La “generazione postcomunista” ha mancato l’affermazione politica che poteva avere per l’incapacità di parlare chiaro e diretto contro esclusione, menzogna o privilegio. Insorgere oggi è tardivo e può apparire strumentale. E inoltre: di che parliamo quando parliamo di “cultura”?

Se la Sparta governativa ci fa piangere l’Atene dell’opposizione che fa? O accetta e concretizza in un programma non onirico l’ipotesi di uno spostamento massiccio di risorse verso l’istruzione oppure farà meglio a non ripetere più che scuola, università e ricerca sono una priorità.

Tullio De Mauro, La cultura degli italiani, 2004

Sulle orme del gambero oscilla tra trattato e autoritratto, gioco di posizionamento e dissidenza[1]. Attendevo con impazienza di leggere le pagine dedicate a scuola e università. L’attesa non è andata delusa. Tocci riserva alle istituzioni educative l’apice narrativo: una società democratica ben funzionante presuppone cittadini istruiti.

Non manca la contestazione puntuale di recenti riforme o degli istituti di valutazione come l’ANVUR. Le retoriche dell’autonomia, sostiene Tocci, hanno portato a una centralizzazione senza precedenti. La libertà scientifica e di insegnamento non è mai apparsa tanto vulnerabile come oggi. L’enfasi posta sul “merito” ha prodotto esiti contrari: la discriminazione su base censitaria e la restrizione del diritto allo studio riconosciuto dalla Costituzione.

Ho trovato questi e simili argomenti condivisibili. Come negare che “nella ricerca scientifica si rischi di penalizzare gli studi interdisciplinari, di nicchia o divergenti dal maistream”; o che, ancora, “con i quiz ministeriali la scuola di Mario Lodi e di don Milani non sarebbe mai stata un modello”? Viene tuttavia da chiedersi perché, a fronte di punti di vista penetranti e persuasivi, le politiche educative dei due ultimi governi, di cui il PD è stato componente fondamentale, si siano rivelate tanto diverse e infinitamente deludenti. Giunto alla quarta legislatura come senatore, Tocci ha sempre fatto parte delle Commissioni cultura di Camera o Senato ed è tra le voci più autorevoli del PD in tema di scuola, università, cultura. A quali consiglieri avrà fatto ricorso Pierluigi Bersani al momento di candidare Francesco Profumo alla guida del MIUR? Certo non a lui, che sibila contro i tecnocrati.

Formuliamo la denuncia a cui il libro ruota attorno senza esplicitare. La sinistra istituzionale secondo-repubblicana è incapace o disinteressata, salvo ininfluenti eccezioni, a sostenere politiche educative eque e innovative. Tornano alla mente le parole con cui Tullio De Mauro descrive la sua esperienza al dicastero dell’istruzione negli anni del secondo governo Amato, dal 2000 al 2001: il supporto era stato scarso. “Credo sia ricorrente l’isolamento dei gruppi intellettuali [che si sforzano di contrastare] l’arretratezza culturale… Chi arriva a proposte [progressive] poi sconta una forma di emarginazione. Non si risolvono problemi di tanta dimensione senza reperire e spostare risorse nel bilancio dello Stato”[2].

Lasciamo scuola e università per considerare le politiche culturali. I suggerimenti si fanno fragili e i riferimenti eterogenei. Giunte tardivamente in Italia e a prezzo di penose semplificazioni ideologiche, le retoriche della creatività (o della “classe creativa”) hanno accolto al loro interno il rifiuto neoliberista della politica[3]: non era scritto che questo dovesse accadere. Stupisce che siano rilanciate da Tocci nel contesto di una riflessione programmatica sulla trasformazione delle città. In anni recenti artisti emergenti, designer, programmatori e ingegneri elettronici sono diventati lo smagliante sostegno pubblicitario del capitale finanziario, autoreferenziale e ubiquo. Ciò che si è chiesto loro (e che ci si è affrettati a concedere[4]) era di espungere dalla propria attività ogni riferimento a conflitto, responsabilità e lavoro. Il luogo comune globalista sull’abbattimento della “distanza” topografica ha permesso di ignorare che nuove “distanze” economiche, sociali e cognitive si venivano creando all’interno di contesti in passato poco differenziati o omogenei, metropolitani, regionali o macroregionali. La loquacità di molti in tema di nuove tecnologie ha fatto passare sotto silenzio l’importanza della manutenzione ordinaria delle nostre città materiali (e del nostro patrimonio artistico); e l’innovazione in tema di servizi all’infanzia, alle famiglie, agli anziani. Eppure avrebbe dovuto essere chiaro che una città o un paese sono “smart” se tali in tutti le loro parti, in primo luogo nelle periferie. In alternativa avremo immense highways informative e professionali che attraversano territori desocializzati e disconnessi.

Vorrei adesso formulare una domanda spiacevole ma per me necessaria. Qual è l’effettiva conoscenza dell’autore di Sulle orme del gambero della “cultura” italiana contemporanea? Oppure, con altre parole: quale prontezza storiografica e abilità di “colpo d’occhio” sul tempo presente procura il nostro sistema educativo alla ristretta cerchia dei “decisori”? Trasformiamo Sulle orme del gambero in un case study; e rigettiamo pronunciamenti generici o patriarcali.

Tocci valuta in modo fortemente limitativo la produzione culturale delle più giovani generazioni. E’ suo diritto. Possiamo tuttavia presupporre che le informazioni in suo possesso siano sufficientemente ampie e soprattutto dirette? Personalmente non mi sento confortato dalle poche e casuali citazioni di autori trenta-quarantenni. Nessun circostanziato riferimento alle arti visive o performative contemporanee, alla musica, alla saggistica, alle scienze o alla letteratura. E’ singolare si ritenga di poter dare giudizi così drastici in assenza di un’effettiva familiarità e una dimostrabile attività di ricognizione. Si pone un problema di curiosità prima ancora che di competenza.

“Ci sono tante risorse intellettuali pronte a dare una mano per il rilancio della sinistra italiana”, leggiamo. “Attendono solo di essere chiamate da una nuova classe politica seria, lungimirante e attenta all’ascolto”. Proprio sotto il profilo dell’”ascolto” Tocci non appare convincente. Cade forse vittima della “volontà di potenza” che lui stesso intende contestare[5]? Non mi sento di escluderlo. Il “declino” culturale che l’autore di Sulle orme del gambero lamenta potrebbe in realtà non essere tale. La crescente opacità dell’informazione culturale e l’irragionevole corteggiamento di logori blockbuster da parte di media e case editrici mainstream (questi sì elementi di discontinuità con il passato anche recente) costituiscono invece svantaggi effettivi per generazioni accusate di “debolezza”[6].

La “dissimulazione onesta” cui Tocci ci esorta non sembra proprio l’atteggiamento più adeguato per chi desideri occuparsi di cultura in una moderna democrazia liberale. Chi o che cosa ci impedisce di essere trasparenti? “Il momento storico che noi viviamo”, scriveva Goffredo Parise nel 1974 sul Corriere della sera, “il trapasso cioè da un’Italia sottoposta a un potere oligarchico a un’Italia democratica… non è ancora avvenuto… Ha bisogno non di uomini (e di lettori) ‘politici’, furbi, snob, ma di persone semplici, anche se non sempliciotte; che scrivono semplicemente stabilendo con molta semplicità un piccolo esercizio di democrazia”[7]. Le parole di Parise conservano tutta la loro validità. Non basta scagliarsi contro l’impreparazione dei quadri o indugiare nell’uso di detriti gergali incomprensibili ai più. La “generazione berlingueriana” ha mancato l’affermazione politica che poteva avere per la rinuncia a parlare chiaro e diretto contro esclusione, menzogna o privilegio. “Ricordo bene Massimo D’Alema quando irrompeva nelle assemblee degli industriali dicendo ‘arricchitevi’”. Appunto. Il proposito di “egemonia” è velleitario in partenza se il rapporto tra politica e cultura è interrotto e i soli argomenti (o dizionari) di cui si dispone sono mimetici e subalterni, assimilati dalla destra.

L’autore di Sulle orme del gambero indugia sulla soglia dell’apologia. Troppo spesso la sua percezione del mondo ci sembra indiretta, filtrata da felpati seminari, dotte controversie, incontri di think tank “progressisti”. E’ invece opportuno stabilire cesure inequivocabili con il passato. “Nel mondo antico da cui provengo”, scrive Tocci in chiave mitografica, “la disciplina non era un vincolo regolamentare, ma un atto spirituale: il senso nobile di sacrificare il proprio punto di vista a favore di un pensiero collettivo che si fa azione; una terapia antinarcisistica che regala le forze di trovarsi insieme agli altri e di cambiare il mondo”.

“Il mondo in cui viviamo ci affatica, ci affligge e, quel che è peggio, ci annoia”. La citazione foscoliana scelta da Nicola Gardini per epigrafe del suo I Baroni ci riconduce utilmente alla nostra quotidianità di docenti e ricercatori[8]. La metafora più usata per descrivere l’attuale condizione dell’università italiana è quella della “morte” (ancora la neosenatrice Elena Cattaneo qui). I ricercatori più innovativi e indipendenti sono umiliati o costretti a espatriare. Politiche che sono sembrate punitive o sanzionatorie non sono state contrastate con sufficiente vigore dalla sinistra, che anzi vi ha contribuito con suoi propri ministri. La “piramide” non è stata intaccata, al contrario: i recenti processi di riforma hanno finito per consolidare gerarchie costruite in parte sull’età e non sul “merito” scientifico o didattico. Le immatricolazioni sono in calo vertiginoso malgrado vi sia una drammatica necessità di accrescere la qualificazione culturale di vasti strati della popolazione. I salari early career sono intollerabilmente bassi a fronte di quelli dei loro pari grado occidentali. Tra i provvedimenti adottati da questo o dal precedente governo non vi è traccia di una corroborante politica di incentivi individuali. Si poteva sforzarsi di accompagnare le politiche di austerity con misure perequative a livello intergenerazionale, ma non lo si è fatto. Cresce (ed è indecente) il ricorso a precari retribuiti malamente o non retribuiti, e per alcune discipline, ad esempio le scienze sociali e umanistiche, è a rischio il processo di trasmissione di saperi in molti settori di studio. La questione universitaria è politica e sociale: investe la sfera dei diritti di cittadinanza. Ma è anche geopolitica e economica: la crisi della ricerca nazionale non potrà che avere gravi rispercussioni sull’immagine internazionale del paese. Chi ne aveva facoltà poteva risolversi più tempestivamente a infrangere l’inerte disciplina di partito per scongiurare o contenere il “fallimento”[9]? Tendiamo a crederlo. Insorgere oggi è tardivo e può apparire strumentale.

Tocci accenna più volte all’esperienza politica del femminismo storico. Siamo certi che l’omaggio non sia di circostanza, anche se citazioni di teoriche, ideologhe o scrittrici di riferimento non avrebbero guastato; e si accompagni alla piena conoscenza dell’asprezza con cui il femminismo italiano degli anni Settanta si oppose alla tradizione hegelo-marxista rivendicando rilievo politico alla dimensione della “testimonianza”[10]. Non sappiamo se tutti, nel PCI del tempo, coltivassero la disciplina dell’unanimità per “senso nobile” e virile. Magari taluni avranno avuto motivazioni più scaltre. Non importa. Importa invece riconoscere che Sulle orme del gambero nasce dalla necessità di elaborare il lutto per un mondo che non è affatto cambiato, o se è cambiato lo ha fatto in modo beffardo e imprevedibile per il giovane berlingueriano delle origini. Smettiamo dunque di sopravvalutare la lungimiranza dei padri. Tortuose “terapie antinarcisistiche” non hanno evitato languide irresolutezze né illusioni pervicaci.

@MicheleDantini


Note

  1. Walter Tocci, Sulle orme del gambero. Ragioni e passioni della sinistra, Donzelli, Roma 2013.
  2. Tullio De Mauro, La cultura degli italiani, a cura di Francesco Erbani, Laterza, Roma|Bari 2004 (2010), p. 38.
  3. Michele Dantini, Innovazione nelle scienze storiche e sociali: come, quando, a quali condizioni, in: il manifesto, 14.1.2012, pp. 10-11; oggi in Humanities e innovazione sociale, Doppiozero, Milano 2012, pp. 58-63; più recentemente qui.
  4. ibid., pp. 64-70.
  5. Walter Tocci, Sulle orme del gambero, cit., p. 3.
  6. ibid., p. 5.
  7. Goffredo Parise, Vivere la vita dell’Italia dei più, in: Corriere della sera, 6.10.1974; oggi in Dobbiamo disobbedire, Adelphi, Milano 2013, p. 52.
  8. Nicola Gardini, I Baroni, Feltrinelli, Milano 2009 (2013), p. 61.
  9. Walter Tocci, Sulle orme del gambero, cit., p. 4.
  10. Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel, Scritti di Rivolta femminile, Milano 1974. Sul tema cfr. più recentemente Anna Bravo, A colpi di cuore, Laterza, Roma|Bari 2008, in part. pp. 111-158.
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7 Commenti

  1. La recensione di Michele Dantini al libro di Tocci solleva problemi interessanti e importanti, primo quello della democratizzazione della cultura e dell’università. Dantini si chiede perché i post-comunisti non abbiano raggiunto l’obiettivo, però mi pare che lo stesso concetto di egemonia culturale e politica mini di fatto qualsiasi democratizzazione, sviluppo della libertà creativa e superamento della piramide. L’Italia è passata dall’egemonia culturale gentiliana-bottaiana, per fortuna durata solo un ventennio, a quella cosiddetta “gramsciana”, per cui occorre conquistare tutte le casamatte. Forse non ho capito ( e Dantini può spiegarmelo), ma non capisco perché i post-comunisti avrebbero dovuto demolire la loro egemonia su cultura e università. In altri termini, mi pare idealista pretendere che i post-comunisti rinunciassero a tale egemonia, da cui proviene gran parte del loro potere politico. Nessuno rinuncia al potere se non costretto. Che poi tale egemonia abbia ripreso tematiche e autori di destra, fa parte del gioco di trasfiguramento dell’egemonia. Tutto l’apparato culturale cosiddetto egemone del Pci per sopravvivere ha dovuto per forza in qualche modo trasfigurarsi dopo il 1990 ( vedi il recente liberismo di sinistra) per mantenere il potere politico e accreditarsi presso imprenditoria e finanza. Il capitalismo italiano è tra l’altro, a mio parere, modesto e sempre legato ai finanziamenti pubblici. La maledizione dell’Italia è l’ossessione per l’egemonia culturale e politica, qui Hegel ha trovato terreno fertile. Quale cultura e politica seria può credere che un filosofo sia in grado di prevedere – addirittura scientificamente per i marxisti- la storia ovvero il futuro? Smantellare questa mentalità e introdurre nuove teorie della razionalità è molto difficile, direi quasi impossibile in Italia. A questo è connesso anche il declino dell’Italia e la fuga dei ricercatori più vivaci e creativi, ma si può fare poco. L’Italia non innova mai: al massimo, innesta, quando proprio non può fare a meno. Prima di leggere l’articolo di Dantini, avevo letto un articolo dell’Economist: ci aspettano novità piuttosto forti: nelle due prossime decadi il 47% del lavoro attuale sarà automatizzato.
    vedi:http://www.economist.com/news/leaders/21594298-effect-todays-technology-tomorrows-jobs-will-be-immenseand-no-country-ready

  2. cara Kery,

    l’articolo discute criticamente 1_una determinata retorica generazionale adottata (e persino rivendicata) dall’autore, 2_le istanze della “disciplina di partito” e della “dissimulazione onesta”, che sembrano del tutto inadeguate a cogliere disfunzioni istituzionali e a suggerire riforme, oggi come ieri. Non tratta invece di “egemonia culturale” et similia. Questo mi pare di poterti rispondere. Grazie del tuo commento e un caro saluto MD

  3. Ringrazio Michele Dantini per la recensione “non cerimoniale”. La sua analisi critica mi sollecita sia ripensamenti di quello che so, sia riflessioni su ciò che non so. Sono andato a leggere i suoi contributi linkati nel testo, traendone utili spunti e nuove piste di approfondimento. Sulla debolezza dei quarantenni devo riconoscere che la mia era una provocazione e sono ben contento di essere smentito, da Dantini sul mio libro e da Renzi nel mio partito. Non ho affatto la pretesa di conoscere approfonditamente la cultura italiana contemporanea, ma ho la curiosità di saperne di più. Anche perché credo che il discorso pubblico italiano, soprattutto quello politico-mediatico, non sia in grado di vedere le forze più vive della società e che il declino sia soprattutto nella testa dell’establishment.
    Trovo utile ricevere una severa critica come questa, perché aiuta ad approfondire la discussione. A tal fine, però, è bene distinguere tra noi le differenze di opinione dai fraintendimenti, che possono dipendere anche dalla mia scrittura talvolta priva del distacco analitico e troppo coinvolta nella vicenda esistenziale.
    La “volontà di potenza”, la “disciplina di partito” e la “dissimulazione onesta” (che non era il contrario di trasparenza, ma il colpo d’occhio critico verso lo statu quo) non sono affatto esortazioni per il mondo presente ma testimonianze del mio vecchio mondo che sottopongo ad un’analisi critica, in parte anche autoironica, proprio per aiutare me stesso e soprattutto i coetanei ad andare oltre. Non è l’apologia di quell’epoca, ma è come un percorso psicoanalitico per uscirne, proprio perché ne vedo bene la permanenza nonostante le sconfitte. Infatti, l’autocritica è stata presa molto male da gran parte della mia generazione e lo considero il vero merito del libro.
    Sulla città non adotto affatto la retorica della classe creativa. Confesso di aver avuto una breve infatuazione per Richard Florida dieci anni fa, ma qui ne prendo le distanze estraendo l’innovazione dal paradigma economico-tecnologico per assumerla come la combinazione di salto cognitivo e qualità della cittadinanza (p. 179), secondo un approccio più vicino, mi pare, a quello che il mio critico propone in Humanities e innovazione sociale. Non sono per niente attratto dalle ireniche narrazioni sulle smart-cities, anzi cerco nuovi strumenti analitici, come la rendita immobiliare e l’eterotopia foucaultiana, per svelare le distanze economiche, fisiche e cognitive in una critica radicale della città liberista.
    Sull’università, infine, molti lettori di Roars sanno che non da oggi insorgo, ma mi sono sempre opposto alle politiche governative della Moratti e della Gelmini e spesso ho criticato anche quelle del mio partito. Dal lontano 2007, quando contestai pubblicamente alcune scelte del governo Prodi, cerco di correggere le tendenze dominanti nella classe politica di sinistra. Certo si può dire che non sono riuscito a modificarle e questo bilancio negativo mi pesa molto. Però, Dantini condividerà che le battaglie di minoranza si fanno anche quando non si è sicuri di vincere, altrimenti davvero la dissimulazione non sarebbe onesta.

  4. Ringrazio Walter Tocci dell’ampio commento, che contribuisce a specificare tesi e argomenti discussi. Concordo senz’altro con lui che “il declino sia soprattutto nella testa dell’establishment”: insisto dunque sulla necessità di riconoscere inadeguatezze e congedare nostalgie.

    Come tornare a avvicinare cultura e politica, ricerca e processi decisionali? Temo non sia facile: possiamo però imporci di contrastare insipienza, autoreferenzialità e approssimazione soprattutto nei contesti (sociali e discorsivi) a noi prossimi.

    Comprendo l’intenzione dialettica (e perfino autoironica) che può stare dietro a espressioni come “disciplina di partito” o “dissimulazione onesta”. A mio parere è tuttavia oggi di grande utilità usare poche, dirette, pertinenti parole che pongano le persone (tutte le persone!) in grado di comprendere (e gli elettori di sanzionare). Il solo “colpo d’occhio” non basta: è solitario.

    Infine. Certo, le “smart cities” nell’accezione più lungimirante e qualificata: ma prima per favore battiamoci per una buona scuola pubblica e risorse, molte più risorse a disposizione di chi fa (bene) insegnamento e ricerca. Un compito impellente e a dir poco rivoluzionario.

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