A quali condizioni possiamo parlare di “innovazione” per le Humanities? E qual è il rapporto tra agenda di ricerca e contesti? Il discorso umanistico ha il vantaggio di un’estrema mobilità: può reinventare di volta in volta il proprio “oggetto” e non appare rigidamente vincolato a repertori immutabili o prefissati. Il dibattito sul futuro delle discipline storiche e sociali prefigura trasformazioni di rilievo mentre nuovi ambiti di ricerca dissolvono esauste barriere disciplinari.

“Innovazione sociale” in che senso? Possiamo parlare di “innovazione sociale” con riferimento all’attività delle imprese: l’”innovazione” è in tale senso un “prodotto” o meglio un “servizio” che aiuta a costruire comunità e assicura una migliore organizzazione infrastrutturale al territorio. Possiamo parlare di “innovazione sociale” in rapporto a processi o tecnologie open source o ancora a piattaforme socializzanti[1]. Non è questo il mio punto di vista. Personalmente cercherò di muovermi sul piano degli studi sulla “creatività” e di indagare la connessione tra innovazione culturale e agency; interrogando il modo in cui nuove istanze individuali o collettive possono interagire con la ricerca accademica e spingere a significative mutazioni nelle prospettive di ricerca o nella gerarchia dei saperi, oltreché a una più avveduta (e ricettiva) configurazione delle istituzioni educative, università, scuole, biblioteche, musei[2].

Edward Said, saggista e scrittore palestinese naturalizzato americano, sostiene che esiste una stretta connessione tra l’abitudine all’interrogazione del testo e l’esercizio attivo della cittadinanza; tra filologia e democrazia[3]. Per Martha Nussbaum, autrice del fortunato Non per profitto (2011) e autorevole interprete del punto di vista pedagogico-umanitario, il “pensiero socratico” ci tutela dalla mancanza di empatia o dalla deriva autoritaria di società tecnocratiche[4].

Nussbaum riprende l’argomentazione di Allan Bloom in difesa dell’educazione liberale e del ruolo civile dell’insegnamento umanistico nelle università americane (il “progetto illuminista”). Si distacca tuttavia dall’impostazione apologetica e dalle retoriche in larga parte inattualistiche che caratterizzano La chiusura della mente americana (1987), cui riserva severe critiche. Per Nussbaum l’educazione umanistica non è applicativa, ma “capacitante”: procura alle persone migliori opportunità di sviluppare le proprie potenzialità[5]. Il punto di vista “capacitante” che Nussbaum ha sviluppato con Amartya Sen sollecita le istituzioni economiche ad adottare una diverso indice di misurazione della prosperità delle nazioni, diverso dal PIL e meno legato agli aspetti immediatamente produttivi; e inizia a essere largamente recepito in ambito internazionale. Gli argomenti di Non per profitto sono in buona parte condivisibili anche se l’appassionata difesa delle Humanities, brillantemente radicata nella tradizione pedagogica del pragmatismo americano, appare inserirsi nel dibattito politico-giuridico sull'”idea di giustizia” o lo stato di diritto per restituirne una versione semplificata e a tratti edificante.

Malgrado recenti studi di storia industriale si propongano di dimostrare quanto possano essere feconde le collaborazioni istituzionali tra ingegni diversi (e di diversa competenza), il rapporto tra cultura umanistica e crescita economica non è accertato[6]. Un economista e premio Nobel come Edmund Phelps si è molto speso recentemente per dimostrare che l’umanesimo quattrocentesco è alle origini del “vitalismo” paleocapitalistico o del “dinamismo” Whig[7]. Ma non è chiaro il modo in cui il “capitale umano” (anziché una severa organizzazione aziendale, poniamo) possa contribuire allo “sviluppo” economico di un paese[8]. Meglio dunque sgombrare il campo da mere congetture o argomenti tortuosamente apologetici. Stabiliamo pure che non esiste connessione indiscutibile tra cultura umanistica e PIL[9]. L’importanza della cultura umanistica dev’essere cercata su piani civili, politici e epistemologici autonomi. Questa stessa cultura sospinge alla partecipazione sul presupposto di un’inquieta interrogazione attorno a ciò che può essere considerato compiutamente umano. Sprona (sul modello della prima e più illustre Encyclopédie) alla messa a punto di strumenti di volta in volta contestuali e specifici[10]. Dispensa infine una competenza di tipo particolare, negativa o meglio differenziale. A differenza dei politici che lo condannano, protesi all’autoriproduzione, nessuno meglio di Socrate conosce la manchevolezza di ogni progetto ideologico o punto di vista rigidamente monodisciplinare.

Nell’avviare un nuovo progetto di studi dovremmo interrogarci sul perché della scelta. L’esistenza o meno di una necessità autobiografica appare un buon criterio di valutazione, anche se non risolutivo. Il coinvolgimento pressoché ossessivo con l’”oggetto” potrà esserci di sprone: di più, una sorta di garanzia epistemica in assenza di protocolli “oggettivi”. Ciò che ci appare importante conoscere per la nostra stessa esistenza potrà avere senso e rilievo anche per i nostri contemporanei. Per Stefan Collini è appunto il radicamento della ricerca nell’individualità del ricercatore a distinguere la specificità delle Humanities nel contesto delle discipline accademiche[11]. L’individualità dell’approccio avviene almeno a tre livelli, e cospira in misura decisiva all’affermazione della “tesi”: scelta delle premesse, stili di scrittura (saggistica), procedimenti argomentativi. E’ evidente che la misura dell’”oggettività” stabilita dalle scienze dure non può essere applicata all’ambito umanistico: la “soggettività” delle posizioni è connaturata ad esso e ineliminabile, è anzi del tutto fuorviante, per Collini, supporre che debba essere eliminata. Si tratta tuttavia di una “soggettività” negoziata con i protocolli della ricerca, che partecipa a comunità di dialogo ed è intimamente modellata da istanze pubbliche di argomentazione. Al suo apice potenziale il discorso umanistico sembra collocarsi, in ultima istanza e nel suo presupposto, non troppo distante dalla testimonianza o dalla profezia[12]. La ricerca si congiunge all’esercizio autoriflessivo[13]. Rifugge metodi “esatti”, “sistemi” e “fondamenti” ultimi.

In ambito umanistico, questa la mia tesi, l’innovazione rimanda a trasformazioni preculturali in atto e si incarica di “tradurre” sul piano scientifico un intero repertorio di infrazioni sociali e culturali[14]. Non è universale, anche se può essere agevolmente assimilata e modificata. Prospera in piccole comunità di ricerca determinate a ottenere maggiore riconoscimento politico e istituzionale; e in luoghi di volta in volta specifici. E’ inestricabilmente connessa al piano individuale dell’esistenza e può non rendere conto a (o trarre ingenti finanziamenti da) estese burocrazie[15]. Attitudini e punti di vista protestatari si spostano immaginativamente su piani teorici, filologici e storiografici e si associano a un’illuminante cascata di nuove metafore. Perché ciò sia possibile occorre tuttavia che il mercato dei media, dell’editoria e delle cattedre universitarie sia aperto e adeguatamente concorrenziale[16].

Non è prevedibile che l’interesse sociale o il consenso istituzionale per le Humanities cresca nell’immediato futuro, al contrario: il settore tecnologico continuerà a offrire allettanti e indiscutibili opportunità professionali alle giovani generazioni. Queste sembrano dibattersi tra istituzioni educative “vecchie” e “nuove” e tra modelli educativi non di rado conflittuali. Le istituzioni dedicate allo studio dei “classici” o al potenziamento della memoria si sforzano di ingaggiare i più giovani nell’apprendimento di lingue, tradizioni e vicende avvertite come remote, fatalmente disallineate dal corso della storia. Le “nuove” agenzie formative, riconducibili al mondo dell’intrattenimento di massa e dell’innovazione digitale, li persuadono ogni giorno di più che l’eccesso di conoscenza storica è un fardello inutile e retrivo nel contesto di un mondo in vertiginosa trasformazione. Le retoriche identitarie non funzionano (oltre a essere storicamente e demograficamente inattendibili): hanno contro l’annientamento delle tradizionali gerarchie culturali nel flusso indifferenziato dei consumi e l’enorme domanda di competenze tecnologiche, post- o antistoriche[17]. Con tutto ciò non ritengo affatto che le culture storico-critiche debbano essere considerate fuori tempo, debellate o morte. Al contrario, a patto però di avviare una loro profonda trasformazione.

Tutte le culture nazionali sono oggi diasporiche, non importa se apparteniamo a comunità migranti o comunità stanziali. Lo sono per effetto di impressionanti trasformazioni demografiche, economiche, sociali e per il mutamento delle condizioni di apprendimento promosse dalla cultura digitale. Abbiamo necessità di riflettere sui modi in cui eredità culturali e abilità critiche possono meglio trasmettersi alle future generazioni[18].

“Il momento storico che noi viviamo”, scriveva Goffredo Parise nel 1974 sul Corriere della Sera, “il trapasso cioè da un’Italia sottoposta a un potere oligarchico a un’Italia democratica ha bisogno non di uomini (e di lettori) ‘politici’, furbi, snob, ma di persone semplici che scrivono semplicemente stabilendo così con molta semplicità un piccolo esercizio di democrazia”[19].

Nel considerare con qualche scetticismo l’enfasi civilistica di Nussbaum, John Armstrong, filosofo inglese oggi in carica all’università di Melbourne, invita a “individuare e salvaguardare tutto ciò che possiede un alto valore intrinseco e [a] promuovere nel pubblico la massima adesione a quel valore”. Al pari di Parise, Armstrong insiste sulle politiche di scrittura. Chiarezza, linearità, concretezza giovano alla comunicazione con il più largo pubblico e obbligano gli specialisti a interrogarsi con maggiore severità sui presupposti non meramente tecnici della propria ricerca, su istanze di interesse generale.

C’è un modo per chiarire meglio la proposta di Armstrong: possiamo forse illustrarlo cercando aiuto nelle argomentazioni di due illustri critici letterari. “L’atto classico della lettura”, scrive George Steiner in I libri hanno bisogno di noi, “richiede silenzio, intimità, cultura letteraria (literacy) e concentrazione. In mancanza di tali elementi una lettura seria, una rispostra ai libri che sia anche responsabilità non è concepibile”[20]. E’ soprattutto la nozione di “literacy” a interessarci adesso: in essa si addensa la sacralità del colloquio dell’umanista con i “classici”. L’intera cultura universale partecipa all’atto di lettura evocato da Steiner: ne costituisce premessa e alimento. I tragici e i comici, gli scettici ironici o pensosi, i mistici e i romantici, gli scoliasti, gli aedi, i profeti: tutti presenziano come interlocutori elettivi al rito. La lettura è una conversazione a più voci ricca di eco provenienti dagli angoli più disparati della vasta biblioteca. Una fantastica mise en scène delle autorità culturali si dispiega nella mente panstorica del lettore di professione, dotto e bibliofilo – a suo modo un sacerdote.

Un’analoga mise en scène presiede non di rado alla scrittura. Nella tradizione umanistica occidentale chi scrive lo fa spesso per destinatari elettivi, destinatari che possono non esistere qui e ora, in carne e ossa. Intrattiene una corrispondenza il cui senso, che rimarrà per lo più nascosto al lettore comune, è affidato alle pieghe del testo. Alfonso Belardinelli ricostruisce in modo efficace, in un memorabile ritratto di Franco Fortini, il complesso gioco di autoinibizione e disvelamento che lo scrittore e critico mette in atto a partire da un suo costante dialogo con formidabili alter- o super ego culturali[21]. Non esiste un semplice merito della cosa, un ordine di concatenazione e esplicitezza imposto dal ragionamento. Tutto si tiene invece sul piano dell’allusione, dell’allegoria o della trascendenza. “Proprio Fortini, che è uno degli scrittori più ansiosi circa l’orizzonte dei propri destinatari, ha lavorato a rendere più ipotetici che reali i suoi lettori”. L’argomentazione, osserva Belardinelli, appare irretita da “lividi fantasmi che incorniciano come sentinelle storiche tutto ciò che uno scrittore conspevole può scrivere [o meno] in un’epoca di rivoluzioni”[22]. Accade come se  Hegel e Marx, Lenin e Trockij, Gramsci e Mao, Lukacs e Sartre o Adorno convenissero quotidianamente attorno alla scrivania dello scrittore per concertare con lui se, cosa e come scrivere. Il destinatario effettivo o la collettività concretamente esistente al di fuori dello studio hanno importanza secondaria. La scrittura ha senso tattico: risponde a esigenze di autoposizionamento ontologico. Nominare le cose o renderle meglio comprensibili al lettore non è una priorità.

L’ermetismo di Fortini o la tenebrosa istanza di santità ad esso sottesa sono distanti dalla trasparenza comunicativa che mi sembra oggi importante coltivare. Forse, al momento di scrivere, dobbiamo imparare a rivolgerci al destinatario effettivamente disponibile e ridurre – se non la complessità, che occorre preservare – lo stordente frastuono di echi, risonanze e “presupposti” regressivi.

Le parole di Parise conservano grande attualità. Viviamo, certo non solo in Italia, un momento di crescente inquietudine. Un’epoca sembra essersi conclusa e le sue dogmatiche parole d’ordine hanno perduto di autorità. Tuttavia non discerniamo ancora chiaramente quale potranno essere gli assetti sociali e istituzionali futuri. Le classi medie sono ovunque in difficoltà in Occidente, e la sfera dei diritti si va erodendo sotto la pressione di formidabili disparità economiche, sociali e cognitive[23]. Questa transizione si concluderà con il rafforzamento della democrazia? Oppure con il dominio di isolate oligarchie politico-economico-finanziarie? Non ne ho la minima idea.

So però bene a cosa un’istruzione prevalentemente (o esclusivamente) tecnica non predispone. Qual è il rapporto tra conoscenza e diritto? Tra competenze disciplinari e giustizia sociale?Queste sono le prime domande cui chi fa ricerca è pur sempre chiamato a rispondere.

@MicheleDantini

Una versione ridotta del testo è precedentemente apparsa sul sito della rivista il Mulino, qui


[1] Jürgen Howaldt|Michael Schwarz, Social Innovation: Concepts, Research Fields and International Trends, IMO 2010, online @ http://www.internationalmonitoring.com/fileadmin/Downloads/Trendstudien/IMO%20Trendstudie_Howaldt_englisch_Final%20ds.pdf

[2] Modelli di evoluzione istituzionale in contesti di crisi in Giovanni Capoccia e R. Daniel Kelemen, The Study of Critical Junctures: Theory, Narrative and Counterfactuals in Historical Institutionalism, in: Worlds Politics, 59, aprile 2007, p. 368 e ss.; Daron Acemoglu, James A. Robinson, Perché le nazioni falliscono, Il Saggiatore, milano 2013 (2012), pp. 123 e ss., 437 e ss. Sul tema dell’”innovazione sociale”  cfr. anche Maurizio Busacca, Oltre la retorica della Social Innovation, in: Impresa sociale,  2, 2013, online @ http://www.rivistaimpresasociale.it/rivista/item/56-oltre-la-retorica-della-social-innovation/56-oltre-la-retorica-della-social-innovation.html?limitstart=0 (in versione ridotta in: Doppiozero, 6.12.2013, online @ http://doppiozero.com/materiali/chefare/oltre-la-retorica-della-social-innovation.

[3] Edward W. Said, Umanesimo e critica democratica, Il Saggiatore, Milano 2007 (2004).

[4] Martha Nussbaum, Non per profitto, Il Mulino, Bologna 2011 (2011). Vd. anche qui.

[5] Martha Nussbaum, Creare capacità, Il Mulino, Bologna 2012 (2011). Per un elenco delle “capacità” cfr. pp. 38-39. Per un’estesa trattazione del “metodo” socratico cfr. id., Coltivare l’umanità. I classici, il multiculturalismo, l’educazione contemporanea, Carocci, Roma 1999 (1997, in particolare pp. 31-64). Sul rapporto tra Nussbaum e Bloom cfr. ibid., pp. 11-12; e soprattutto la recensione di Nussbaum a The Closing of the American Mind (La chiusura della mente americana, Lindau, Torino 2009, 1987. L’uso del testo italiano deve essere accompagnato dalle cautele imposte da una cattiva traduzione), Undemocratic Vistas, in: The New York Review of Books, 5.11.1987, online qui. Tre grandi temi sorreggono l’esposizione di Bloom prefigurando la cornice teorica di successive riflessioni sul ruolo delle Humanities. Il decadimento dell’argomentazione razionale è il primo. La distruttività del radicalismo politico-ideologico degli anni Sessanta e Settanta è il secondo. La missione nazionale il terzo. E’ nelle università americane, questa la tesi di Bloom, che tale destino può compiersi oppure fallire. Le sorti globali della democrazia e del progetto illuministico dello stato di diritto sono intimamente legate alla restaurazione dei principi dell’educazione liberale.

[6] Cfr. ad esempio Jon Gertner, The Idea Factory. Bell Labs and the Great Age of American Innovation,The Penguin Press, New York 2012. Sulle controculture tecnolibertarie degli anni Sessanta e Settanta cfr. John Markoff, What The Dormeuse Said, Penguin, London 2005; Fred Turner, From Counterculture to Cyberculture, University of Chicago Press, Chicago 2006.

[7] Edmund Phelps, Mass Flourishing. How Grassroots Innovation Created Jobs, Challenge, and Change, Princeton University Press, Princeton|Oxford 2013, p. 98 e ss.

[8] Ha-Joon Chang, 23 cose che non ti hanno mai detto sul capitalismo, Il Saggiatore, Milano 2012 (2012), p. 173 e ss. Sul tema cfr. Douglass C. North, Istituzioni, cambiamento istituzionale, evoluzione dell’economia, Il Mulino, Bologna 1994 (1990), p. 46: “l’efficienza non ha necessariamente le piacevoli proprietà che gli economisti le attribuiscono: spesso è associata al dominio di un gruppo su un altro”.

[9] ibid., p. 117: “gli investimenti in capitale umano e capitale fisico tendono a essere complementari. Date le imperfezioni sul mercato del capitale umano, non esistono garanzie che i due tassi di crescita procedano di pari passo”.

[10] Sul carattere critico-saggistico (e non neutro-compendiario) dell’”enciclopedismo” di Diderot e D’Alembert cfr. Robert Darnton, Il grande affare dei Lumi, Adelphi, Milano 2012 (1979), pp. 471-2, 543; ma già Jürgen Habermas si sofferma sulla “grande impresa pubblicistica [dell’Encyclopédie]” in Storia e critica dell’opinione pubblica, Laterza, Roma|Bari 2011 (1962), pp. 79-80. Sul tema diderotiano della “doppia dottrina” cfr. Tzvetan Todorov, Lo spirito dell’illuminismo, Garzanti, Milano 2007 (2006), p. 70 e ss.

[11] Stefan Collini, What are Universities for? Penguin, London 2012.

[12] Cfr. Hanna Arendt, Vita activa, op. cit., p. 130 e ss.; Tzvetan Todorov, Les abus de la mémoire, Arléa, Parigi 1998, in part. alle pp. 60-61. Se condotta in modo ristretto e unilaterale, la polemica contro il narcisismo della testimonianza rischia di far dimenticare il punto cruciale dell’argomentazione di Arendt: la sfera pubblica non è l’opinione della maggioranza. Resta dunque la necessità di punti di vista persuasivamente sostenuti da voci individuali e di posizioni in partenza minoritarie, purché ragionevoli. Quel che mi sembra più rilevante, nel testo di Todorov, è l’interpretazione in chiave politica della nozione di “reminiscenza”. In Dimenticare Pasolini (Mimesis, Milano|Udine 2012) Pierpaolo Antonello discute una determinata tradizione intellettuale italiana che ha in Pasolini il suo esponente apicale. E’ possibile concordare con le tesi espresse nel libro, in particolare con il rifiuto dell’”indignazione puramente performativa”. Occorre tuttavia scongiurare la riduzione a dimensioni burocratiche e tecnico-amministrative della ricerca umanistica. Il riferimento conclusivo a Primo Levi giova, in Dimenticare Pasolini, a equilibrare l’argomentazione.

[13] In ambito storico-artistico vale ancora, dal punto di vista della produzione di “equivalenze”, quanto affermato da Roberto Longhi in Proposte per una critica d’arte, in: Paragone, I, i, 1950, pp. 5-7, 15-18, oggi in: Paola Barocchi (a cura di), Storia moderna dell’arte in Italia, Einaudi, Torino1992, pp. 93-99. Sul punto cfr. anche Cesare Garboli, Scritti servili, Einaudi, Torino 1989, pp. vii-x.

[14] Cfr. Colin Martindale, Innovation, illegitimacy, and individualism, in: Creativity Research Journal, in: 3, 2, 1990, pp. 118-124. Nell’usare il termine “traduzione” non intendo stabilire alcuna connessione di tipo causale ma semplicemente rinviare a una correlazione. Sul punto della “circolarità” nel contesto della teoria discorsiva cfr. anche Jürgen Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, Il Mulino, Bologna 1997 (1981), 2 voll. i, p. 385 e ss.; id., Etica del discorso, Laterza, Bari|Roma 1983 (2009), p. 144: “si può intendere l’agire comunicativo come un processo circolare nel quale l’attore è al contempo due cose: è l’iniziatore che padroneggia situazioni attraverso azioni responsabili; ma al tempo stesso è anche il prodotto di tradizioni in cui si trova, di gruppi solidaristici ai quali appartiene e di processi di socializzazione nei quali cresce”.

[15] La retorica dell'”internazionalità” oggi in auge nel contesto delle politiche accademiche di valutazione può risultare fuorviante se accolta genericamente; e consolidare i processi di subalternità culturale che si intende scongiurare. Sull’opposizione tra “argomentazione razionale pubblica” (o “potere discorsivo”) e “potere amministrativo” cfr. Jürgen Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, Laterza, Roma|Bari 2011 (1962), p. 271; id., L’inclusione dell’altro, Feltrinelli, Milano 1998 (1996), p. 240 e ss.

[16] O per meglio dire predisponga a una “situazione comunicativa ideale” entro cui i partecipanti possano avere accesso al dialogo tra pari. Sul punto cfr. Axel Honneth, Etica del discorso e concetto implicito di giustizia (1986), in Riconoscimento e conflitto di classe, Mimesis, Milano|Udine 2011, pp. 129-138. Per un’”archeologia” del recente processo di riforma universitaria in Italia cfr. Michele Dantini, Humanities e innovazione sociale, Doppiozero, Milano 2012, qui. Cfr. Robert Eisenberger|Linda Shanock, Rewards, Intrinsic Motivation, and Creativity: A Case Study of Conceptual and Methodological Isolation, in: Creativity Research Journal, 15, 2|3, pp. 121–130: introdotta di recente nella ricerca motivazionale, la distinzione tra “performance innovativa” e “performance convenzionale” si rivela utile anche dal nostro punto di vista. Se la prima trae stimolo e vantaggio dall’attesa di remunerazione materiale o immateriale, le motivazioni della seconda si affievoliscono se remunerate regolarmente. Ne consegue che politiche della ricerca unilateralmente orientate a tagli e restrizioni non sono affatto neutre o impersonali. Colpiscono i ricercatori più innovativi (nel senso che ne disperdono le motivazioni) mentre risultano stabilmente modellate sul ricercatore poco produttivo o improduttivo (che si propongono di sanzionare).

[17] Salvatore Settis avvia una riflessione postcoloniale (e postidentitaria) sull’eredità culturale “classica” in Futuro del “classico”, Einaudi, Torino 2005, p. 16 e ss. (considerando anche l’avvento di una società tecnologica, p. 7). “La vecchia società borghese”, osserva inoltre Eric Hobsbawn, “ha rappresentato l’epoca della separazione nelle arti e nella cultura…. L’esperienza artistica sublimata… non è culturalmente accessibile a tutti e inoltre, quantomeno per la generazione più giovane, non rappresenta neppure più l’esperienza tipica”. E ancora: “alla fine del xx secolo l’opera d’arte non solo si è persa nell’ondata di parole, suoni e immagini dell’ambiente universale che una volta si chiamava ‘arte’, ma è anche svanita nella dissoluzione dell’esperienza estetica in una sfera [new media e intrattenimento di massa] in cui è impossibile distinguere tra i sentimenti che si sono sviluppati dentro di noi e quelli che sono stati introdotti dall’esterno” (Dove vanno le arti?, 1996, adesso in La fine della cultura, Rizzoli, Milano 2013, p. 30).

[18]  E’ un’esigenza che ha una tradizione illustre. “Questo libro”, leggiamo nella celebre Avvertenza posta all’inizio del primo volume dell’edizione in quarto dell’Encyclopédie, apparso a Ginevra e Neuchatel nel 1777, “ci esime dal leggere quasi tutti gli altri. Nessuno meglio [dei] due scrittori che concepirono il progetto ha conosciuto l’arte di mettere in guardia contro l’abuso delle parole e di risparmiare fatiche alla memoria che raccoglie le idee o alla ragione che le collega”. Sul criterio “economico” dei due curatori dell’Encyclopédie (e in particolare di D’Alembert) cfr. Paolo Casini, Enciclopedia, Laterza, Roma|Bari 2003, p. xix.

[19] Goffredo Parise, Vivere la vita dell’Italia dei più, in: Corriere della Sera, 6.10.1974, adesso in Dobbiamo disobbedire, Adelphi, Milano 2013, p. 52.

[20] George Steiner, I libri hanno bisogno di noi, Garzanti, Milano 2013 (2003), p. 19.

[21] Alfonso Berardinelli, Stili dell’estremismo, Editori Riuniti, Roma 2001, pp. 15-46.

[22] ibid., pp. 40-41.

[23] Cfr. Joseph E. Stiglitz, Il prezzo della disuguaglianza, Einaudi, Torino 2013 (2012), p. 15: “la crescente disuguaglianza suggerisce che il livello di opportunità in futuro andrà diminuendo e che la disuguaglianza aumenterà ancora, se non facciamo qualcosa”. L’indagine sui rapporti tra istituzioni politico-economiche e disuguaglianza è diventato il tema di buona parte delle pubblicazioni recenti: dal mio punto di vista si tratta di estendere la domanda all’ambito cognitivo e di considerare la disuguaglianza nel suo rapporto con le istituzioni culturali e le pratiche di trasmissione (o non trasmissione) del sapere.

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6 Commenti

  1. L´ambito umanistico è un aspetto fondamentale per l´innovazione, la creatività e la crescita culturale e morale. Non ammettere questo sarebbe come affermare che l´uomo sarebbe completo solo con il cervello e senza il cuore e le altre parti del corpo! Dare rilevanza solo alla scienza e tecnologia è semplicemente una menomazione e uno sminuire la totalità del sapere che l´uomo è in grado di generare (oltre il valore meramente economico).
    —-
    Considerare Nel 2001, l´UNESCO ha emanato una Dichiarazione Universale sulla Diversità Culturale
    http://www.unesco.it/_filesDIVERSITAculturale/dichiarazione_diversita.pdf

    Riporto i primi 3 articoli :
    Articolo 1 – La diversità culturale, patrimonio comune dell’Umanità La cultura assume forme diverse nel tempo e nello spazio. La diversità si rivela attraverso gli aspetti originali e le diverse identità presenti nei gruppi e nelle società che compongono l’Umanità. Fonte di scambi, d’innovazione e di creatività, la diversità culturale è, per il genere umano, necessaria quanto la biodiversità per qualsiasi forma di vita. In tal senso, essa costituisce il patrimonio comune dell’Umanità e deve essere riconosciuta e affermata a beneficio delle generazioni presenti e future.
    Articolo 2 – Dalla diversità al pluralismo culturale
    Nelle nostre società sempre più diversificate, è indispensabile assicurare un’interazione armoniosa e una sollecitazione a vivere insieme di persone e gruppi dalle identità culturali insieme molteplici,varie e dinamiche. Politiche che favoriscano l’integrazione e la partecipazione di tutti i cittadini sono garanzia di coesione sociale, vitalità della società civile e di pace. Così definito, il pluralismo culturale costituisce la risposta politica alla realtà della diversità culturale. Inscindibile da un quadro democratico, il pluralismo culturale favorisce gli scambi culturali e lo sviluppo delle capacità creative che alimentano la vita pubblica.
    Articolo 3 – La diversità culturale, fattore di sviluppo
    La diversità culturale amplia le possibilità di scelta offerte a ciascuno; è una delle fonti di sviluppo, inteso non soltanto in termini di crescita economica, ma anche come possibilità di accesso ad un’esistenza intellettuale, affettiva, morale e spirituale soddisfacente.

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