Riceviamo e volentieri pubblichiamo
La lettera al Presidente Mattarella firmata da 126 docenti del Politecnico di Milano ci invita a riflettere su alcuni fondamentali principi costituzionali. Troppo minoritaria per essere significativa? Leggiamo in un articolo che il Rettore ha prontamente sottolineato che, almeno su un punto, i corsi in inglese, quelle contenute nella lettera sono “opinioni assolutamente legittime che però appartengono a meno del 10 per cento del Politecnico. La grande maggioranza dell’ateneo non la pensa così”. Il restante 90% dissente dai colleghi anche sulla necessità di garantire “un accesso alla ricerca e all’alta formazione equamente distribuito su tutto il territorio nazionale”?
La lettera al Capo dello Stato firmata da 126 docenti del Politecnico di Milano è un atto di coraggio che merita rispetto. Essa inizia denunciando l’uso distorto della parola d’ordine del merito, piegata a legittimare «una generalizzata riduzione dei finanziamenti all’Università – già ai livelli minimi fra i Paesi più avanzati – anziché garantire un accesso alla ricerca e all’alta formazione equamente distribuito su tutto il territorio nazionale». Questo grido di protesta viene da chi vive e lavora in un ateneo che svetta in molte delle graduatorie che assegnano oggi premi e punizioni e non è certo fra i più penalizzati dalle regole imposte in questi anni al sistema. È ormai raro e degno di nota che un gruppo di cittadini decida di mettere la firma su un impegno per il bene comune, anche se questo non va immediatamente a loro vantaggio. Perché al Politecnico di Milano, che ha nella sua capacità di attrazione di tanti studenti del Sud uno dei suoi maggiori motivi di vanto e di successo, ci si dovrebbe preoccupare di rafforzare la “competitività” degli atenei delle regioni meridionali? In modo altrettanto chiaro, questa voce di disagio che si leva da meno del 10% dei docenti del Politecnico contesta la verticalizzazione delle forme di governo delle università e la marginalizzazione degli organi collegiali.
Per questo mi è dispiaciuto leggere un articolo che, fin dal titolo e pur citando alla fine quel che nella lettera si trova appunto all’inizio, orienta l’attenzione dei lettori sulla questione dei corsi in lingua inglese, alla quale sono dedicate in tutto 6 righe della lettera, includendo la citazione di una affermazione del Presidente Mattarella. Lo considero la conseguenza di una ingenuità dei colleghi, che avrebbero probabilmente dovuto immaginare che su questo passaggio rischiava di concentrarsi l’attenzione dei commentatori, anche per la rilevanza della questione nella storia recente del Politecnico e il suo carattere obiettivamente controverso. Non si può e non si deve tuttavia eludere per questo la gravità del primo e principale tema proposto in questa lettera, giustamente indirizzata al Capo dello Stato per lo spessore costituzionale dei principi coinvolti: l’impegno della Repubblica a promuovere «lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica» (art. 9), ma anche la garanzia del diritto dei capaci e meritevoli di raggiungere «i gradi più alti degli studi» (art. 34) e la promozione della coesione e della solidarietà sociale (art. 119), della quale le istituzioni della formazione sono un motore insostituibile.
Se tutto questo è vero – e io credo che lo sia – due domande sono allora inevitabili. La prima è al Rettore del Politecnico e al 90% dei suoi professori, quelli che non si sono uniti ai 126 firmatari. La grande maggioranza dell’ateneo non ha sottoscritto la lettera. Ma l’obiezione è solo sui corsi in inglese? O anche sull’idea che la distribuzione su tutto il territorio nazionale di un’alta formazione e di strutture di ricerca di qualità sia una fondamentale questione di equità e che il contesto nel quale il sistema universitario opera sia «sempre più caratterizzato da carenza di finanziamenti per la ricerca, specie per quella di base, compressione del diritto allo studio, riduzione del turnover, blocchi delle retribuzioni»? Saremmo interessati a saperlo, soprattutto nel momento in cui si apprestano a tributare il giusto applauso al Presidente Mattarella.
La seconda domanda è però per questi 126 colleghi. L’uso distorto della parola d’ordine del merito ha il suo strumento principale nella VQR e nel modo in cui vengono utilizzati i suoi risultati. Molti, in Italia, si stanno impegnando a tirare le logiche conseguenze di questa consapevolezza e di quella che «la progressiva riduzione delle risorse destinate a Università e ricerca appare, sempre più, come un indice sintomatico della scarsa o nulla considerazione in cui questi settori fondamentali per la vita economica e sociale della Comunità sono tenuti da molti degli attori politici». Ce la fanno ad unirsi anche loro alla protesta, che ha scelto peraltro la via di un comportamento rispettoso delle norme e della necessità di non penalizzare inutilmente le istituzioni per le quali lavoriamo? Non è facile, quando si è minoranza e si sa quanto sia difficile ottenere il risultato. Ma proprio per questo conta di più…
ma in che senso il problema della lingua e’ un “Un esempio evidente del deficit democratico”?
In quanto al blocco degli scatti stipendiali…beh ogni categoria giustamente difende i propri stipendi, protesta sciopera manifesta e quant’altro, ma scrivere al Presidente della Repubblica di questo, ecco, io (ex ricercatore) mi sarei vergognato…
luca: “ma in che senso il problema della lingua e’ un “Un esempio evidente del deficit democratico”?”
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Basta leggere la lettera:
“[un esempio] “è costituito, per quanto specificamente riguarda il Politecnico di Milano, dalla questione dell’esclusione dell’italiano come lingua di insegnamento nelle lauree magistrali.”
Per quanto io non abbia nulla in contrario ai corsi di laurea in inglese nei casi in cui essi siano utili per le più svariate ragioni, una delibera che esclude a priori l’italiano per un intero ateneo (che oltre ai corsi di Ingegneria offre anche quelli Design e Architettura, tra l’altro), qualche perplessità me la suscita. Perplessità che non debbono essere così campate per aria se una sentenza del TAR aveva addirittura giudicato illegittima la delibera del Senato accademico. Non che la questione sia semplice, visto che il Consiglio di Stato ha invece considerato legittima la delibera, rilevando però una possibile questione di legittimità costituzionale. Per fare un esempio molto semplice: se in un corso di laurea di Architettura (che in taluni indirizzi presumo possa trattare di normative e tradizioni storico-artistico-culturali fortemente radicate nel territorio e nella storia nazionale) la totalità dei docenti ritenesse più efficace offrire un corso di laurea in lingua italiana (o mista) non potrebbe farlo perché un senato accademico (probabilmente espressione di una maggioranza di ingegneri solo parzialmente consapevoli delle specificità culturali di corsi non ingegneristici) non concede questo grado di libertà. Una maggioranza accademica può imporre un veto sull’uso della lingua madre? Io non me la sentirei di rispondere “sì” senza alcuna esitazione (e nemmeno la magistrature se l’è sentita, tanto è vero che la questione non è stata ancora risolta). E non c’è dubbio che il punto in discussione abbia proprio a che fare con le regole del gioco democratico, in cui il potere della maggioranza è comunque soggetto a dei limiti.
luca: ogni categoria giustamente difende i propri stipendi, protesta sciopera manifesta e quant’altro, ma scrivere al Presidente della Repubblica di questo, ecco, io (ex ricercatore) mi sarei vergognato
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Anche in questo caso è opportuno rileggere la lettera:
“La progressiva riduzione delle risorse destinate a Università e ricerca appare, sempre più, come un indice sintomatico della scarsa o nulla considerazione in cui questi settori fondamentali per la vita economica e sociale della Comunità sono tenuti da molti degli attori politici. Ne è esempio evidente il blocco degli scatti stipendiali, che i docenti universitari, unica categoria dell’apparato statale, continuano a subire.”
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La questione degli scatti è posta come esemplificazione della “scarsa o nulla considerazione” in cui Università e ricerca son tenute da molti degli attori politici. Del tutto coerente con il nodo centrale della lettera che verte sulla necessità di tutelare fondamentali diritti costituzionali che sono attualmente minacciati («garantire un accesso alla ricerca e all’alta formazione equamente distribuito su tutto il territorio nazionale»). Su questi temi a chi altro bisognerebbe rivolgersi se non al Presidente della Repubblica?
Non cesso di meravigliarmi quando incontro ricercatori (che dovrebbero essere allenati al rigore scientifico) le cui capacità di comprensione testuale sembrano essere messe a dura prova da articoli o lettere che sono tutt’altro che oscuri.
Cosa succede a chi parla italiano in queste aule?
Ci sono i controllori?
Dire buongiorno è ammesso?
Gli studenti possono bisbigliare in italiano?
Il docente che fa un errore di grammatica sarà punito?
Tutto questo e molto altro su Voyager, viaggio ai confini dell’irrealtà.
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