Siamo costretti a tornare sull’argomento delle tasse universitarie anche durante le vacanze di Natale, e lo facciamo a partire dall’articolo del New York Times: “For Poor, Leap to College often Ends in a Hard Fall”. Nel momento stesso in cui il Governo ha approvato un taglio di 300 milioni di euro all’università, taglio che il prossimo anno porterà più di venti atenei a rischio default, alla riduzione degli stipendi del personale universitario e all’espulsione di una quota supplementare di precari, ci preme sottolineare una cosa: già tanti danni sono stati fatti all’università pubblica in nome di un suo miglioramento che ci sembra saggio evitarne almeno un altro: la liberalizzazione delle tasse universitarie e l’introduzione di prestiti d’onore.
Da diverso tempo si moltiplicano le dichiarazioni di chi vuole aumentare le tasse universitarie alla cifra di 7 o 10 mila euro l’anno. Siamo convinti che nell’attuale situazione italiana, paese che ha la metà dei laureati (nella fascia di età 25-34 anni) rispetto agli altri paesi europei; che si colloca, secondo l’OCSE, per spesa rispetto al PIL in istruzione superiore 32esima su 37 paesi (30% in meno della Francia); e che ha un mercato del lavoro assai meno reattivo degli altri paesi occidentali, questa soluzione sarebbe suicida. Molti di questi articoli partono da una ipotetica verità incontrovertibile: che in Italia i poveri pagano l’università ai ricchi. E che l’unico modo per porre fine a tale “macroscopica e odiosa ingiustizia” è liberalizzare le tasse universitarie e introdurre prestiti d’onore. Lo ripetiamo: è falso.
Abbiamo già dimostrato ampiamente che non è affatto vero che i poveri pagano l’università ai ricchi. Dobbiamo aggiungere un punto: liberalizzare le tasse e introdurre prestiti d’onore non aiuta i meno abbienti, li ostacola. Questa volta non lo diciamo noi. L‘articolo del New York Times, controintuitivo nella terra delle opportunità, lo dice chiaro: negli Stati Uniti l’università non aiuta i meno abbienti nè aumenta la mobilità sociale. Al contrario, tasse elevate e prestiti d’onore inibiscono la mobilità sociale e producono diseguaglianza: “i ricchi sono avvantaggiati e la diseguaglianza tra ricchi e poveri sta crescendo“, recita l’articolo.
“Gli studenti che in terza media avevano punteggi superiori alla media pur provenendo da famiglie con basso reddito, arrivano alla laurea nel 26 per cento dei casi – una percentuale inferiore a quella dei laureati provenienti da famiglie abbienti con risultati peggiori. Trent’anni fa, c’era una differenza di 31 punti percentuali tra la quota di studenti ricchi e poveri che arrivavano alla laurea. Ora il divario è di 45 punti. Il divario è cresciuto anche nella percentuale degli studenti ammessi all’università e nella spesa per studente [annual enrichment spending on children] su tutor, sport, musica e altre attività extra-curricolari“, quella che l’editorialista del New York Times David Brooks, rifacendosi al lavoro dell’eminente politologo di Harvard Robert Putman, aveva definito la “biforcazione” della società americana, quel processo di produzione di diseguaglianza che inizia precisamente nell’istruzione e che, se non vi sarà un’inversione di rotta, porterà a un vero e proprio “suicidio nazionale“.
Addentrandoci nel contenuto, l’articolo narra nei dettagli la storia di Angelica Gonzales, figlia di immigrati messicani, e delle sue amiche Bianca e Melissa, tutte lower class e low income, che quattro anni fa si sono iscritte rispettivamente all’Emory College, prestigiosa università di Atlanta, in un community college e alla Texas State University. Il New York Times riporta le testimonianze delle ragazze, sottolineando come quattro anni prima pensassero: “sembrava come dovessimo decollare, da una vita all’altra”, dice Melissa.
Quattro anni dopo, scrive il New York Times, “la loro storia sembra non tanto un tributo alla mobilità verso l’alto ma uno studio degli ostacoli che uno studente deve affrontare in un’epoca di crescente diseguaglianza economica. Nessuna di loro ha ottenuto una laurea in quattro anni”, spiega il giornale. “Una sola continua a studiare a tempo pieno e le altre due hanno debiti insostenibili. Angelica, che ha lasciato Emory con un debito di 60 mila dollari, fa l’impiegata in un negozio di mobili di Galveston. Tutte hanno dimostrato abilità all’università, anzi hanno dimostrato di eccellere. Ma il bisogno di guadagnare implica una serie di vincoli”, scrive il New York Times.
Non vogliamo riprendere per intero l’articolo, di cui consigliamo la lettura. Nè intendiamo soffermarci sulle storie singole di queste studenti, non perchè non siano importanti – lo sono- ma perché ovviamente non sono generalizzabili. Vogliamo soffermarci sui dati.
La loro storia è “la storia di qualcosa di più ampio”, scrive il New York Times, “il ruolo crescente che l’istruzione gioca nel proteggere le divisioni di classe. […] L’istruzione, una forza pensata per erodere le barriere di classe, sembra oggi aumentarle”. “Tutti pensano all’istruzione come uno strumento di eguaglianza”, dice Greg J. Duncan, economista alla University of California, Irvine, “il luogo in cui inizia la mobilità sociale”. Ma quanto avviene è il contrario. “Pressoché tutti gli indicatori che abbiamo mostrano che il divario tra ricchi e poveri sta aumentando. È avvilente”.
Di fatto, lungi dall’aiutare i cosiddetti “meritevoli ma privi di mezzi”, le alte tasse e gli elevati debiti paiono condizionare l’intera carriera universitaria, ostacolandola, opprimendola, disincentivandola. Angelica, studentessa “straordinariamente brillante e dedicata”, è piena d’entusiasmo al momento dell’iscrizione a Emory, università in cui la retta normalmente costa circa 50 mila dollari l’anno. “Quante volte nella vita ti capita l’occasione di reinventarti completamente”, si chiede Angelica prima di iscriversi. “Non importa quanto mi costa”, diceva, “devo farcela“. Angelica ha ragione, scrive il New York Times: “solo il 30% degli studenti nell’ultimo quartile di redditi si iscrive a una laurea di quattro anni, e di questi se ne laureano meno della metà”.
Quattro anni e mezzo dopo, tuttavia, Angelica e Melissa hanno 105 mila dollari di debito, mentre la famiglia di Melissa ha un reddito annuo di 27 mila dollari, contro i 35 mila dollari della famiglia di Angelica. “Quattro anni e mezzo dopo il diploma di scuola superiore a Galveston, Texas, Melissa O’Neal e Angelica Gonzales hanno ciascuna decine di migliaia di dollari di debito e non sono laureate. Melissa O’Neal, al quinto anno alla Texas State University, è sulla buona strada per laurearsi la prossima estate. Angelica Gonzales è stata sospesa da Emory nell’ultimo anno a causa di voti bassi: la scuola erroneamente aveva ridotto il suo aiuto finanziario, e la necessità di lavorare aveva interferito con la sua capacità di studiare”.
Insomma, il prestito d’onore, dispositivo presentato da tempo come una sorta di welfare studentesco, ha conseguenze assai diverse da quelle suggerite in molti editoriali. Lungi dall’aiutare i meritevoli e privi di mezzi, finisce per bloccare loro la strada inibendo la mobilità sociale laddove essa è più urgente. Altro che trampolino sociale: il debito produce povertà e aumenta la diseguaglianza. Secondo Matthew M. Chingos della Brookings Institution, siamo tornati in una situazione sociale in cui la classe di appartenenza incide sul futuro dei singoli di più della razza di appartenenza, dato assai significativo in un paese che ancora porta le cicatrici dello schiavismo come gli Stati Uniti. “Gli studenti provenienti da famiglie a basso reddito finiscono l’università meno spesso dei coetanei ricchi, anche quando dimostrano abilità maggiori“. La cosa frustrante è che “si tratta di studenti che hanno già dovuto superare ostacoli significativi per avere risultati al di sopra della media”, ha detto Chingos. “Vedere che pochi sono messi in condizioni di arrivare alla laurea è davvero fastidioso”.
Insomma, alla luce delle esperienze degli altri paesi è forse tempo di accantonare l’idea dei prestiti d’onore anche in Italia. Piuttosto, la genuina preoccupazione per la mobilità sociale dei studenti meno abbienti ha una soluzione: aumentare la fasciazione delle aliquote, sostenere le famiglie con reddito pari o inferiore ai 40,000 euro, porre fine a quella anomalia tutta italiana che sono gli “idonei senza borsa”. Per una società realmente capace di aumentare la mobilità sociale, non c’è altra possibilità che rifinanziare l’istruzione a partire dal diritto allo studio.
Invece a me l’articolo della gent.ma Francesca Coin non piace.
Perché è il solito pistolotto astratto.
L’abbiamo capito o no che NON CI SONO I SOLDI?
Tutto il resto sono chiacchiere. Non mi si dica che ci sono, mi si dica piuttosto che si devono trovare. però si entra in un altro ambito di ragionamento.
AD
Ma che maniera di ragionare è mai questa? Chi ha deciso che non ci sono soldi? Lei? Monti? Ci illustri…
“L’abbiamo capito o no che NON CI SONO I SOLDI?”
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Questo è una tipica argomentazione vuota. È facile riconoscerla: è totalmente generica e può essere applicata a qualsiasi problema. Mancano gli insegnanti di sostegno per i disabili. Risposta: “L’abbiamo capito o no che NON CI SONO I SOLDI?”. Gli ammalati di SLA non sono assistiti dignitosamente. Risposta: “L’abbiamo capito o no che NON CI SONO I SOLDI?”. Per quanto l’argomentazione rimanga vuota, farebbe piacere sentirla echeggiare rispetto ad altre voci di spesa. Dobbiamo mandare avanti il progetto della TAV. Risposta: “L’abbiamo capito o no che NON CI SONO I SOLDI?”. Dobbiamo comprare gli F35. Risposta: “L’abbiamo capito o no che NON CI SONO I SOLDI?”. Insomma, è chiaro che è sempre un problema di scelta.
a me invece piace e sembra assai chiaro e concreto: in poche parole dice: se ci mettiamo su questa strada ci roviniamo. Bisogna cercarne un’altra per evitare il suocidio. Tutto il resto sono chiacchiere.
Tanto apprezzo molte osservazioni di ROARS, precise e dettagliate, quanto rimango perplesso sulla chiusura “a priori” su questioni come l’innalzamento delle tasse per chi se le può permettere o i prestiti d’onore.
Fino ad adesso, l’unica soluzione proposta da ROARS su come garantire un maggior accesso all’università da parte di chi proviene da famiglie meno abbienti, mi sembra sia stato aumentare le borse di studio, riprendendo questi soldi dalla fiscalità generale.
Riporto qui alcune delle osservazioni che avevo già scritto in altra sede su questo articolo, che anche se non condivido in alcuni punti è davvero interessante :
1) Il mondo sarà sempre costituito da “poveri” e “ricchi”, e nessun sistema potrà mai azzerare le opportunità che I ricchi hanno.
“Trent’anni fa, c’era una differenza di 31 punti percentuali tra la quota di studenti ricchi e poveri che arrivavano alla laurea. Ora il divario è di 45 punti.”
Si vede che nei venti anni dello studio riportato in figura, la percentuale dei “ricchi” che è riuscita a laurearsi è passata dal 36 al 54%, mentre la percentuale dei poveri è passata dal 5 al 9%. Certo il divario è aumentato dal 31% (36-5=31) al 45% (54-9=45) ma ENTRAMBI gli studenti provenienti dai diversi gruppi hanno migliorato la propria performance. Ha questo creato ingiustizia sociale? Probabilmente si, ma ha indubbiamente portato ad un vantaggio anche per I cosiddetti “poveri” che hanno aumentato le loro possibilità di conseguire una Laurea.
E se il divario si fosse dimezzato (16% di studenti ricchi laureati e 1% di poveri= 15 punti)? Magari ci sarebbe stata più “giustizia sociale” ma dubito benefici per la società.
2) l’articolo del NYT parla molto della storia personale delle tre studentesse (8 pagine), che emotivamente mi sento di condividere. Tuttavia, non mi sembra una grande idea trarre conclusioni tipo“Prestiti d’onore: negli Usa andare all’università è una rovina” basandosi su situazioni particolari, perché sarebbe la stessa argomentazione di chi invoca “punizioni collettive” per l’università italiana prendendo spunto dei casi conclamati di nepotismo da prima pagina.
In conclusione, al momento vedo i prestiti universitari come uno strumento, che può presentare dei rischi notevoli per i singoli, se non si considerano attentamente tutte le conseguenze. Ma anche un’opportunità notevole per chi proviene dalle famiglie meno abbienti, che negli Stati Uniti c’è e in Italia no. Sarei lieto se qualcuno mi convincesse del contrario.
Caro Marco,
qui nessuno è contrario ai prestiti d’onore, ma all’aumento delle tasse universitarie e dunque ai prestiti d’onore per pagare la tasse.
Caro Francesco,
D’accordo ai prestiti d’onore? Non mi ricordo di averlo sentito dire spesso qui, ma può essere una mia mancanza. In che modo si potrebbero introdurre i prestiti d’onore in modo secondo te corretto? Chi dovrebbe sostenere l’onere delle eventuali insolvenze? Ma le tasse le vorresti lasciare invariate anche per chi viene dalle famiglie più abbienti?
I prestiti d’onore sono già stati attivati in Italia nel 1991 https://www.roars.it/i-prestiti-universitari-in-italia-le-ragioni-del-fallimento-passato-e-futuro/
Per i prestiti rimando all’ottimo link segnalato da Francesca Coin che fornisce una quadro chiaro di quello che è successo. Per quel che riguarda le aliquote non ho nulla in contrario per una loro revisione per quel che riguarda i redditi più alti. So che a Torino hanno studiato la situazione in grande dettaglio ed hanno rivisto la maniera di valutare i contributi per fascie ISEE (anzi stiamo aspettando (!?!) un contributo che ci spieghi cosa hanno fatto in dettaglio).
Condivido in pieno l’invito degli autori a leggere l’articolo per intero, le storie di queste tre ragazze sono emozionanti e infinitamente tristi. E’ vero che il divario fra ricchi e poveri negli US aumenta e che l’educazione non aiuta a colmarlo.
L’articolo scrive chiaramente che motivi sono molteplici e solo in parte minore imputabili all’aumento del costo dell’istruzione universitaria. Leggendo le storie delle 3 ragazze ci si rende conto che il costo dell’universita’ e’ solo una concausa del loro fallimento mentre le ragioni maggiori hanno a che vedere con le loro situazioni familiari, scelte infelici, mancanza di una struttura (familiare, universitaria o sociale) di sostegno, ingenuita’, fidanzati lazzaroni, incuria. Infatti, e’ interessante notare che proprio la ragazza ammessa all’istituzione piu’ cara (universita’ privata) ha sprecato le chances migliori. Infatti Emory essendo need-blind e full-need le ha offerto praticamente l’equivalente di una borsa da $200,000. Per una serie di motivi e circostanze questa ragazza non e’ riuscita ad avvantaggiarsi di quest’occasione imperdibile. Direi che l’ascensore sociale in questo caso c’era, la ragazza pero’ non ha potuto/saputo spingere il bottone. Quanti casi ci sono (che pero’ non finiscono sul Times) di persone come questa ragazza che riescono ad andare in ottime universita’ gratis?
Insomma, nessuno dubita che il gap fra ricchi e poveri aumenti in termini di opportunita’ e reddito e che la funzione dell’educazione nel ridurre il gap stia diminuendo. Le cause pero’ sono molteplici e non riconducibili solo al costo delle tasse universitarie. Leggendo l’articolo del Times e l’editoriale di Brooks se ne desume che hanno soprattutto a che vedere col tessuto sociale americano che e’ molto diverso da quello italiano.
@ federico
Traduzione:
“Insomma, ‘sti poveri un po’ se la vogliono! Gli metti lì un bell’ascensore sociale e loro continuano a frequentare quei poco di buono dei loro parenti e fidanzati, sprecando le chances che la munificenza dei ricchi mette loro a disposizione! Mica c’entrano i soldi! E’ che, diciamocela tutta, questi prolet americani sono davvero moralmente claudicanti. Ma da noi, che c’abbiamo Ratzinger, non succederebbe.”
spassosa traduzione…
L’hai letto l’articolo per intero?
Financial aid=”munificenza dei ricchi”?!? Boh…
@ federico
“Financial aid=”munificenza dei ricchi”?!? Boh…”
Ohibò, non sapevo che il financial aid fosse istituito con risorse tratte dai poveri. Questi diavoli di amerikani! Riuscirebbero a far pagare l’IMU anche agli homeless!
“sprecando le chances che la munificenza dei ricchi mette loro a disposizione”
Traduzione: permettendosi di non cibarsi delle briciole della mensa dei ricchi.
Questa e’ la tua visione del financial aid.
Comunque le Pell grants per esempio sono federali e coi ricchi c’entrano poco (quelli si sa negli USA non pagano le tasse!)
@ federico
Fuor di metafora.
Tu sposti il discorso dalle tasse universitarie al problema sociale più generale, come se i discorsi fossero toto coelo disgiunti. Ma il problema delle tasse elevate coincide in effetti con il problema delle risorse reddituali in generale, ed i problemi che si portano dietro i ceti meno abbienti, e che hanno radici economiche, non vengono senz’altro cancellati da una borsa di studio, e tanto meno da un prestito d’onore. Questo punto è stato considerato con riferimento ai problemi delle minoranze etniche (ma non per i ceti meno abbienti in generale) nei programmi di ‘affirmative action’.
No e’ il post che in maniera neanche tanto implicita (scegliendo ad arte pezzi dell’articolo del NYT: ripeto lo hai letto per intero?) crea l’impressione che le disgrazie di queste 3 ragazze siano dovute interamente ai prestiti d’onore e al costo dell’educazione. Mi sono limitato a far notare che i motivi sono molto piu’ complessi (tant’e’ vero che una delle ragazze potenzialmente si sarebbe potuta laureare a costo 0), e solo in parte (minore) imputabili univocamente al costo dell’universita’.
Io non conosco la realtà americana, ma conosco un poco quella inglese.
Mi colpisce il fatto che in Inghilterra vedo pochissima selezione nella concessione di prestiti d’onore, una volta che si soddisfano i requisiti per l’accesso ad una particolare università.
Mi sembra strano soprattutto in quanto il Regno Unito mi appare come una società mediamente molto più selettiva di quella italiana.
Non vorrei che alla base di ciò ci possa essere un problema di moral hazard, in quanto chi concede il prestito conta sul fatto che le finanze pubbliche garantiscano per i debiti degli studenti che si dimostreranno insolventi(come credo proprio sia il caso in Inghilterra).
Questo, aggiunto al fatto che le università avrebbero meno remore all’aumento delle tasse di iscrizione, potrebbe far ritenere molto pericoloso l’adozione generalizzata di questo sistema in Italia.
Marco Bella: “Tuttavia, non mi sembra una grande idea trarre conclusioni tipo “Prestiti d’onore: negli Usa andare all’università è una rovina” basandosi su situazioni particolari, perché sarebbe la stessa argomentazione di chi invoca “punizioni collettive” per l’università italiana prendendo spunto dei casi conclamati di nepotismo da prima pagina”.
Articolo: “Non vogliamo riprendere per intero l’articolo, di cui consigliamo la lettura. Nè intendiamo soffermarci sulle storie singole di queste studenti, non perchè non siano importanti – lo sono- ma perché ovviamente non sono generalizzabili. Vogliamo soffermarci sui dati”.
I dati:
http://www.nytimes.com/interactive/2012/12/22/education/Affluent-Students-Have-an-Advantage-and-the-Gap-Is-Widening.html?ref=education
La prima slide riporta due tipi di dato: numero di laureati in base al merito e numero di laureati in base al reddito. “affluent students have an advantage and the gap is widening”, scrive il new york times.
questo è il perno del discorso del NYT: i meno abbienti sono penalizzati in maniera crescente, e il gap è tra laureati ricchi e poveri è in aumento, pure laddove i ricchi sono meno meritevoli dei poveri. dunque, scrive il new york times, siamo di fronte a un sistema d’istruzione terziaria che rafforza, invece che ridurre, le differenze di classe. un’argomentazione esplosiva, se la inseriamo nel contesto sociale e nella storia degli stati uniti.
certo, può dipendere da una molteplicità di fattori, come scrive Federico. Può anche bene essere che il vero problema nasca dai “fidanzati lazzaroni”, distribuiti prevalentemente tra le studenti meno abbienti, così da produrre una questione di classe.
per la verità, sarebbe pure più interessante, per una volta, parlare di qualche cosa di diverso rispetto al vecchio problema delle tasse e del debito.
[…] che, come si sta sperimentando nei Paesi anglosassoni, ciò non abbia altri effetti se non accrescere l’indebitamento degli studenti e delle loro famiglie. A ciò Monti aggiunge: “Il servizio sanitario […]
[…] ritenere che, come si sta sperimentando nei Paesi anglosassoni, ciò non abbia altri effetti se non accrescere l’indebitamento degli studenti e delle loro […]
[…] ritenere che, come si sta sperimentando nei Paesi anglosassoni, ciò non abbia altri effetti se non accrescere l’indebitamento degli studenti e delle loro […]
[…] che, come si sta sperimentando nei Paesi anglosassoni, ciò non abbia altri effetti se non accrescere l’indebitamento degli studenti e delle loro […]
Articolo interessante, che scopre l’acqua calda; non è un giudizio negativo, mi spiego: ormai dovremmo capire ormai che nulla è più stabile e conveniente, studi compresi, della solidarietà di uno stato ben fondato sulla certezza dei diritti e dei doveri. Insomma giusto. Se questo è chiaro tutto il resto emerge per deduzione.
Il ricordo che io ho delle tasse universitarie variabili per fasce di reddito è questo: studenti di professionisti molto agiati che acquistavano casa per i figli i quali risultavano nullatenenti ed entravano in prima fascia (quindi pagavano tutto quasi nulla e la differenza il papà la dava a loro insieme al resto per mantenere la loro costosa vita fuori casa); figli di autonomi vari (barbieri, negozianti, baristi) che dal reddito dichiarato del padre non avrebbero nemmeno avuto i soldi per arrivare fino a Milano dove invece pagavano l’affitto di una casa insieme ai loro amichetti e tra una festa “con le colleghe” e l’altra studiacchiavano tanto persino la mensa era quasi regalata a quei livelli di reddito; infine i figli dei dipendenti come me che secondo le fasce erano ricchi e pagavano il massimo. Perché ovviamente con due stipendi dignitosi (a malapena sufficienti per mandare due figli all’università e comprarne i libri, senza la casa in affitto, ma viaggiando tutti i giorni) si era ricchi sfondati. Purtroppo l’unico modo di fare le fasce in questo paese è di dividere redditi autonomi da redditi da dipendente; finché non si troverà il modo sapere esattamente quanto guadagnano e mi sa che in un paese come il nostro l’unica via è la carta di credito/debito obbligatoria al posto del denaro contante.