Se il contenitore determina la qualità del contenuto, i pianisti che suonano in sale di second’ordine saranno necessariamente pessimi e dovranno essere stigmatizzati come tali. Di conseguenza, sarebbe uno spreco finanziare conservatori i cui diplomati non fanno concerti alla Scala. E sarebbe opportuno bollare come predatorie, tramite apposite liste, le sale che offrono esibizioni di pianisti pessimi perché esclusi dalla Scala: del resto chi, se non un impostore, accetterebbe di suonare in un teatro che, non essendo la Scala, lo marchierebbe immediatamente come un modesto strimpellatore?
Ciò che i filosofi le riviste dicono della realtà scienza è deludente quanto un cartello ‘Qui si stira’ appeso all’uscio di un rigattiere. Se porti i tuoi abiti sperando di farteli stirare, ti troverai beffato: è solo un cartello in vendita. (S Kierkegaard, Aut Aut)
A sostenere che occorre “valutare la ricerca per il suoi propri meriti piuttosto che in base alla rivista in cui è pubblicata” non sono ormai solo i firmatari della San Francisco Declaration on Research Assessment.1 Come si può credere che sia il contenitore a determinare la qualità del contenuto? Che basti versare del liquido tinto di rosso scuro in una bottiglia con l’etichetta “Barolo” stampata da una cantina di buona reputazione perché questo diventi, indiscutibilmente, del pregiatissimo Barolo?
Quando non di vino si tratta, ma di scienza – o meglio, della sua valutazione – l’etichetta pare però fondamentale.2 Quale pianista – recita una ripetuta metafora musicologica – preferirebbe suonare in un cinema-teatro parrocchiale invece che alla Scala? Ogni professione ha la sua Scala di valore: per i pianisti conta il prestigio dei teatri, proprio come per i ricercatori il prestigio delle riviste. E chiaramente un pianista che, essendo finanziato dal pubblico, contesti il prezzo dei biglietti della Scala e preferisca suonare una musica senza barriere è soltanto un perdente invidioso.
La Scala, qui, non è semplicemente un teatro più famoso, meglio frequentato e più remunerativo del cinema parrocchiale, in grado di offrire al pianista un più ampio pubblico attuale e potenziale: è un contenitore che determina il valore di ciò che in esso viene eseguito – per la comodità dello studioso divenuto funzionario che può permettersi di stilare classifiche anche quando non sa avvertire la differenza fra Maurizio Pollini e Giovanni Allevi.3 L’abito, dunque, e senza ironia romantica, fa il monaco.
Se il contenitore determina la qualità del contenuto, i pianisti che suonano in sale di second’ordine saranno necessariamente pessimi e dovranno essere stigmatizzati come tali. Di conseguenza, sarebbe uno spreco finanziare conservatori i cui diplomati non fanno concerti alla Scala. E sarebbe opportuno bollare come predatorie, tramite apposite liste, le sale che offrono esibizioni di pianisti pessimi perché esclusi dalla Scala: del resto chi, se non un impostore, accetterebbe di suonare in un teatro che, non essendo la Scala, lo marchierebbe immediatamente come un modesto strimpellatore? Né si dovrebbe negare attenzione al problema della fake music, che è oggi così facile distribuire in rete: per proteggere l’orecchio degli ascoltatori potrebbe essere una buona idea imporre alle piattaforme private dei filtri in caricamento, come ha saggiamente legiferato l’Unione Europea in materia di copyright.
Certo, questo sistema renderebbe molto difficile insegnare e studiare pianoforte e pericoloso suonarlo fuori dalle mura del teatro milanese. Ma la rarefazione di un’attività che, quando non è eccellente, è ancor più oziosa e improduttiva, dev’essere salutata con soddisfazione. Il numero dei pianisti si ridurrebbe fino ad annullarsi, ma non è forse la rarità un segno d’eccellenza?
La persistenza di persone che continuassero a studiare, insegnare e suonare il pianoforte anche senza la prospettiva di farlo allo Scala, per un’insensata passione per la musica, sarebbe, in verità, un problema difficile da risolvere, a meno di non cambiare la Costituzione così da render lecito proibire direttamente l’esercizio dell’arte, della scienza e del loro insegnamento. Ma la valutazione di stato italiana ha mostrato che quanto non si riesce a vietare si può però rendere proceduralmente odioso fino al punto di distruggere la salute delle persone che lo praticano. La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza, la musica è silenzio – soprattutto quando, per riuscire a capire se un pianista è bravo o no, dobbiamo aspettare che sia invitato alla Scala.
- Un articolo recente di Margit Osterloh e Bruno S. Frey elenca la lunga lista di opere e prese di posizione che hanno criticato questa prassi, a partire dal padre stesso dell’Impact Factor. Eugene Garfield., fino al Plan S e alla European University Association, per la quale i sistemi si misurazione in generali, compresi quelli basati sulle riviste, sono “misure quantitative, sebbene approssimate, della produzione e della visibilità della ricerca (o impatto) ma non necessariamente di qualità”.
- Dimostrare che questa tesi è collettivamente e distributivamente discutibile esula dallo scopo di questo testo.
- Che il sistema più appropriato di organizzazione e riconoscimento sociale della scienza sia lo star system e non invece una comunione più cooperativa è, naturalmente, discusso e discutibile.
Testo già apparso su Bollettino Telematico di Filosofia Politica.
Come non essere d’accordo con la tesi dell’articolo? Il problema è “che fare?” per invertire una tendenza che nel sistema italiano è andata ben al di là delle peggiori prassi internazionali. Personalmente sono pessimista sulle capacità della comunità scientifica di uscire dall’infatuazione per l’alibi “oggettivo” fonito dalle misure del “contenitore” come alternativa a quelle del “contenuto”.
Occorrerebbe trovare il modo di spezzare l’infausta alleanza tra buona parte della comunità scientifica italiana e il blocco politico/burocratico che accetta di buon grado, promuove e istituzionalizza (vedi anvur) questo malcostume.
L’allegoria del pianista è una delle peggiori immaginabili. A parte il fatto che non si va alla Scala per ascoltare solisti strumentali e musica da camera, se non marginalmente. Comunque: esistono premi, concorsi, perfezionamenti, borse anche per selezionare i giovani pianisti, e si tratta di una selezione internazionale e durissima. E se c’è una cosa che un giovane pianista capisce e accetta abbastanza rapidamente, tolti i casi di disturbo mentale alla Jeoffrey Rush, è se la carriera da concertista di professione sia o no alla sua portata. Infatti il mondo è pieno di pianisti perfettamente in grado di suscitare viva ammirazione in ognuno di noi profani, che però hanno scelto di esercitare la professione di ingegnere, docente, medico ecc. proprio perché conoscono abbastanza bene il pianoforte da sapersi giudicare esclusi da una statura artistica proponibile in pubblico. Lo stesso per la ricerca scientifica: o è di eccellenza o non è. Un po’ come la poesia: mediocribus esse poetis / non homines, non di, non concessere columnae.
“la ricerca scientifica: o è di eccellenza o non è”.
Se non c’è un livello medio, non c’e’ modo di misurare l’eccellenza. Rispetto a cosa si “eccelle'” se non ci fosse altro oltre l’eccellenza?
Questa visione mi sembra legata ad un’idea tardo-romantica della ricerca come prodotto del genio. Invece la ricerca di eccellenza esiste in quanto può sfruttare e capitalizzare tanti lavori di livello medio che creano le condizioni per quei (pochi) lavori che aprono nuovi campi o risolvono definitivamente vecchi problemi.
In ogni caso, il commento si limita all’analogia, ma non affronta il vero bubbone della valutazione “modello italiano” in cui la valutazione dell’ eccellenza è affidata a criteri pseudo-scientifici, legati alla cabala di IF e collocazioni editoriali. I peggiori criteri immaginabili. Sarebbe bene esprimersi sui questo.
L’allegoria del pianista non è mia, ma di qualcuno – in un luogo non umile della gerarchia accademica – che giustificava le liste di riviste imposte dalla valutazione di stato italiana paragonando la fascia A alla Scala. Io mi sono solo divertita a sviluppare la sua similitudine. Per maggior chiarezza possiamo sempre ricorrere al calcio: se si scoraggiassero sistematicamente i ragazzi e i giovani che giocano – per amore dello sport – in strada, all’oratorio o nelle formazioni dilettantistiche, perché noi vogliamo solo i professionisti eccellenti che entrano a San Siro, la probabilità di ottenere calciatori di buon livello aumenterebbe o diminuirebbe?
https://www.ilfattoquotidiano.it/2014/07/09/mondiali-trasparenza-nei-club-e-vivai-obbligatori-il-successo-del-calcio-tedesco/1054754/
:-)
Prima volta in vita che mi viene riconosciuta una carica di romanticismo, i 50 sono i nuovi 20, ma questo è aneddotico. Ma certo che di geni se ne può incontrare massimo uno o due se proprio si è stati privilegiati in gioventù. Qui parlerei di mestiere. Ad esempio chi praticasse la professione per amore del sapere senza debita abilitazione, semplicemente verrebbe arrestato e sottoposto a castighi, anche se invocasse la riserva mentale che un vivaio di pulcini della medicina è propedeutico al campionato mondiale del Nobel. In altre discipline, invece, nessuno rischia di lasciare morti e feriti. Quella in cui proverbialmente “non muore nessuno” è naturalmente l’area letteraria, nella quale è stato educato lo scrivente. E che da queste parti si pubblichi un po’ troppo, e comincino a spuntare un po’ troppe riviste semi-predatorie, non è certo un mio sogno di ieri notte: larga documentazione pubblicata negli anni da un accademico ben noto ma poco corporativo come Claudio Giunta. Il resto direi che è buon senso: ad es. che la sede di pubblicazione in genere sia un indicatore della serietà di una ricerca, per la ragione evidente che passi attraverso una revisione. E anche il fattore di impatto bibliografico, con tutte le riserve possibili, non sembra poi un parametro così peregrino: se non ti cita nessuno è abbastanza improbabile che tu abbia apportato una innovazione maggiore e il resto del mondo non se ne sia accorto, di Tesla ne nasce uno al secolo. C’è un leggendario articolo di Eco degli anni ’70 in cui si immaginano giudizi concorsuali su Dante Alighieri e Giambattista Vico, naturalmente perdenti nelle rispettive terne perché risultano i tipici isolati, di dubbio impatto bibliografico e di difficile collocazione disciplinare. Nella prima terna vinceva Ristoro d’Arezzo, e pazienza, nella seconda, mi sembra, Muratori (e oserei dire, il paradosso funziona meno: meglio fare la tesi con Vico o con Muratori?). Comunque quello di Eco era un caveat. Farne una rivendicazione non so se gioverebbe.
“Il resto direi che è buon senso: ad es. che la sede di pubblicazione in genere sia un indicatore della serietà di una ricerca, per la ragione evidente che passi attraverso una revisione.” Ad esempio, secondo serie ricerche passate dalle revisioni di Lancet, i vaccini provocano l’autismo e le trachee artificiali in plastica irrorate di cellule staminali funzionano perfettamente. E che dire delle decine di migliaia di articoli segnalati su pubpeer da non eccellenti ricercatori, pubblicati su riviste e tutti passati da revisioni editoriali? Basta il buonsenso, signora mia, per capire il mondo (della scienza).
E comunque: quando l’elenco delle riviste di classe A in area 10 è un file di 80 pagine (https://www.anvur.it/wp-content/uploads/2020/04/area10-classea-V_Quadrimestre_ASN2018.pdf), non sarebbe più sensato e, forse, dignitoso lasciar perdere questa distinzione?
Straw men, con un po’ di confusione fra ricerca e studio, da una parte, e professione (medica) dall’altra, e con l’ormai tradizionale falsa alternativa fra valutazione di stato e basata sulle riviste in mano agli oligopolisti dell’editoria commerciale, da una parte, e nessuna valutazione, dall’altra?
Giorgio Pastore, che ha risposto sopra, mi risulta essere un fisico, io insegno filosofia politica. Mi dispiace non aver studiato lettere, perché forse mi avrebbero insegnato che se una si chiama “Maria Chiara” grammatica vuole che si dica “la scrivente” e non “lo scrivente”.
Discussioni simili, su queste pagine, sono già state fatte molte volte: la più recente, per esempio. nei commenti a questo articolo.
Qui mi limito a segnalare solo alcuni contributi fra i moltissimi, rigorosamente composti da non-letterati: questo sulla revisione paritaria formale e informale, di T. Gowers, matematico; questo di R. Horton, editor-in-chief di “The Lancet”, e questo scritto da due filosofi della scienza, S. Funtowicz e J. Ravetz, di spirito ippocratico.
Dietro la satira, in altre parole, c’è un dibattito scientifico vivace. Se risultasse chiaro che la materia del contendere non è l’opposizione fra “buon senso” e scapigliatura letteraria, bensì la questione del rapporto fra la scienza, gli oligopoli editoriali e i poteri statali e dei suoi effetti sulla ricerca e sulla società, potremmo discuterne seriamente.
Confermo la lezione “LO scrivente”, neppure così difficilior: dal contesto si ricava con evidenza che parlavo di me. Vero che litterae non dant panem, ma vero anche che povera et nuda vai, Philosophia (RVF VII 10).
Inoltre, e sempre in soccorso della Professoressa Pievatolo: la frase incriminata legge “è statO educatO LO scrivente”. Ciò dato, che il soggetto della frase possa essere in realtà femminile è congettura talmente onerosa (tre consecutivi errori d’autore nello stesso sintagma) da far impallidire, nonché i revisori degli “Studi di Filologia Italiana”, il consiglio di classe di un liceo psicopedagogico.
Spiacente, avevo frainteso: pensavo che lei avesse una formazione medica e intendesse stigmatizzare genericamente, come nella discussione che avevo richiamato,i “letterati” che non credono nel fattore d’impatto, ma possono farlo senza danno – eccezion fatta per la proliferazione di riviste fungibili che pubblicano articoli altrettanto fungibili. Naturalmente, qui il publish or perish che in Italia si incarna delle soglie numeriche fissate dalla valutazione di stato hanno un nesso solo accidentale con questo bizzarro fenomeno.
Quanto alle riviste predatorie di cui parla Claudio Giunta, immagino si riferisca a questo editore, che vanta anche qualche testata sparsa per le classi A delle varie discipline. E anche in questo caso, naturalmente, l’aumento del prezzo di abbonamento – Giunta paragona correttamente l’editore italiano a Elsevier – è solo accidentalmente connesso ai criteri di valutazione della ricerca che sono stati adottati, o imposti.
Se non è mercato di soldi è mercato di favori…