Nelle ultime settimane diversi quotidiani hanno pubblicato interventi che esprimono la preoccupazione di autorevoli esponenti del mondo accademico per gli effetti che le procedure di valutazione della ricerca che sono state recentemente introdotte potrebbero avere per alcuni settori disciplinari. A manifestare le proprie perplessità
sono stati soprattutto studiosi delle discipline umanistiche, che hanno
sostenuto che i metodi che si applicano prevalentemente per valutare la ricerca
nel campo dell’economia o della fisica non si potrebbero impiegare per la
storia o la letteratura perché sono stati concepiti per comunità scientifiche
che usano normalmente l’inglese.
L’obiezione è che non ci sarebbero indici come quelli che si ricavano dalle classifiche internazionali che certificano l’autorevolezza delle riviste pubblicate in quella lingua. Attribuire un peso maggiore a pubblicazioni di editori “internazionali” o edite in lingue diverse dall’italiano sarebbe, secondo i critici, controproducente perché prescinderebbe completamente da considerazioni di merito. In effetti, è difficile negare che l’obiezione abbia un fondamento. Mentre si può ragionevolmente ritenere che un lavoro di fisica quantistica o di teoria dei giochi pubblicato in una rivista
che ha una diffusione esclusivamente locale sia meno rilevante per il progresso
della conoscenza rispetto a uno in inglese pubblicato da un’autorevole rivista
internazionale con un sistema di peer review, non è per nulla scontato che la
stessa valutazione sia giustificata nel caso di un lavoro su Dante, di una
ricerca sulle lotte contadine del mezzogiorno o sulla scapigliatura. Per
confermarlo basterebbe tener conto dell’importanza che ciò che si scrive nella
nostra lingua ha anche per gli studiosi che trattano di questi argomenti in
altre lingue. Aprite un buon libro inglese su Dante o sul risorgimento, e
scoprirete che la letteratura di riferimento è prevalentemente in italiano, e
non potrebbe essere diversamente. Gli espedienti proposti per aggirare questa
difficoltà denunciano una ristrettezza di vedute che nel lungo periodo potrebbe
avere conseguenze negative per settori che hanno un ruolo essenziale nel
preservare il senso dell’identità e della dignità nazionale.
Non è difficile immaginare quale sia stato il ragionamento che ha condotto a proporre una regola così sciagurata. Allo stato attuale non esistono indici bibliometrici affidabili per le pubblicazioni in italiano, dunque attribuire un valore diverso alle
pubblicazioni in altre lingue sarebbe un incentivo per le società scientifiche
nazionali per costruirne di migliori. Come se l’affidabilità di un indice
bibliometrico fosse determinabile attraverso la decisione di una società
scientifica, magari previa approvazione da parte del ministero competente.
Oltretutto, non si capisce perché ci si dovrebbe fidare del giudizio di società
scientifiche i cui membri si rifiutano inspiegabilmente di scrivere in lingue
diverse dall’italiano. La verità è che nella soluzione escogitata si rileva un
goffo tentativo di eludere il problema, probabilmente perché non lo si ritiene
importante. Forse perché si assume che discipline come la storia o la
letteratura nazionale siano paragonabili a “riserve indiane” destinate o
sopravvivere, ammesso che lo facciano, per gentile concessione del governo.
Per quanto rilevante sul piano dell’identità nazionale – un tema che in politica è pericoloso sottovalutare – il problema posto dalla valutazione della ricerca in alcune discipline o settori di ricerca umanistici non è l’unico che andrebbe preso in
considerazione. Anche in ambiti come la fisica, o l’economia, o la matematica,
i metodi di valutazione della ricerca hanno mostrato, dove sono applicati
costantemente da anni – come nel Regno Unito – limiti molto seri. Evidenziati
da un numero crescente di critiche, che avrebbero meritato maggiore attenzione
da parte dei difensori del sistema che sta per essere introdotto nel nostro
paese. Se non altro perché questi critici scrivono in inglese. Un esempio, tra
gli altri, di particolare interesse è quello del filosofo della scienza Donald
Gillies, che ha scritto di recente un libro su questo tema in cui evidenzia gli
effetti controproducenti che il RAE (Research Assessment Exercise) e i nuovi
metodi quantitativi che lo stanno sostituendo hanno avuto per il progresso
della ricerca. Gillies sostiene che le procedure impiegate nel Regno Unito
hanno una certa efficacia nell’evitare che le comunità scientifiche accettino
ipotesi che risulteranno false, ma sembrano essere curiosamente indifferenti al
problema di come evitare che ne rigettino di vere. In altre parole, come
mostrano numerosi esempi tratti da diverse discipline scientifiche che Gillies
prende in esame, i metodi di valutazione correntemente impiegati premiano la
ricerca mainstream e scoraggiano quella innovativa, che fa più fatica a imporsi
nell’opinione comune degli addetti ai lavori, e spesso richiede decenni per
essere apprezzata nella sua importanza. Un difetto non da poco, ammesso perfino
dall’attuale presidente dall’Anvur, il quale tuttavia l’ha soavemente liquidato
affermando che questi metodi di valutazione corrono al massimo il rischio di
lasciar fuori un ottimo studioso “di nicchia”. Una descrizione che si potrebbe
adattare perfettamente a Einstein quando rese pubbliche per la prima volta le proprie
idee sulla relatività.
Pubblicato su Il Riformista il 30 settembre 2011