Nelle comparazioni internazionali relative all’istruzione capita (purtroppo) spesso di vedere l’Italia posizionata al fondo delle graduatorie – poche risorse investite, pochi immatricolati, pochi laureati. Non fa eccezione l’internazionalizzazione del sistema universitario, misurata attraverso il numero di studenti stranieri iscritti. Nel 2010, nelle università italiane il 3,5% degli studenti è straniero contro una media europea del 9,1%; dopo di noi si piazzano solo la Polonia e la Turchia, con meno dell’1% di studenti con cittadinanza straniera (fig. 1). Attraiamo prevalentemente gli albanesi (17,5% del totale stranieri), i cinesi (9%) – settuplicati in sette anni – e i rumeni (8%), mentre ha perso di importanza la comunità greca (4,4%), dimezzatasi dal 2005/06.
Occorre registrare in positivo che da tredici anni, in Italia, vi è un trend costantemente crescente di studenti stranieri, i quali hanno raggiunto le 64.400 unità, un valore quasi triplo rispetto a quello del 2000, sebbene si tratti di una linea di tendenza globale, comune al resto del mondo, per cui il numero di studenti stranieri nell’ultimo decennio è raddoppiato: nel 2010 se ne contano 4,1 milioni.
Fig. 1 – La percentuale di studenti stranieri sul totale iscritti, per paese europeo (anni 2004 e 2010)
Fonte: Elaborazione su dati OCSE 2006, OCSE 2012, EUROSTAT per il numero totale di iscritti nel 2010.
Uno dei motivi incidenti sulla scarsa internazionalizzazione è senza dubbio il fattore linguistico, una contenuta diffusione della lingua italiana, peraltro non controbilanciata dall’attivazione di corsi in inglese; secondo i dati OCSE, l’Italia appartiene al gruppo di paesi dove è ancora trascurabile la quota di corsi universitari svolti in inglese, differentemente dagli atenei del nord Europa che hanno puntato sull’ampliamento dell’offerta formativa in lingua anglosassone.
L’influenza della componente linguistica sulla capacità attrattiva delle nostre università è indirettamente testimoniata dalla figura 2, in cui il dato medio italiano – pari al 3,7% nel 2011/12 -, è distinto per singolo ateneo. Escludendo i casi particolari delle Università per Stranieri di Perugia e Siena, e della Libera Università di Bolzano, collocata in un’area geografica bilingue, l’Università di Scienze Gastronomiche di Bra e il Politecnico di Torino risultano i due atenei con la più elevata percentuale di stranieri sul totale iscritti, rispettivamente pari al 28% e al 14% (fig. 2)[1]. Queste percentuali non sono accidentali, ma il frutto di precise e mirate azioni finalizzate a sviluppare l’internazionalizzazione, tra le quali si annovera (anche) l’avvio di corsi in inglese. E queste politiche hanno fatto sì che il Politecnico di Torino, ad esempio, passasse dal 2% di studenti stranieri nel 2004/05 ad un valore superiore alla media europea nel 2011/12.
In breve, la figura 2 mostra che il livello di internazionalizzazione degli atenei italiani è estremamente diversificato – la metà delle università si colloca al disotto della media nazionale, e quasi un quarto ha una quota di iscritti stranieri pari o inferiore all’1% -, e al tempo stesso dimostra che è possibile superare l’ostacolo lingua e raggiungere (e competere con) il valore medio europeo.
L’altro elemento che l’OCSE ritiene influire sulle scelte decisionali degli studenti stranieri è il prestigio dell’ateneo, il quale spesso è valutato dagli individui – a torto o a ragione – sulla base del posizionamento nei ranking internazionali; questi ultimi, a loro volta, stilano le graduatorie utilizzando tra gli altri indicatori, la quota di studenti stranieri iscritti come indice di attrattività: il dato di fatto è che nei paesi con più iscritti stranieri vi è una forte presenza di università posizionate ai primi posti delle classifiche.
Fig. 2 – La percentuale di iscritti universitari stranieri per ateneo, 2011/12
Fonte: Elaborazione su dati MIUR – Uff. di Statistica.
Internazionalizzazione significa anche mobilità internazionale, studenti che si spostano soltanto per una breve parte del loro percorso formativo in un altro paese. Su questo fronte l’Italia appare avere una buona capacità di attrazione: su 32 paesi aderenti al programma Erasmus – notoriamente il principale programma di mobilità studentesca in ambito europeo – è il quinto per numero di studenti stranieri ospitati, dopo Spagna, Francia, Germania e Regno Unito – una posizione mantenuta stabilmente da dieci anni. Trascorrono un periodo di formazione nel nostro paese, variabile dai tre ai dodici mesi, soprattutto gli spagnoli (42%), probabilmente per la vicinanza linguistica e culturale, i francesi (10%), i tedeschi (9%), quindi i polacchi (6%) ed i turchi (5%). Ma di quale tipo di formazione si tratta?
Analizzando nel dettaglio il motivo di ingresso degli Erasmus, si evidenzia che gli studenti arrivano da noi quasi esclusivamente per studio, in numero all’incirca identico a quello del Regno Unito e non dissimile da quello della Germania; ciò che ci distingue da questi paesi è che sono scelti, rispettivamente, da quasi il triplo ed il doppio di studenti per svolgere dei tirocini/stage (fig. 3). Il mercato del lavoro italiano ha forse poco appeal?
L’Italia è soprattutto un paese “mobile”, con i suoi 22.000 studenti in uscita è il 4° per numero di studenti partecipanti al programma Erasmus, ancora una volta dopo Spagna, Francia e Germania. Secondo i dati della Commissione Europea, il 10% dei laureati italiani ha trascorso un periodo formativo all’estero nel 2010, ne consegue che l’obiettivo posto dal Processo di Bologna nel Comunicato di Lovanio (2009), secondo cui, entro il 2020, almeno il 20% dei laureati nello Spazio Europeo dell’Istruzione Superiore deve aver svolto un periodo di studio o di formazione all’estero, non è impossibile da raggiungere. Ma per centrare l’obiettivo occorre, se non eliminare, quantomeno ridurre, le disparità nella partecipazione ai programmi di mobilità dovute alla differente provenienza socio-economico familiare. Due diverse ricerche – AlmaLaurea e Eurostudent –, condotte con metodi di rilevazione diversi, giungono ad un analogo risultato: nel nostro paese, gli studenti con alle spalle un’esperienza di studio all’estero, con genitori laureati, sono il triplo di quelli con genitori non diplomati.
Fig. 3 – Il numero di studenti Erasmus, per motivo di ingresso e per paese ospitante (a.a. 2010/11)
Nota: Nel grafico sono indicati solo i paesi europei con almeno 4.000 studenti in entrata e/o in uscita. Fonte: The Erasmus Programme 2010-11, European Commission, 2012.
Allo scopo di attenuare questo divario, nel 2001[2], fu istituito il contributo di mobilità internazionale, un’integrazione monetaria erogata ai beneficiari di borsa di studio partecipanti ad un progetto di mobilità, per far fronte alle maggiori spese derivanti dal soggiorno all’estero. Questo intervento, volto a dare sostegno economico agli studenti economicamente svantaggiati ma meritevoli, soffre degli stessi “mali” della borsa di studio: un numero esiguo di studenti ne beneficia – 2.500 circa nel 2011/12 – che sono una parte – la metà – di coloro che ne avrebbero diritto (Tab. 1).
Tab. 1 – Il numero di beneficiari di contributo di mobilità, e la percentuale di chi ne ha beneficiato su richiedenti (a.a. 2001/02, 2006/07, 2011/12)
a.a. 2001/02 | a.a. 2006/07 | a.a. 2011/12 | |
N° beneficiari borsa di studio | 136.896 | 153.189 | 119.781 |
Di cui: beneficiari contributo mobilità | 2.913 | 2.772 | 2.488 |
Beneficiari contributo mobilità su richiedenti | 53,5% | 40,7% | 47,9% |
Fonte: Elaborazione su dati MIUR – Ufficio di statistica.
Del contributo di mobilità non si fa menzione nella nuova normativa sul diritto allo studio (d.lgs. 68/2012), sebbene essa contempli tra le sue finalità “la promozione e la creazione di interventi e strumenti di valorizzazione e informazione delle opportunità offerte, in particolare dall’Unione europea, per favorire l’internazionalizzazione delle esperienze di studio e di ricerca e ogni altra forma di scambio culturale e scientifico da e verso le istituzioni universitarie europee e di altri Paesi” (art. 2, co. 5). Era invece previsto nello schema di decreto attuativo della sopraccitata normativa – proposto dall’allora Ministro Profumo e “bloccato” dalla caduta del governo Monti –, in una versione pressoché uguale a quella del DPCM 9 aprile 2001, senza però alcuna specifica in merito a quale soggetto dovesse finanziare tale intervento, quindi lasciato implicitamente alle disponibilità finanziarie delle regioni, quindi ad un destino incerto.
Sarebbe opportuno, invece, che il contributo fosse considerato a tutti gli effetti parte integrante della borsa, e di conseguenza finanziato con le stesse fonti: il Fondo statale integrativo, la tassa regionale per il dsu, e le risorse regionali, auspicabilmente all’interno di una revisione generale del sistema di finanziamento che renda possibile la copertura totale degli idonei.
La mobilità genera innegabili benefici e per l’individuo e per la società – ad esempio, aumenta significativamente la probabilità di trovare un’occupazione ad un anno dalla laurea, in base a quanto emerge dalla XV Indagine AlmaLaurea sulla condizione occupazionale dei laureati – per questo va seriamente incentivata senza limitarsi ai pur importanti proclami.
[1] Va comunque fatto presente che l’Università di Scienze Gastronomiche è una realtà accademica di dimensioni assai contenute in termini di iscritti, pari a meno di 300 unità.
[2] DPCM 9 aprile 2001 “Disposizioni per l’uniformità di trattamento sul diritto agli studi universitari”.