Non si parla molto di salute mentale nelle facoltà e nei centri di ricerca in cui lavoriamo e studiamo. Eppure, per rompere il ghiaccio e far emergere una vera e propria epidemia di ansia e depressione soprattutto tra i post-doc, basta davvero pochissimo. Sulla carta, il sistema dei post-doc funziona come segue: ogni due o tre anni di attività un post-doc si ritrova “sul mercato”, che in altre parole vuol dire per strada. Trovare un posto significa che fino a quel momento si è stati meritevoli. Il lavoro svolto nel passato contratto è stato apprezzato. Allora si può tirare un sospiro di sollievo perché si è riusciti a superare la valutazione. Ma un sospiro non troppo lungo, perché ogni contratto ha un termine, e con il termine arriverà un altro processo valutativo. Il problema è che non è normale che, dopo anni in cui hai dimostrato di poter contribuire sopravvivendo da un contratto all’altro, non sai se il prossimo anno sarai ancora dentro o sarai fuori. Il problema è dover dimostrare tutti i giorni di essere la persona giusta al posto giusto. Alcuni ritengono che non vi sia alcuna via d’uscita, e che non ci sia altro da fare che curare i sintomi provocati da queste circostanze rivolgendosi al chimico di fiducia. Noi crediamo invece che la risposta data finora a questi problemi sia fondamentalmente sbagliata. Quando un numero così consistente di persone all’interno di un dato ambiente presenta gli stessi sintomi, forse non sono queste persone ad avere un problema. Il problema, forse è l’ambiente.
“[…] I am firmly of the conviction that the psychological brutality of the post-doctoral system played a strong underlying role in Francis’ death. […]”.
Così scriveva Oliver Rostan in un articolo apparso su Europhysical Journal C qualche anno fa, dedicandolo al suo collega ed amico Francis Dolan, morto suicida qualche tempo prima. Per questa annotazione finale, il paper fu rifiutato da due riviste e provocò un certo dibattito all’interno della comunità scientifica.
Non si parla molto di salute mentale nelle facoltà e nei centri di ricerca in cui lavoriamo e studiamo. Eppure, per rompere il ghiaccio e far emergere una vera e propria epidemia di ansia e depressione, basta davvero pochissimo. Sono discorsi che rimangono nel recinto dei dialoghi privati: una parola davanti alla macchinetta automatica del caffè, spesso soffocata dalla paura di mostrarsi deboli. E dopo quelle parole iniziali e uno scambio sommario delle rispettive esperienze, spesso fatte di ipocondria e vertigini, in qualche modo ci si sente meglio. Ci si sente meglio perché si realizza allora che non si è i soli ad affrontare l’ansia e la miriade di somatizzazioni che ne conseguono. E ci si sente peggio, perché quel brivido nella schiena ci segnala che quell’ansia che si pensava di aver finalmente superato è ancora lì. Non si è i soli, ma si è comunque soli.
Una delle più frequenti articolazioni di malessere psicologico è la cosiddetta sindrome dell’impostore. Si chiama così la ricorrente sensazione di non meritare il posto che si occupa, e che molto presto la nostra incapacità verrà scoperta. Nella maggioranza dei casi questo induce chi ne soffre a vere e proprie maratone di studio in cui si cerca di recuperare il presunto ritardo di conoscenze e abilità. È rivelatore il fatto che l’espressione sia stata coniata nell’ambito di una ricerca sulle donne di successo, le quali, avendo introiettato l’enorme quantità di stereotipi di genere troppo presenti ancora oggi, ritenevano di aver ingannato chi collegava il loro successo professionale e accademico alla loro intelligenza e al loro lavoro. In questa ricerca, l’aspettativa sociale era quindi strettamente connessa all’immagine che gli individui, le donne di successo, hanno di se stessi. E allora non è difficile azzardare l’ipotesi che siano proprio queste aspettative sociali a causare il disagio psicologico dilagante che si può rilevare nell’ambito accademico, ma non solo.
Le aspettative sociali, in quanto norme di comportamento introiettate, ci indicano nel nostro quotidiano quell’insieme di comportamenti che vengono ritenuti auspicabili e quelli che invece vanno evitati. E’ facile pensare al Pasolini degli Scritti Corsari e al ruolo dei mezzi di informazione nella promozione di stili, modelli di vita e norme sociali. Nel bombardamento culturale quotidiano a cui siamo sottoposti, si vede questo: persone normali che con la sola forza di volontà e lottando contro tutto e tutti, realizzano le proprie vocazioni, superando difficoltà apparentemente sovrumane. Ed è questo l’archetipo con cui veniamo in contatto quando fruiamo di una consistente fetta della produzione culturale occidentale. Alcuni, come Mark Fisher, parlano di volontarismo magico, ingrediente necessario per ogni incarnazione del sogno americano e altra faccia della medaglia della depressione. Ovviamente il protagonista della storia è sempre il meritevole di gloria e fama, mentre i suoi antagonisti sono potenziali usurpatori. Come nelle favole per bambini, siamo portati a immedesimarci nel personaggio principale, nell’eroe, e a sperare che grazie al nostro duro lavoro alla fine saremo gli eroi delle nostre piccole storie personali. Ma a questa speranza si oppone razionalmente il dubbio: e se a noi andasse male? E se non fossimo noi i meritevoli della storia, ma soltanto uno di quei personaggi di sfondo, privi di vocazione e quindi di spessore ?
Per chi scrive, la principale causa d’ansia è il periodico ritorno alla sensazione di non essere comunque abbastanza, e che nel tritacarne dell’accademia, certamente ci sarà qualcuno che lavorerà quell’ora in più, e che lo farà meglio. E probabilmente sarà così perché al posto di uscire con gli amici o di prendersi una meritata vacanza, quella persona sarà stata a casa a studiare, e avrà letto quella pagina in più. E pagina dopo pagina, alla fine la spunterà, e tu verrai punito per esserti divertito al posto di lavorare. Ogni tua ora non spesa a lavorare tornerà allora a chiederti il conto, salatissimo, e a distruggere almeno in parte l’immagine di te nel futuro che ti eri sognato. Come una lente di ingrandimento che passa in rassegna tutte le tue sbavature, tutte le tue imperfezioni. Ti eri nascosto finora, eri riuscito a ingannare tutti, come in un enorme schema Ponzi. Ma alla fine, proprio come negli schemi Ponzi, verrai scoperto, e diventerà palese che non eri meritevole ed eccellente a sufficienza. Ci dispiace, ma abbiamo scelto un altro candidato.
Interesserà fino ad un certo punto quale tipo di competenza specifica avevi, quali visioni, quali peculiarità. Quello che importerà a lungo termine sarà quale parte della tua vita sarai disposto a sacrificare per partecipare a questa lotta. Il risultato finale di questo stato di cose è che persone molto competenti, alcune geniali, vengono espulse dall’Accademia ogni anno perché non sono disposte a compromettere altre parti della propria esistenza per partecipare a questa esasperante gara di resistenza.
Analizzare il concetto di merito diventa allora cruciale.
Che cosa significa merito? Si tratta in realtà di un contenitore vuoto, perché ciascuno, in funzione delle circostanze e della propria cultura, può mettervi i significati che vuole. Dire che si è a favore del merito è come dire che si è favore del bene. E in questa ambiguità sono di solito coloro che hanno il potere di istruire il dibattito pubblico a scegliere significati e criteri. La vera natura di questa costruzione ideologica viene svelata proprio da questa circostanza. Si tratta di un dispositivo di disciplinamento efficacissimo e adattabile a circostanze e soggetti anche molto diversi fra loro. Accompagnato necessariamente da qualche tipo di processo valutativo, implicito o esplicito, che legittima e da cui viene legittimato, funziona meglio di qualsiasi frusta. Accettando tale paradigma sociale, i disciplinati accettano necessariamente anche lo status quo che esso produce, e allora rinchiudono quietamente il loro orizzonte in questo meccanismo, quasi senza bisogno di costrizione.
Ed è proprio qui, in questa marcia forzata verso orizzonti di eccellenza, che è possibile ravvisare la brutalità psicologica a cui si riferisce Rostan. Sulla carta, il sistema dei post-doc funziona come segue: ogni due o tre anni di attività un post-doc si ritrova “sul mercato”, che in altre parole vuol dire per strada. E deve iniziare a mandare curricula vitae con la lista delle pubblicazioni a tutti quelli che avranno aperto bandi per un posto da ricercatore. Trovare un posto significa che fino a quel momento si è stati meritevoli. Il lavoro svolto nel passato contratto è stato apprezzato. Allora si può tirare un sospiro di sollievo perché si è riusciti a superare la valutazione. Ma un sospiro non troppo lungo, perché ogni contratto ha un termine, e con il termine arriverà un altro processo valutativo. Sgarrare, interessandosi ad un tema di nicchia, oppure rischiando con un’idea che poi potrebbe rivelarsi troppo difficile o lontana dall’interesse dei finanziatori, potrebbe essere fatale. E quando, dopo essere stati osservati e misurati come mucche al mercato, la risposta a un colloquio tarda di qualche giorno, può capitare di dover annegare in fiumi di alcool il tremore alle mani e la tachicardia.
Un’altra delle conseguenze di questa situazione, questa volta non esplicitamente patologica, è l’epidemia di perfezionismo che sembra affliggere un’intera generazione. Questo stesso testo ha avuto una gestazione difficilissima: come fare in modo di non dimenticarsi niente, di avere la pensata originale, di far rimanere a bocca aperta le persone. Ci pensiamo da mesi, ci lavoriamo da giorni. Eppure l’errore, come componente necessaria del processo dialettico, dovrebbe essere alla base del nostro mestiere. Non solo: è forse proprio l’errore e il suo riconoscimento una delle parti più importanti del nostro essere umani. Soffocando la possibilità di sbagliare senza rischiare di dover ricostruire la propria identità, l’unica cosa che si può ottenere sono degli esseri capaci di innovare soltanto cambiando le virgole a un testo già scritto e capaci di competere soltanto giocandosi ulteriori pezzi di vita.
Ma chi soffrirebbe così tanto per un posto di lavoro che implica un investimento pressoché totale senza alcuna certezza del futuro? Nessuno. La soluzione al dilemma è andare oltre la parvenza immediata di questo scambio e analizzare che cosa venga messo veramente in gioco nel processo valutativo. Un altro post-doc, un altro contratto di due o tre anni, significano l’accettazione da parte di una comunità come suo membro degno e meritevole. Dopo qualche anno, quello che all’inizio è una semplice domanda di lavoro diventa l’umiliante richiesta, fatta in punta di piedi e con il cappello in mano, di far parte di una comunità a cui si è già contribuito per anni.
E tuttavia in qualche modo bisogna sopravvivere, e l’amore per la materia è troppo grande per non sopportare qualche boccone indigesto. Questo ci frega sempre: il nostro mestiere, per noi, è il più bello del mondo. Ed è facile dimenticarsi che in fondo è soltanto un lavoro, finendo per passare le notti a studiare, rendendo le giornate lavorative di almeno 10 ore, e assimilandosi completamente al settore in cui facciamo ricerca. A volte incontri chi questo lo capisce, a volte lo racconti e ti prendono per matto. Ma perché succede? Questa domanda ce la facciamo tutti, con diverse sfumature e con diversa continuità. Davvero è così facile arrivare a sacrificare gran parte della propria esistenza, facendosi totalizzare ogni aspetto della vita dai problemi scientifici, saltando vacanze e a volte pasti, all’inseguimento di un’idea? Per chi ha provato l’emozione di vedere un problema risolversi, di vedere come pezzi apparentemente scollegati si combinino a formare la soluzione, a riprodurre magari un’armonia del mondo naturale, oppure a schiudere il mistero contenuto in una frase scritta più di 2000 anni fa, questo è perfettamente comprensibile. In fondo, si tratta di una droga potentissima, il pharmakon dolce e amaro, miele e veleno, l’amore profondo per il nostro mestiere.
Ne incontriamo moltissimi, di colleghi e colleghe, che hanno gli occhi segnati dalle poche ore di sonno, una camicia e una cravatta, o il trucco perfetto, sotto cui nascondono la sbronza della sera precedente. Abbiamo sentito tante storie diverse, ma tutte hanno lo stesso finale. Non sappiamo cosa succederà domani. Eppure bisogna a un certo punto dire le cose come stanno: di bravi, ce ne sono a migliaia, spesso con curricula che farebbero impallidire qualsiasi valutatore. Il problema è che non è normale che, dopo anni in cui hai dimostrato di poter contribuire sopravvivendo da un contratto all’altro, non sai se il prossimo anno sarai ancora dentro o sarai fuori. Il problema è dover dimostrare tutti i giorni di essere la persona giusta al posto giusto.
Alcuni ritengono che non vi sia alcuna via d’uscita, e che non ci sia altro da fare che curare i sintomi provocati da queste circostanze rivolgendosi al chimico di fiducia, medico o meno, oppure cercando di rendersi insensibili a questa situazione. Noi crediamo invece che la risposta data finora a questi problemi sia fondamentalmente sbagliata. Quando un numero così consistente di persone all’interno di un dato ambiente presenta gli stessi sintomi, forse non sono queste persone ad avere un problema. Il problema, forse è l’ambiente. Partire da questa consapevolezza significa iniziare a costruire la cura. Ma allora, in realtà, non siamo soli. L’accademia non potrebbe funzionare se dottorandi, post-doc e assegnisti smettessero di contribuire a ricerca e didattica. E allora, quella che sembra una debolezza sul piano della gerarchia, può essere trasformata in forza. Con quel senso di inadeguatezza e vertigine che prende tutti a fare da collante per percorsi collettivi proiettati verso il cambiamento. E’ arrivato il tempo di rifiutare la dimensione individuale del problema e costruire quella coesione e quella forza con cui aggredire il presente.
Articolo pubblicato originariamente su Il Corsaro.
Uno degli articoli più belli degli ultimi anni apparso su Roars.
E’ necessario riscoprire l’appartenenza ad una comunità, ad un gruppo ad una classe (magari working class:
https://jacobinitalia.it/essere-classe-media-e-unillusione/).
Finché si accetta la dimensione individuale del problema e l’ipercompetitività neoliberista può solo andar peggio.
Bisogna sostituire la competitività sfrenata con la collaborazione costruttiva.
Provate a spiegarlo a metà dell’accademia che ha trovato il modo di continuare a gestire il proprio potere gestendo una massa di precari che neanche sa di avere dei diritti ma solo delle splendide opportunità, ai quali ogni giorno da vent’anni si dice che tutti diventeranno Steve Jobs.
Il discorso in realtà è trasponibile a tutta la società con il precariato diffuso nella logistica o nel food delivery.
Si tratta di aver abbracciato il neoliberismo come orizzonte ideale oltre il quale nulla esiste e nulla è pensabile fuori da tale orizzonte, per dirla come M.Fisher.
Essere consapevoli di ciò è già un primo passo per uccidere il mostro.
“Provate a spiegarlo a metà dell’accademia che ha trovato il modo di continuare a gestire il proprio potere gestendo una massa di precari che neanche sa di avere dei diritti ma solo delle splendide opportunità, ai quali ogni giorno da vent’anni si dice che tutti diventeranno Steve Jobs.” Mi pare una sintesi efficacissima!
Ovviamente noi apparteniamo sempre all’altra metà, quella giusta ;)
Bell’articolo. Purtroppo dalla ‘sindrome’ lamentata si può guarire come dal vizio del fumo: basterebbe smettere. Come ormai so da sempre io non riuscirò probabilmente mai a smettere di fumare, quindi la cosa non è così semplice. D’altra parte un giovane, almeno finchè è giovane, dovrebbe trovare la forza di uscire da una spirale distruttiva come è quella del ‘precario’ universitario. Non smettere in tempo può significare rovinarsi la vita (e la salute) per assecondare un sistema truffaldino che vi sfrutta e basta.
“Dire che si è a favore del merito è come dire che si è favore del bene. E in questa ambiguità sono di solito coloro che hanno il potere di istruire il dibattito pubblico a scegliere significati e criteri. La vera natura di questa costruzione ideologica viene svelata proprio da questa circostanza. Si tratta di un dispositivo di disciplinamento efficacissimo e adattabile a circostanze e soggetti anche molto diversi fra loro.”
Applausi! Non si poteva dire meglio!
“Accettando tale paradigma sociale, i disciplinati accettano necessariamente anche lo status quo che esso produce, e allora rinchiudono quietamente il loro orizzonte in questo meccanismo, quasi senza bisogno di costrizione.”
https://www.youtube.com/watch?v=VEjAiKECnBk
Forse si fa bene nel nostro paese, che invece di chiamarli post-doc li chiamiamo “assegnisti” o addirittura “assegni di ricerca”? E lo fanno tutti, davvero tutti: professori, colleghi, lo fanno gli stessi post-doc. (C’e’ scritto anche nell’articolo, verso la fine) E tutto questo solo perche’ nella legge Gelmini art. 29, norme transitorie, c’e’ scritto una volta (una!!!) “… per la copertura dei posti di professore ordinario e associato, di ricercatore e di assegnista di ricerca…”
Non siamo neppure capaci di usare un linguaggio che dia rispetto a questa gente, che riconosca il fatto che sono qualificati, non siamo in grado di capire che sono dei giovani ricercatori, e ci mettiamo a fare dele battaglie ideologiche, siccome soffrono tanto non li vogliamo piu’?
No: secondo me il vero problema e’ riconoscere (nelle nostre universita’ nei nostri centri di ricerca) che queste persone sono allo stesso livello dell’accademico di chi e’ a fine carriera, regolandosi di conseguenza. Questo ho imparato nella mia esperienza di post-doc all’ICTP di Trieste e al DESY di Amburgo e ringrazio i colleghi piu’ anziani che mi hanno spiegato cosa e’ un post-doc.
Lo spiego come lo disse TD Lee a Ciù En-lai che gli chiedeva “ma a che servono?” la risposta fu “lo studente risolve i problemi che il professore gli da, sapendo la soluzione. Il dottorando fa lo stesso, ma nei casi in cui il professore non sa la soluzione. Il post-doc si pone le domande e risolve i problemi”. Ecco tutto! E’ un ricercatore, punto. E cosi’ anche la Cina inizio’ ad avere dei post-doc.
Ma il problema non e’ solo la terminologia, nel nostro paese. Io vedo quello che fanno, sento quello che dicono. Dagli addosso: escludiamoli dai consigli di facolta’ perche’ non sono “strutturati”, perche’ non sono “incardinati”, perche’ fra due anni chissà dove vanno, perche’ devono fare quello che dice il professore, perche’ li paghiamo per questo, O magari rispettiamoli se portano soldi, se mostrano di essere feroci come noi. Come si azzardano a prendersi delle licenze e lavorare per conto loro? Come si mettono in testa di lavorare con i MIEI studenti senza che gli ho dato il permesso?
Siamo indietro. Siamo una nazione nella quale il dottorato c’e’ da poco tempo, e tanta gente che e’ in cattedra non l’ha fatto e non ne ha rispetto. Siamo in una nazione in cui si fa ma non si dice. Dobbiamo guardare in faccia ai nostri problemi e riconoscere che i post-doc devono essere considerati per quello che sono: sono una enorme speranza di futuro e come tali vanno trattati.
Mi sembra di svuotare il mare con un cucchiaino ma non mi arrendo: post-doc e’ una terminologia rispettosa del livello accademico, assegnista forse andrà bene nelle carte dei burocrati ma non e’ accettabile, e’ un orrore linguistico che grida vendetta al cielo. Ce la facciamo almeno a trovarci d’accordo su questo? Basta usare quel termine, per favore.
[…] che quanto non si riesce a proibire si può però rendere proceduralmente odioso fino al punto di distruggere le persone che lo praticano. La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è […]
[…] che quanto non si riesce a vietare si può però rendere proceduralmente odioso fino al punto di distruggere la salute delle persone che lo praticano. La guerra è pace, la libertà è schiavitù, […]