Ricapitoliamo qualche dato che abbiamo discusso nel recente passato: la performance della ricerca tecnico-scientifico italiana non è affatto male. La qualità e l’efficienza, misurata in base a quanti articoli scientifici sono stati pubblicati, a quante citazioni questi hanno avuto nella letteratura scientifica internazionale e a quante risorse sono state investite nel sistema di istruzione superiore, sono molto buone. L’Italia scientifica scala le vette delle tanto agognate classifiche internazionali ma nel frattempo l’investimento nella ricerca di base svanisce.
L’attuale ministro è stata una ricercatrice, il suo partito si è sempre schierato con “la società della conoscenza”, il primo ministro aveva anche dichiarato che mai ci sarebbero stati tagli sulla ricerca e sull’istruzione. Eppure i fondi per i progetti per le ricerche liberamente proposte sono a zero. Morale: in Italia si riescono ancora (e per poco) a formare ricercatori di alto livello che però trovano un ambiente politico e culturale ostile per sviluppare le loro ricerche. Un’ulteriore conferma di questo stato di fatto è arrivata pochi giorni fa dai risultati delle prestigiose e competitive borse di studio dell’European Research Council (vedi anche qui). Il 15% dei progetti finanziati sono stati vinti da italiani, appena meno dei tedeschi, ma molto più dei francesi e degli inglesi (10%) e di tutti gli altri europei. Ricordandosi che i ricercatori italiani sono la metà dei francesi e dei tedeschi, questo risultato è assolutamente rilevante. Che fa un giovane che vince qualche milione di euro per fare ricerca di punta? A chi affida i propri soldi e il proprio futuro? Non certo a un paese che non crede e non investe più nella ricerca. E così il 56% dei vincitori se ne va in altri paesi, preferenzialmente in Inghilterra.
Il disinteresse della politica è evidente dai fatti. Ma il problema più grande è che questo riflette un atteggiamento culturale diffuso, secondo cui, come disse l’ex presidente della commissione Cultura del Senato, “noi siamo un paese che ha limiti e bisogna prendere atto di questi limiti. Non possiamo assolutamente più pensare di essere un paese di serie A in tanti settori perché le ricerche sono condotte con mezzi che non possiamo permetterci”. L’università italiana soffre di gravi problemi legati alla modesta qualità della sua governance, agli scarsi finanziamenti e a trascorsi storici caratterizzati da errori sui quali non si è mai riflettuto abbastanza. Appare però sulla stampa molto peggio di quello che è, grazie anche all’opera di alcuni editorialisti, che, come gli alunni asini segnati dal rancore, puntualmente accompagnano, quasi con sadismo, i continui tagli del governo. Niente paura: continuando a sprecare le uniche risorse intellettuali che abbiamo ci ritroveremo presto in serie Z.
(Pubblicato su Il Fatto Quotidiano)
[…] Ricerca scientifica, le risorse che la politica sceglie di buttare […]
“Il 15% dei progetti finanziati sono stati vinti da italiani, appena meno dei tedeschi, ma molto più dei francesi e degli inglesi (10%) e di tutti gli altri europei. Ricordandosi che i ricercatori italiani sono la metà dei francesi e dei tedeschi, questo risultato è assolutamente rilevante.”
======
Molti di quegli italiani erano già all’estero e hanno deciso di rimanerci. Non sono i ricercatori italiani ad essere la metà dei francesi, ma quelli che lavorano in Italia (ammesso che ciò sia vero). La realtà è che con questi grant praticamente nessuno (italiano o meno) ha deciso di trasferirsi in Italia, nemmeno pagato. Alla fine della fiera, Svizzera e Olanda (oltre che UK, FRA e D) hanno preso più grants dell’Italia. Mi pare che la stampa non abbia dipinto “accuratamente” la gravità della situazione.
erc.europa.eu/sites/default/files/document/file/erc_2013_cog_statistics.pdf
“Molti di quegli italiani erano già all’estero e hanno deciso di rimanerci. ”
Quanti di grazia? Comunque trattandosi di venusiani non è stato il sistema italiano ad averli formati.
———
“Non sono i ricercatori italiani ad essere la metà dei francesi, ma quelli che lavorano in Italia (ammesso che ciò sia vero)”
Citare dati please e non dichiarazioni apodittiche a vanvera: i numeri sono questi
——-
“Alla fine della fiera, Svizzera e Olanda (oltre che UK, FRA e D) hanno preso più grants dell’Italia.”
Ma almeno sapere contare?
I dati (che mi parevano già chiari nel precedente commento) sono che su 46 grants a cittadini italiani 26 grants sono andati a quasi tutti cittadini italiani che facevano già ricerca all’estero e hanno deciso di rimanerci (la lista di tutti i vincitori http://erc.europa.eu/sites/default/files/document/file/erc_2013_cog_full_results_by_domain.pdf).
Mi pare che di quei 26 ricercatori con passaporto italiano quasi tutti hanno preso un dottorato all’estero (ho fatto un controllo a campione) anche se molti si sono laureati in Italia. Di contro, solo 20 grants sono rimasti in Italia (tutti italiani che lavoravano già in Italia) come peraltro 20 grants in Spagna. In Svizzera sono finiti 22 grants (la maggioranza proveniente dall’estero), 29 in Olanda, 42 in Francia, 43 in Germania e 62 in UK di cui la maggioranza dall’estero. (fonte: pagina 6 erc.europa.eu/sites/default/files/document/file/erc_2013_cog_statistics.pdf).
Non mi è chiaro il grafico del commento a quale mia dichiarazione “apodittiche a vanvera” vuole rispondere.
Scusi sa ma lei o non capisce la lingua italiana o ha gravi problemi di logica elementare o probabilmente entrambi i problemi. Ho scritto: “Che fa un giovane che vince qualche milione di euro per fare ricerca di punta? A chi affida i propri soldi e il proprio futuro? Non certo a un paese che non crede e non investe più nella ricerca. E così il 56% dei vincitori se ne va in altri paesi, preferenzialmente in Inghilterra.” Questo significa che è del tutto comprensibile che un italiano che ha fatto ricerca in patria e/o all’estero non abbia nessun incentivo a rimanere/tornare in Italia proprio per il fatto che, per fare un esempio tra le migliaia che giornalmente si presentanto a noi che facciamo ricerca, non ci sono più finanziamenti per i progetti di ricerca fondamentale. Non so se lei abbia esperienza, conoscenza indiretta, per sentito dire, perché è a contatto con delle persone che credono o immaginano o si raccontano tra loro di fare ricerca, ma le posso assicurare che in nessun paese al mondo (tra quelli che noi consideriamo competitors – per usare una parolaccia) accade che non ci siano risorse per fare dei progetti di ricerca fondamentale. Qual’è il messaggio? Anche non sapendo né leggere né scrivere si potrebbe capire che il messaggio è: a noi della ricerca non importa un fico secco. Dunque fuori dai piedi. E questo è il messaggio che viene dato a livello politico, a livello mediatico da una serie di lustrascarpe a servizio permanente. Dunque in genere o si ha una fidanzata in loco, o una motiviazione quasi sovraumana, o ci si sposta in paesi che fanno politiche adeguate al caso. Ma malgrado questa situazione disperata c’è gente che ancora, pensi un po’, si forma nell’università italiana, va all’estero vince PhD, posti permanenti o borse ERC e magari all’estero ci rimane pure. E malgrado questa situazione l’università italiana è ancora in grado, certo per poco tempo, di formare persone che sono “competitive” nel mercato del lavoro internazionale. Ma ogni persona che viene formata, a livello di laurea o PHd, costa e costa pure cara. E lasciarle andare via è una perdita. Ora prenda carta e penna e calcoli: quanto costa?
Ps le affermazioni apodittiche a vanvera sono esattamente quelle che ha scritto sopra e che trovano risposta nella figura che ho linkato.
Però io non capisco il ragionamento. Una persona che ottiene un grant da uno o due milioni di euro, non ha bisogno di fondi statali per fare ricerca. Quindi evidentemente sono altri i motivi per i quali non torna in Italia.
Io potrei fare un esempio personale, ma non voglio violare la privacy del diretto interessato (però se il Prof. Labini mi scrive una email, sarò lieto di raccontarle in confidenza tutti i dettagli con nomi e cognomi). Le dico solo, senza entrare nei dettagli, che conosco due persone che *dopo* aver vinto ERC o FIRB si sono viste rifiutare, dal dipartimento che avevano scelto come ospite, un posto da RTD (posto che si sarebbero pagati da soli).
In breve: il suo articolo suggerisce che nonostante alcuni problemi di governance, il fatto che ci siano tanti ricercatori italiani (italiani per passaporto) che hanno vinto questi grants ERC dimostra come la ricerca in Italia non sia scassata come riportata dalla stampa o da certi editorialisti, anche se poi il 56% sceglie di andare via.
In realtà l’esempio dei grant ERC dimostra esattamente il contrario. In primo luogo il 56% dei ricercatori con passaporto italiano aveva deciso di lasciare l’Italia già ai tempi del dottorato, quindi stava già all’estero e ci è rimasta. Il numero di grants ERC che è finito a istituzioni italiane è inferiore a quello di Svizzera e Olanda, paesi piuttosto piccoli, anche come numero assoluto di ricercatori resindenti in quei paesi rispetto all’Italia (ammesso che i dati ampiamente disponibili siano corretti).
Ora una illustrazione facile. Il numero di ricercatori italiani all’estero è X, sicuramente e significativamente inferiore al numero di ricecatori italiani in Italia, diciamo Y. Di questi X, alcuni – diciamo x (cioè 26 nel caso in questione) – vincono grants internazionali, mentre solo y (cioè 20) di quelli Y residenti in Italia. Il rapporto x/X è elevatissimo rispetto al rapporto y/Y. Giusto? Ciò dimostra, a mio parere si intende, che la popolazione X è più capace, o più interessata, a competere per fondi di ricerca rispetto a Y (questa frase la si può leggere anche al contrario, cioè che i ricercatori in Italia siano meno interessati dei ricercatori italiani all’estero a reperire fondi: il commentatore Shakerato suggerisce anche l’ipotesi che siano le istituzioni stesse a respingere i ricercatori con fondi).
La situazione italiana è molto peggio di quanto appaia sulla stampa.
@Shakerato_non_mescolato : Certo figuriamoci possiamo fare una lista lunga un km di problemi amministrativi, burocratici, ecc. Uno dei problemi più ovvi è in genere con una borsa da 2 ml di euro uno va dove poi l’assumono con probabilità uno. E dunque è davvero difficile che rimanga in Italia. Per il resto suggerisco di leggere l’articolo di seguito in cui ci sono interviste a vincitori di ERC

Lovecchio “In realtà l’esempio dei grant ERC dimostra esattamente il contrario.” Ahahahahahahah! Lei è davvero spiritoso, grazie ogni tanto ci vuole del buon umore.
La validità dei ricercatori italiani nessuno la mette in dubbio. (Come penso nessuno metta in dubbio che in alcune università, probabilmente non tutte, vige una specie di sistema feudale. E che avere a che fare con la burocrazia italiana è come scontrarsi con un muro di gomma.)
Sono anche fermamente convinto che servano molti più soldi (il reclutamento è fermo da troppo tempo, come gli scatti stipendiali, e i finanziamenti per la ricerca stanno letteralmente scomparendo).
Rimane il fatto che nelle università c’è una mentalità sbagliata (appunto da sistema feudale), con la quale alcuni si adattano a convivere (me compreso), mentre altri no (e allora vanno all’estero).
Se posso fare un commento un po’ off-topic, secondo me anche il carico didattico previsto per legge per gli RTD (almeno 120 ore frontali?) è una cosa che uccide la ricerca. Specie se quelle 120 ore sono due insegnamenti in classi con centinaia di studenti, con tutto quello che ne consegue in termini di esami.