pare più rispondente l’idea foucaultiana di governamentalità: produrre soggettività autonomamente conformi alle procedure attese. Alla fine, siamo davanti a una macchina potentissima, a dispositivi globali di trasformazione. Bisognerebbe attaccarli direttamente, attaccare da ogni lato.
Cara Valeria,
non sono del tutto d’accordo. Personalmente considero la valutazione uno strumento, in quanto tale del tutto neutro. Valutare è cosa diversa da governare. Il bersaglio, credo, sono le scelte politiche, e strumenti di valutazione spesso mal congegnati, non il valutare in sé. Un sistema ottimale per esempio, e qui penso alla ricerca e non alla scuola, dovrebbe prevedere un finanziamento base in grado di assicurare il funzionamento base per tutti e poi, perché no, quote premiali con funzione incentivante. Premiali, non punitive. Quanto al merito, non sono sicuro che sia una parolaccia. Anche i costituenti hanno posto attenzione ai capaci e meritevoli (art. 34), da premiare per concorso, nota bene, e credo che abbiano così recepito un principio di giustizia sociale. Insomma, e concludo, non credo che per criticare la (annunciata) riforma di Renzi valga la pena di scomodare i massimi sistemi. La valutazione per terzili dei docenti di scuola è una cosa stupida e basta e la cosa è autoevidente.
Nella situazione disperata in cui siamo, sarebbe già un progresso se si limitassero a punirci e basta, risparmiandoci almeno il delirio valutativo. La valutazione fai-da-te che ci propinano assomiglia molto ad una pena accessoria che si somma a quella principale. La vicenda di AVA è emblematica.
Sono molto simpatetico con Giuseppe. Sarebbe molto più onesto e molto meno costoso se si limitassero a punire scuola e università.
Non sono d’accordo con Antonio (e mi capita davvero di rado): ogni pratica valutativa incorpora una visione del mondo e non è neutra. Si decide volutamente cosa premiare e cosa punire, prima.
Cosa molto diversa sarebbe una analisi delle performance completamente trasparente nei suoi presupposti (e nei dati utilizzati) che NON SIA utilizzata automaticamente per premiare e punire. Ma questa non interessa a nessuno in questo povero paese.
Io credo che il documento di Renzi sulla scuola stia tutto dentro una visione della scuola e dell’istruzione che deriva direttamente dalla economia neoclassica dell’istruzione. Merito, allocazione efficiente delle risorse ed un po’ di peloso paternalismo distributivo. Il tutto fatto passare come di sinistra perché nel mondo rovesciato italiano “il liberismo è di sinistra”. Con buona pace di Condorcet, Rawls e della costituzione.
A me pare più che altro un pateracchio in cui la visione del mondo è solo un elemento di marketing in un contesto di ridimensionamento delle risorse, ma forse sono troppo cinico.
Preciso ulteriormente: in alcune alzate di ingegno di questa “riforma” ho la sensazione che ci sia il contributo di un certo tipo di “consulenti strategici”. Ovviamente si può ricondurne l’orientamento a una “visione del mondo”. Io però recentemente ho qualche problema con le “visioni del mondo” in generale e tendo a pensare che se qualcuno mi dice che 3+3 fa 10, è un errore, senza bisogno di ricondurre la questione ai massimi sistemi. Con ciò riconosco che può trattarsi di un mio limite. Ancora: quello che mi preoccupa è il messaggio. Non vorrei che a furia di parlare di massimi sistemi ci troviamo in un fortino con un’opinione pubblica forcaiola perfettamente imbevuta di visioni del mondo che non ci piacciono. Anche per questo, preferisco spiegare che 3+3 fa 6 e non 10. E’ tutto più pulito, per così dire. I terzili, non funzionano, sono sbagliati e iniqui, a prescindere. Punkt.
Sì Antonio. Il punto è che è importantissimo dire che 3+3 non fa 10, ma 6. Il punto è che in questo modo stiamo dicendo che l’operazione che stiamo facendo (nel nostro esempio una somma aritmetica) ha comunque un senso e solo i risultati sono errati.
Purtroppo nella gran parte dei casi nel nostro sventurato paese, è l’operazione a non avere alcun senso.
Purtroppo non è che il medico ha sbagliato la prescrizione. E’che ci stanno facendo bere pozioni magiche dicendo che si tratta di medicinali.
E quello che colpisce molto è che la comunità accademica è ben felice di farsele somministrare quelle pozioni magiche. Perché comunque fanno bene.
Per la scuola più o meno è la stessa cosa. Speriamo che gli studenti e i professori si accorgano per tempo.
Alberto, certamente. Credo però che somme sbagliate e pozioni magiche siano due facce di una stessa medaglia.
Segnalo Vertecchi intervistato dal Secolo XIX: http://www.ilsecoloxix.it/p/italia/2014/09/05/ARYRdfqB-riforma_vertecchi_avrebbe.shtml
E sopratutto questo che spiega le origini della Buona scuola di Renzi-Giannini:
http://temi.repubblica.it/micromega-online/la-buona-scuola-dei-chicago-boys/
Comunque, valeria scrive e dice sempre cose interessanti: che, per quanto non del tutto condivisibili, destano interesse e inducono alla riflessione. Per quanto mi collochi tra i riformisti e quindi non scomodo mai i massimi sistemi, mi pare evidente che le tecniche di valutazione adottate di recente, insieme alle misure di governo del sistema universitario, presentino aspetti fortemente autoritari e indebitamente limitativi della libertà di ricerca. Per ciò che concerne il progetto di riforma della scuola, vorrei meglio vedere le carte. Mi permetto di osservare, però, che il contestuale progetto di riforma del lavoro pubblico, di cui già sono disponibili i testi, è intriso di una visione estremamente autoritaria caratterizzata dal rafforzamento del peso del potere politico e limitativo dell’autonomia della dirigenza pubblica nonché del ruolo del lavoratore pubblico che continua ad essere considerato (come da Brunetta) un fannullone che bisogna sorvegliare e punire. Da riformista ritengo, purtroppo, che continua a dominare una sorta di pensiero unico che impone una specie di aziendalizzazione di ogni apparato pubblico, senza però creare le condizioni di contesto che possono permettere alla pubblica amministrazione di funzionare come una specie di azienda. In parole più semplici, la politica vuole continuare a mantenere la sua presa sugli apparati senza assumersi alcuna responsabilità che non sia quella alquanto labile della sanzione elettorale.
Gravissimo è ciò che dice oggi il Ministro Giannini, e cioè che vuole togliere del tutto i Commissari esterni dell’Esame di Stato, facendosi burla del ruolo delle prove finali. L’opposto di quello che bisognerebbe fare, cioè irrobustire il carattere di ‘valutazione esterna’ di tutte le prove sommative, che vanno valorizzate non solo alla fine dei cicli, ma anche di ciascun anno scolastico.
Io ho l’impressione (ma sarei felice di essere smentito dai fatti) che Giannini-Renzi abbiano in mente di usare le prove INVALSI come una specie di sostituto dell’esame di maturità. Lasciarlo fare ai soli commissari interni è coerente con l’idea che tanto per andare alluniversità conteranno i risultati invalsi. Di questo hanno scritto sicuramnete Ichino e Terlizzese, forse Daniele Checchi e compagnia vociante (nel senso de La voce).
Sarebbe anche questo un impoverimento devastante dell’Esame, ma non ci credo. Credo di più al laissez-faire ai docenti locali, salvo poi lamentarsi che i criteri non sono omogenei su tutto il territorio nazionale.
O al limite faranno un misciotto imbevibile e senza senso didattico.
Appunto Renzo, la lamentazione dei criteri non omogenei è prodromica all’uso dei test invalsi. Ma ripeto sono congetture e sarei felice di sbagliarmi. Se mi sbaglio ti pago volentieri da bere se vieni al prossimo convegno roars!
Anzitutto grazie per gli interventi. Grazie ad Alessandro Bellavista per il commento così generoso e ai tre intervenuti della redazione, che sono un bel riscontro! Rispondo però direttamente ad Antonio, che solleva le distinzioni più nette.
Caro Antonio, io conosco bene la tua posizione, leggo i tuoi articoli sulla valutazione (non solo quelli su Roars), quindi mi è chiaro da sempre che, pur nella frequente convergenza di critiche puntuali, le nostre posizioni divergono quanto al quadro di lettura complessivo. So bene, anzi, che la mia posizione sulla valutazione è qui da noi una posizione isolata (per usare un eufemismo), e questo nonostante che da noi forse più che altrove (ma non differentemente che altrove) la valutazione manifesti in maniera tangibile la propria natura (diciamo così per capirci) di “un cavallo di Troia per far penetrare i capisaldi del neoliberalismo ad ogni livello della vita pubblica”, per dirla con Guy Neave. In effetti, se ho scritto un libro come “Valutare e punire”, che ha come sottotitolo “Una critica della cultura della valutazione”, è proprio perché mi colpiva la mancanza da noi – a differenza che negli altri paesi democratici – di una critica che portasse allo scoperto la visione del mondo sottesa alle diverse pratiche valutative. Va da sé allora che sono assolutamente d’accordo con Alberto: non esistono strumenti neutri. Se appaiono tali è semmai perché si costruiscono gli strumenti, si riflette sul loro uso, a volte sul loro impatto, magari sulle fallacie, ma non si riflette sui processi, i rapporti di forze, le rotture e le continuità, le nuove dinamiche di senso (“l’economia generale delle pratiche”, per dirla con Bourdieu), fino a metter capo ad una sorta di “naturalizzazione” dello strumento, che viene assunto come un fatto che c’è e rispetto al quale ogni discorso di legittimità è giudicato superfluo. Ricordo l’autentico stupore procuratomi dalla scoperta, nel mio primo articolo su questi temi, che la valutazione era invece, per ampiezza di teorizzazione e effettiva pervasività, un fenomeno di dimensioni e impatto sorprendenti. E noialtri “filosofi” (si fa per dire…), quando un fenomeno ci colpisce, poi ci vogliamo vedere chiaro… Forse, quelli che tu denunci come massimi sistemi sono solo abituali sistemi di riflessione filosofica (si è fatta filosofia – grande filosofia! – riflettendo sul manico di una brocca… figuriamoci allora). Alla fine, nel bene e nel male, se ho dato un contributo al dibattito pubblico, credo che sia appunto quello di aver introdotto il tema di una “critica della cultura della valutazione”. Ecco com’è che mi trovo del tutto all’opposto della scelta (pragmatista?) di non parlare dei massimi sistemi.
Tuttavia (su questo tante volte ci siamo incontrati), seppure parlo di massimi sistemi ne parlo sempre in aderenza alle loro minime articolazioni. Per me, avere di mira non semplicemente la valutazione ma la cultura della valutazione non significa far calare dall’alto una critica generica, astrattamente ideologica, che non entra nel merito delle prassi concrete, degli aspetti tecnici, degli strumenti adoperati, delle differenze di procedimento imposte dai differenti oggetti. Per questo ritengo preziosissimo il lavoro sugli strumenti e chi lo svolge. Penso però che questo lavoro da solo non basta. Pensare che basti, persino, potrebbe fare il gioco di questa medesima cultura, che invita a non soffermarsi su questioni di principio (dette astratte o ideologiche), a non intrattenersi in riflessioni di ordine generale (dette oziose o roba da professoroni), ma a guardare unicamente ai risultati (al fare), secondo la logica del “fateci lavorare” e/o “giudicatemi dai risultati”, che riduce l’interlocuzione legittima a nulla più che al suggerimento (senza necessità che lo si ascolti…) di interventi mirati su questo o quell’aspetto allo scopo alla fine di catturare l’interlocutore in una rete o frame predisposta e non alterabile.
Ora, proprio guardando attentamente snodi e passaggi, devo dire, non mi ha mai persuaso l’idea minimalista che all’Anvur siano fessi e incapaci, o che lo siano alla CRUI, o al governo, o in Europa… Come tu che conosci il dibattito internazionale ben sai, in ogni paese ciascuno pensa che i propri siano i più incapaci e incompetenti… Ma davvero può essere un caso di rimbecillimento globale? Io penso che da noi non siano molto più incompetenti che altrove. Semmai, il fatto che all’Anvur, per esempio, non ci siano persone di grande levatura può voler dire tutt’al più che non ce n’è necessità: neppure perché le politiche dell’agenzia abbiano consenso, riscosso anzi a piene mani nonostante le cialtronate più eclatanti… e questo perché il consenso lo si è prodotto altrove e con altri mezzi e con diverse tattiche e lungo decenni. E’ un’offensiva combattuta su più fronti, secondo le moderne tecnologie di governo proprie di un assetto – per usare un termine foucaltiano – “governamentale”… Si può non essere d’accordo e contestare questa lettura, ma che la valutazione sia una tecnologia neoliberale di “governo a distanza” non è una vaga elucubrazione, ma una tesi piuttosto accreditata: non solo, in realtà, da una prospettiva strettamente foucaltiana; basta pensare ad esempio al concetto di “Evaluative state” di Guy Neave – un esperto, un tecnico sarei tentata di dire se non pensassi che non esistono puri “tecnici” (a parte forse quelli che un tempo aggiustavano televisori e lavatrici) – il quale, proprio in vista di un’adeguata comprensione delle politiche valutative in campo educativo, mette in guardia dal restringere il discorso allo “high-educationism”.
D’altra parte, anche in Italia, la tesi che la cosiddetta “cultura della valutazione” coincida, allo stato, con la cultura neoliberale è data ormai per scontata dai suoi stessi sostenitori. Guarda per esempio questo testo, assai significativo, intitolato “Perchè valutiamo”. “Dagli anni ’80 i paesi europei hanno conosciuto un cambiamento ideologico, tutt’ora in corso, che andava nel senso dell’affermazione del paradigma neo-liberale, il quale doveva rimpiazzare il precedente legato al sistema di welfare, ormai considerato vecchio e inadeguato alle esigenze della società e dell’economia post-moderna. Il movimento descritto ha conseguenze rilevanti per l’organizzazione della Pubblica Amministrazione, poiché implica un passaggio da un controllo di legalità a un controllo di risultato, ma ha conseguenze rilevanti anche per le organizzazioni, comprese quelle che sviluppano attività di ricerca come le università e gli enti […]. La valutazione è uno strumento essenziale per l’applicazione del principio neo-liberale, quindi uno strumento di indirizzo, di controllo e di accountability allo stesso tempo, che consente al decisore politico di aumentare la base di conoscenze e informazioni su cui fondare le proprie scelte, in primo luogo quelle relative all’allocazione delle risorse, alla determinazione di incentivi, premi o punizioni, alla configurazione dei programmi di sviluppo pluriennale, e al disegno degli interventi di policy. La valutazione consente di governare un ambiente caratterizzato da una larga e sostanziale autonomia degli attori […]. Essa […] è […] al tempo stesso un processo conoscitivo e un processo sociale, e, come tale, interessa i soggetti che la conducono, coloro che sono valutati, coloro che decidono di avviare il processo di valutazione medesimo (i cd. sponsor o mandanti della valutazione), ma anche tutti i cittadini che indirettamente contribuiscono al sostegno della ricerca medesima. L’effetto complessivo comprende, cambiamenti organizzativi, culturali e sociali, che investono individui, gruppi, laboratori, istituzioni, politiche, e che sono prodotti e rafforzati all’interno delle diverse realtà interessate […], La valutazione è uno strumento d’indirizzo molto potente, suscettibile di produrre risultati profondi. Ogni valutazione manda un messaggio preciso alla comunità dei valutati, su quali sono le priorità, e quali le modalità per perseguirle: tanto più queste ultime saranno in linea con le pratiche esistenti e condivise a livello internazionale, tanto maggiore sarà la possibilità di una adesione spontanea e partecipata alla valutazione” ( http://www.analysis-online.net/wp-content/uploads/2013/03/reale2011.pdf). A buon diritto, in un dibattito di qualche tempo fa, Emanuela Reale – l’autrice di questo testo – mi contestò come un’ovvietà l’affermazione che la cultura della valutazione fosse cultura neo-liberale (se non fosse che esattamente questo era ciò che in quel caso tutti gli altri apologeti della valutazione accoratamente negavano… avercene di avversari così trasparenti!). Insomma, a fare tre più tre, oserei dire, non si mette in piedi una macchina valutativa di queste dimensioni semplicemente per distribuire una quota di finanziamenti e per scovare qualche fannullone…
Ma vengo a un altro punto del tuo commento: il “merito”. E’ vero che anche nella Costituzione se ne parla: “i capaci e i meritevoli” (due cose distinte, e l’una non basta senza l’altra). Ma quando i padri costituenti hanno scritto quell’articolo non potevano immaginare la specifica curvatura meritocratica del merito (come sai benissimo, la parla meritocrazia non esisteva nemmeno). Ossia la curvatura per la quale oggi una nozione che, all’epoca, era richiamata al fine di assicurare agli *studenti* (non altri che questa figura) il “diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi” “anche se privi di mezzi”, diventa strumento per articolare, a tutti i livelli, una società più classista e diseguale. Penso cioè che sia proprio un errore – lo stesso errore di Mussi – pensare che il merito sia strumento di realizzazione di “un principio di giustizia sociale”. Certo nessuno del partito cui è stato iscritto per anni Mussi lo ha mai pensato, ma neppure nessun socialista in senso proprio. A me pare, piuttosto, che se qualche conquista nella direzione di una maggiore “giustizia sociale” c’è stata, questa non sia venuta tanto dall’articolo in questione ma dalle lotte degli operai, grazie alle quali si è ottenuta la realizzazione, in parte, di certi principi e diritti (ora non a caso rimessi tutti in discussione e fatti passare per “privilegi”); allo stesso modo, non è certo attraverso quell’articolo della Costituzione che una università di élite è diventata un’università aperta a tutti. Si può non essere d’accordo, pensare che l’università di massa sia stata una sciagura (senz’altro prima o poi sentiremo anche questo da Mussi, da Bertinotti, o magari l’hanno già detto e io semplicemente ero distratta), ma battute a parte è vero, qui si tratta del giudizio politico su un momento storico e più in generale sul rapporto tra democrazie liberali e capitalismo e possiamo vederla diversamente. Resta però che oggi quell’articolo della Costituzione – se richiamato senza alcuna storicizzazione – secondo me non è molto più che un paravento per la realizzazione di principi affatto diversi.
Perché è verissimo: merito non è affatto una parolaccia; ma è un concetto difficile, filosoficamente problematicissimo… un concetto di natura etica assai intricato, che non indica un comportamento o un’azione dovuta (chi fa il proprio dovere non è meritevole, ma è certo un demerito fare meno del proprio dovere)… un concetto che in tutti i casi presuppone un comune orizzonte valoriale e mira a giustificarlo. Senza pretese di andare a fondo in un post di commento, mi limito ad un unico punto. Il merito non è nulla di contenutisticamente determinato, ha viceversa un carattere intrinsecamente relazionale. Con “merito”, lo osservava già Georg Simmel alla fine dell’Ottocento, “non è intesa una proprietà dell’azione che, per così dire, resti in se stessa o la caratterizzi senza relazione ad altro, senza uscire fuori di sé […]; l’azione meritevole e la sua ricompensa non sono concetti tra loro indipendenti e da porre solo in connessione sintetica; al contrario, si è dato il nome di meritevoli a quelle azioni cui generalmente si è reagito con una ricompensa”. La stessa etimologia richiama questo carattere relazionale: merito (merere, avere parte, guadagnare, dal greco meris, pezzo, porzione, da cui l’italiano merenda) è direttamente la parte di ricompensa cui si ha diritto. In tedesco Verdienst indica indifferentemente merito e guadagno. Così, perché un’azione possa dirsi meritevole, il suo valore deve essere apprezzato da un terzo e da tale apprezzamento chi l’ha compiuta deve trarre – come si dice – il suo ritorno. Insomma,non vi è merito senza feedback, anzi il merito altro non è che descrizione di un feedback. Suo presupposto è un solido quadro di riferimento comune tra chi compie l’azione e chi la valuta. Un ribelle, un rivoluzionario, ma anche chi si pone semplicemente in una posizione eccentrica, non aderente al canone stabilito, non può per definizione essere meritevole (come d’altro lato si può essere meritevoli ma incapaci… ma su questo non mi inoltro adesso). Persino chi quietamente e ordinatamente fa il proprio dovere non può essere definito meritevole. Anzi, nel reclamare comportamenti che eccedono i doveri stabiliti dalla legge, il merito in un certo senso sollecita il superamento della semplice prassi ordinaria; ma al tempo stesso, ed è questa la singolarità, qui la rottura dell’ordinario è paradossalmente tesa al rafforzamento dell’ordine dato. Ecco la funzione per dire così di “rottura stabilizzatrice” del merito: quella di rafforzare le relazioni, le gerarchie esistenti, il sistema valoriale esistente. Una nozione chiaramente conservatrice ma compatibile con le necessità di mobilizzazione di energie che il neoliberalismo richiede, anzi impone a tutti coloro che devono farsi imprenditori di se stessi (cioè a tutti); compatibile, in altri termini, con la “distruzione creativa” della concorrenza (cfr. Schumpeter). Tutt’altra mobilità rispetto alla legge, la quale per sua natura fissa, incatena, blocca energie, non le provoca.
Ma veniamo ai nostri giorni e alla fenomenologia concreta del merito. A me pare evidente come esso sia parte della stessa costellazione ideale della nozione di “equità”: il principio funzionale a mantenere – nel regime di scatenamento onnipervasivo della concorrenza – uno stabile equilibrio, dove le disuguaglianze anziché colpite vengono incrementate (incremento delle disuguaglianze che in termini marxiani esprime la tendenza del capitale all’accentramento e all’accumulazione… nel vocabolario della valutazione il ben noto “Mattew effect”: a chiunque ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha). Insomma, equità e uguaglianza, come è chiarissimo, non sono la stessa cosa. Idealmente (salvo cioè turbative del mercato, ecco anche la necessità dell’assoluta trasparenza), il sistema dei prezzi è più di ogni altro un sistema di equilibrio. L’equità è il principio fondamentale del mercato come sistema di equivalenze (la massima oggettività e neutralità è quella del denaro, che non fa mai preferenze).
E allora, per capirci: se un laureato in lettere impiegato in un Call Center guadagna 2.50 euro l’ora (dato che non è di fantasia), molto meno quindi di 5000 euro l’anno, mentre, mettiamo, l’autore di “Mal di merito” ne guadagna all’anno 500 mila, a me pare piuttosto secondario se l’autore di “Mal di merito” sia arrivato ad occupare il ruolo che occupa grazie ad una selezione rigorosissima per titoli ed esami o perché figlio di una famiglia ben collocata o perché espressione di un partito (spesso tre cose che vanno tranquillamente insieme). Rispetto a questo abisso di disuguaglianza, la faccenda è appunto secondaria, anzi irrilevante. Di contro allo sdegno che talvolta si fa sentire dinanzi a queste evidenti ingiustizie, la riposta canonica è “questo è semplicemente il mio valore di mercato”, “valgo x, procuro all’azienda introiti pubblicitari per x+y”, come a dire: il mio stipendio è un compenso “equo” – equo perché questo dice il mercato. Ma il mercato, appunto, è equo… non è “giusto” (né c’è da chiedergli che lo sia, ad mentem sancti Thomae — fin tanto che non pretende di valere da riferimento universale). Il quasi-mercato della valutazione, che appunto si lega necessariamente (o quantomeno ovunque, al momento) a politiche meritocratiche, pretende invece di essere anche giusto, giusto perché equo.
La valutazione infatti ha pretese etiche, oltre che razionali (nel senso della razionalità distributiva, di allocazione di risorse). Non è un caso che nella retorica pubblica tutti i guasti del sistema siano alla fine attribuiti a privilegi di casta, al malaffare, a ruberie e a infingardaggine. Il sistema, si intende, funzionerebbe a meraviglia se le persone facessero il loro dovere, anzi, più del proprio dovere. Ma questo significa in realtà deviare lo sguardo dai problemi reali e legittimare un sistema in cui, si dice, 1% della popolazione mondiale detiene quasi la metà della ricchezza del pianeta. Nell’ottenere, oggi, una liquidazione di 26 milioni di euro non c’è malaffare o ruberia: è l’equo regime capitalistico della concorrenza. Ma vogliamo chiederci che cosa significa questo “neofeudalesimo”? Tu, Antonio, parli di concorso, ma il concorso è roba del secolo scorso, una competizione limitata e definita, che ha un inizio e una fine, in certo modo addirittura una limitazione della concorrenza, nel senso che la chiude entro limiti spaziali e temporali ben definiti; oggi, al suo posto subentra la concorrenza generalizzata e continua (anche se appunto spesso mimetizzata): una concorrenza che è (nell’interpretazione foucaltiana ma non solo) il nocciolo del capitalismo neoliberale.
Insomma la “Buona di scuola” è senza dubbio un pateracchio – ma non è semplicemente un pateracchio. Ho passato questi giorni a leggere il “Rethinking education” della Commissione europea, con lo “Entrepreneurship 2020 Action Plan” e tutto quello che si lega, e, credimi, il progetto di Renzi, al netto del pateracchio, è in sostanza la risposta zelante a queste direttive. “New foundations: increasing the prevalence and quality of entrepreneurial learning… Investing in entrepreneurship education is one of the highest return investments Europe can make. Ensure that the key competence ‘entrepreneurship’ is embedded into curricula across primary, secondary, vocational, higher and adult education before the end of 2015”. “Recognition of entrepreneurs as creators of jobs and prosperity should be spread into the administrations of all Member States Furthermore, Europe has to become a welcoming place for the smartest entrepreneurial minds on an international level”. “Therefore a radical change of the European culture towards new notions about entrepreneurship is needed, one that publicly celebrates success, brings the contributions of entrepreneurs to European prosperity to the fore and showcases the rewards of an entrepreneurial career”. Alla fine, noi possiamo anche non pensare ai massimi sistemi, se non ci va, ma gli altri ci pensano – e non si limitano a pensarci.
Scusatemi per aver abusato di questa occasione per provare a dire un po’ quello che penso. Ma era una bella occasione, di cui vi ringrazio. (E poi, come disse quel tale: perdonami per la lunghezza… non ho avuto tempo).
[…] originariamente su roars e in sintesi sul Manifesto del […]
D’accordo nel sostenere che la “cultura”, questa pseudocultura, della valutazione sostenga un progetto neoliberista e una visione capitalistica della società tutta.
Meno d’accordo sul fatto che i nostri governanti, anvuriani ecc… non siano più incompetenti o ignoranti degli altri, ad esempio in Europa. Meno d’accordo perché tutti i dati, su ricerca, innovazione, istruzione, formazione, ecc… non fanno altro che dire che l’Italia è fanalino di coda.
Meno d’accordo perché altrove si guardano bene dall’utilizzare la bibliometria farlocca delle mediane o degli indici improvvisati e non sostenuti da alcuna bibliografia autorevole di settore.
Diciamo allora che da noi la pesudocultura della valutazione si è innestata su un sistema già culturalmente debole, da diversi punti di vista. La cultura debole, ad esempio, di un’economia che si vorrebbe quasi solo basata sul turismo e sulla moda o quella dell’improvvisazione su temi che evidentemente richiedono almeno studio e documentazione.
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Ugualmente, il nostro livello di corruzione è ben noto, e sebbene non giustifichi completamente tutti i guasti del sistema, parlarne non vuol dire fare solo retorica.
Naturalmente il fenomeno della corruzione è ben diverso da quello dello stipendio “equo” per il quale ad esempio un calciatore con la terza media ha qualche Ferrari/Lamborghini mentre un Nobel vive “solo” dignitosamente. Diciamo che queste sono sperequazioni legalizzate del sistema capitalistico. Il welfare è nato proprio per bilanciare le storture più clamorose ed è uno strumento che altri Paesi continuano ad usare efficacemente anche in periodo di crisi. Anche il famoso fiscal compact consente di agire su numeratori e denominatori per rientrare nei parametri e quindi non vincola i valori di spesa.
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In questo momento c’è molta insofferenza nei confronti di mediane, AVA, SUA, VQR, e una certa anarchia accademica che tende e tenderà ad aggirare o a screditare questi meccanismi nell’ambito dell’ancora esistente -seppure sempre più flebile- autonomia accademica. La revisione dell’ASN è un effetto, ma è chiaro che bisognerà vedere i nuovi parametri prima di valutare come sarà stata efficace la protesta fatta a suon di interventi e ricorsi.
Il rischio concreto è la connivenza di una parte di università che tende e tenderà a servirsi di questi nuovi mezzi per gestire il potere. In poche parole, se una volta il “barone potente” era magari quello che allocava l’allievo per lui “meritevole” secondo criteri arbitrari e personali con l’ambizione di controllare la cooptazione, adesso il “barone potente” potrebbe essere quello che crea le condizioni per soddisfare l’idea di merito della “cultura della valutazione”. Gruppi con bibliometrie gonfiate e grande produttività, ad esempio.
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Il “merito” è un concetto molto astratto e riempirlo di pseudo-contenuti non è difficile. Questo è il motivo per cui la meritocrazia non ha in sé nessuna etica ed è diventata in questi anni spesso solo un paravento da dare in pasto all’opinione pubblica dietro il quale nascondere scelte politiche discutibili.
Lilla, non so che posto occuperebbe l’Anvur in un ipotetico ranking mondiale e/o europeo di agenzie di valutazione; soprattutto, considerata l’idea che ho della valutazione, non saprei se leggere un’eventuale collocazione ai piani alti come merito o demerito. Se della valutazione si dice, come si dice, che rappresenta una “técnica de normalización” , “eine totalitäre Normalisierung von Kontrolltechniken”, una “art of punishing”, la “folie evaluation”, e potrei continuare molto a lungo, non so se l’efficacia e l’efficienza di questo strumento sia qualcosa di augurabile. Allo stesso modo, per me, il fatto che “tutti i dati, su ricerca, innovazione, istruzione, formazione, ecc… non fanno altro che dire che l’Italia è fanalino di coda”, non costituisce come tale e di per sé motivo di allarme (il che non vuol dire che non ci siano validissime ragioni per allarmarsi).
Il QS ranking, 2013/14 conferma per filosofia, come negli anni passati (è un esempio che faccio spesso perché continua a impressionarmi), ben tre università cinesi (Fudan University al 17simo posto, Peking University al 28simo, Tsinghua University 36simo, mentre la prima italiana, la Sapienza, è tra il 51simo e 100simo posto): in altre parole, eccellono in esercizio del pensiero tre dipartimenti di un paese dove non c’è libertà di pensiero e i docenti lavorano con la polizia appostata sul pianerottolo di casa. Anche di qui, credo, si può capire la serietà e il valore di certi dati e certe classifiche. Viceversa, sono assolutamente preoccupata da chi le prende sul serio e si dà da fare per salirvi in cima.
Poi va sé che “les données ne sont pas données et ne tombent pas du ciel”, i dati non cadono dal cielo, vale a dire sono sempre determinati da una preliminare costruzione. Insomma, far dipendere la qualità della ricerca dalla qualità di un’agenzia di valutazione, ovvero dedurre la qualità della seconda – “gli anvuriani“ – muovendo dai risultati e dai riconoscimenti della prima (un rischio credo non voluto del suo ragionamento), mi sembra un accreditamento improprio delle agenzie di valutazione medesime.
Ma evito un commento di improponibile lunghezza come il precedente e mi fermo qui, ricordando solo un episodio che mi è capitato all’inizio del 2013. In un incontro pubblico, un amico ricercatore molto attivo nelle politiche della conoscenza e dell’istruzione e addentro a cose di valutazione, poco convinto della mia posizione “massimalista”, mi obiettò che, a differenza dell’Anvur, l’Aeres francese era un’agenzia nell’insieme seria, credibile, una valida alternativa, ragionevolmente ben concepita e realizzata a paragone di quello che era capitato a noi. Incredula, provai inutilmente a fare presente come contro quell’agenzia si stesse rivoltando mezza accademia francese, ma appunto inutilmente… Pochi giorni dopo, su tutto il web – e anche da noi subito ribattuta da Roars – si diffondeva la notizia dell’annuncio da parte del ministro Fioraso della chiusura dell’Aeres, accusata, come ormai noto, di essersi mostrata “arrogante, bureaucratique, tatillonne”.
“Délire bureaucratique”; “L’attitude de l’Aéres est impérialiste !”; “On perd du fric et on se ridiculise”; “la qualité des évaluations de l’AERES est deplorable […], prive de toute légitimité et de toute indépendance vis-à-vis du pouvoir politique et de l’idéologie managériale que celui-ci, obstinément, promeut […] Comment pourrait être indépendante une organisation qui, du haut jusque en bas, est fondée sur la désignation : désignation des dirigeants par le ministre et désignation en cascade des ‘experts’ par les dirigeants nommés par le ministre, jusqu’aux présidents des comités de visite et aux membres de ceux-ci ?”. Questa l’agenzia che si additava a modello…
La vicenda si è sviluppata poi un po’diversamente, ma qui non importa. In ogni caso, è vero che allora l’Aeres era membro Enqa mentre ancor oggi l’Anvur è tenuta ad aspettare sulla porta, ovvero ha da poco ottenuto la semplice affiliazione; ma appunto questa legittimazione non è niente di buono.“C’est tout un monde […] des gens et de l’argent, des techniques et des formations, des débats doctrinaux, des logiciels, une idéologie proliférante. C’est dans ce monde que l’AERES est allée mendier la légitimité qu’elle n’a pas su conquérir auprès des communautés qu’elle est censée évaluer : le 13 mai 2011, grande nouvelle, elle a été inscrite sur le European Quality Assurance Register for Higher Education. Après avoir été elle-même évaluée avec succès, bien sûr, par une agence bruxelloise encore plus bureaucratique qu’elle : l’ENQA, issue en 2004 de la déclaration de Bologne de 1999, qui est dirigée par un comité composé de directeurs d’agences nationales d’évaluation du type AERES. Asinus asinum fricat”.
“ha da poco ottenuto la semplice affiliazione; ma appunto questa legittimazione non è niente di buono”
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Non che sia una grande consolazione, ma l’affiliation ENQA è un contentino che non si nega a nessuno:
“Bodies that do not wish to, or for whatever reason are unable to, apply to become members of ENQA may request affiliate status within ENQA. Affiliates are entitled to receive ENQA publications and attend events, and are given access to the password protected areas of the ENQA website. They are not however, entitled to call themselves ‘members’ of ENQA and will have no voting rights.”
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ANVUR condivide questo privilegio con i valutatori equadoregni e giordani: http://www.enqa.eu/index.php/enqa-agencies/affiliates/
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Comunque su Cielo stanno tramettendo World Invasion. Chi sono i misteriosi alieni che mettono a ferro e fuoco Los Angeles? Per qualche ragione che non riesco a mettere a fuoco, il mio inconscio mi suggerisce che potrebbero chiamarsi “anvuriani” e sento scorrere un brivido.
Valeria, grazie ad un professore di francese delle superiori detto affettuosamente “il boia”… je comprends parfaitement ce que les Français disent à propos de l’AERES, mais je continue de penser que les “Anvuriens” sont des ânes de l’évaluation. C’est une affirmation affectueuse, ça va sans dire.
Di sicuro con le varie agenzie di valutazione, ANVUR ha in comune il fatto di essere “arrogante, bureaucratique, tatillonne”.
Per quanto mi riguarda, rischierei volentieri il qualunquismo dicendo che farei di tutte queste erbe un fascio. Sì, per potergli appiccare il fuoco.
Voltaire, da citare a proposito di un periodo decisamente poco illumista, diceva che: “n’est-il pas honteux que les fanatiques aient du zèle et que les sages n’en aient pas?”
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Sui dati. Considerate le mie idee non mi riferisco naturalmente ai numeri esoterici, ma più rozzamente a quelli delle rilevazioni di OECD, Eurostat, Istat, su investimenti in ricerca e istruzione, sui numeri dei ricercatori nelle università e nelle aziende, sul numero dei brevetti, dei laureati, ecc… Numeri che non sono opinioni, come quelle “à l’Anvur”, e che spiegano anche perché non cresciamo da anni.
Sulla qualità della ricerca neanche ANVUR, probabilmente con prurito allergico, può invece negare che i ricercatori italiani siano molto produttivi e molto citati, nonostante siano ormai des bohémiens o anche, des misérables.
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Spero di aver compreso correttamente entrambi gli interventi, che ho letto con sincero interesse come l’intervista. Il rischio infatti è dietro l’angolo: Voltaire stesso, che era poi anche ironico e autoironico come tutte le persone intelligenti, diceva che: “quando colui che ascolta non capisce colui che parla e colui che parla non sa cosa stia dicendo: questa è filosofia.” ;-)
“rilevazioni di OECD, Eurostat, Istat, su investimenti in ricerca e istruzione, sui numeri dei ricercatori nelle università e nelle aziende, sul numero dei brevetti, dei laureati, ecc… Numeri che non sono opinione”… Pensavo di non ribattere, perché in sostanza ci siamo intese (ma sul “governing by number” e le politiche neoliberali promosse dall’OECD ho un pacco di articoli: il tema è oramai un classico degli studi governamentali). Però l’assegnazione dell’IgNobel per l’economia all’Istat merita.
IgNobel 2014 per l’economia “per aver preso orgogliosamente l’iniziativa di adempiere al mandato dell’Unione Europea di aumentare l’entità ufficiale della propria economia nazionale includendo i proventi da prostituzione, vendita illegale di droghe, contrabbando oltre che di tutte le altre operazioni finanziarie illecite tra partecipanti volontari“. (Cambia il Sistema europeo dei conti nazionali e regionali – Sec2010, ISTAT, 2014: http://www.istat.it/it/archivio/122962).
(ne approfitto: @Giuseppe, sì lo so, del resto leggo Roars :-) https://www.roars.it/anvur-emarginata-dalleuropa-niente-membership-enqa/, ho scritto un po’ velocemente, mi riferivo alla legittimazione ottenuta da Aeres, non da Anvur)
A proposito di cattive e sottaciute pratiche nella scuola segnalo un blog di intelligente protesta e resistenza alla follia di chi ci amministra:
http://scuoleapertealsabato.blogspot.it/
scusami, ma cosa c’entra la settimana corta? A me pare solo un valido sistema per superarae il delirio dell’orario che si ripresenta ogni anno e per rivendicare tempo per sé. Non vedo il nesso con la discussioe in atto (a meno di non pensare che la settimene corta -storicamente conquista del movimento operaio- non sia un grimaldello dell’ordine neo-liberale!
[…] e punire, Cronopio, 2012), soprattutto in questa fase di lancio della grande consultazione sulla Buona Scuola che minaccia di essere sempre più meritocratica. Grazie a un articolo di Mauro Boarelli […]