Negli anni in cui Matteo Renzi è stato sindaco di Firenze l’amministrazione non ha brillato per capacità di innovazione, al contrario. L’esposizione del teschio incrostato di diamanti di Damien Hirst a Palazzo Vecchio ha mostrato come si possa essere pretenziosi e subalterni. Si è offerto l’edificio-simbolo della storia repubblicana di Firenze alla celebrazione di un oggetto assurdamente dispendioso, concepito come vessillo di disuguaglianza.
In programma questa primavera, la mostra dedicata a Michelangelo e Pollock prefigura un astorico confronto tra due artisti fumettisticamente presentati entrambi come “furiosi”. Il risibile match, che nelle intenzioni di Renzi dovrebbe costituire il dono d’addio alla città, conferma la predilezione per esposizioni-blockbuster di ben scarsa consistenza scientifica. L’ostinazione con cui si è infruttuosamente cercata la (perduta) Battaglia di Anghiari leonardesca in Palazzo Vecchio è sembrata un’avventata commistione tra dilettantismo storico-artistico, maldestro culto delle nuove tecnologie e fiction rinascimentale in chiave Dan Brown. Certo, esistevano i finanziamenti di National Geographic: ma perché emarginare la comunità scientifica italiana e internazionale? La proposta di “terminare” la basilica di San Lorenzo costruendo la facciata secondo l’”originario” progetto michelangiolesco, lanciata da Renzi a suo tempo in consiglio comunale, si è rivelata episodica e strumentale. Nel frattempo si è disinvestito da istituzioni che non avevano il sostegno dell’industria alberghiera (ma potevano rivelarsi importanti per la comunità dei residenti) e si sono patrocinate iniziative ambiguamente oscillanti tra scoutismo culturale e rapacità commerciale. Non si è infine esitato a impedire senza preavviso ai cittadini il passaggio dal Ponte Vecchio pur di assicurare maggiore privacy agli ospiti di un’esclusiva cena di gala.
La prima cosa da dire è che l’attuale presidente del Consiglio sconta il limite sociologico della città da cui proviene. Firenze è una città di piccole o medie imprese attive in settori ipermaturi e a bassa tecnologia, a conduzione familiare. Alberghi, servizi, editoria finanziata o aggregata a poli museali. Salvo rare eccezioni l’orientamento non è alla competizione ma al controllo proprietario e, qualora possibile, alla rendita confortevole. Le più sbrigative “valorizzazioni” del patrimonio storico-artistico sono remunerative, relativamente anticicliche e non comportano rischio imprenditoriale: perché dunque darsi pena di finanziare progetti a medio e lungo termine, di cui beneficerebbero i cittadini, invece che “eventi” graditi ai visitatori, in primo luogo ai più abbienti? La produzione stereotipa di guide, foulard stampati con motivi botticelliani e cartoline con giglio non impone scelte strategiche né presenta le difficoltà di un’industria high-tech.
“La cultura dovrebbe essere il baluardo di una sfida identitaria”, vaticina Renzi in Stil novo[1]. Non è chiaro tuttavia se intenda porre giusta enfasi sull’importanza dell’istruzione o semplicemente accompagnare le dichiarazioni dell’amico Farinetti sull’appeal di torroni e prosciutti doc. “Se è morta non è bellezza. Al massimo può essere storia dell’arte. Ma non suscita emozione”[2]. Ma che vuol dire?
Se per politica della cultura intendiamo una serie coerente di iniziative o provvedimenti volti a promuovere sollecitudine civile, discussione informata e ampiezza di confronti (quanto potremmo sinteticamente definire “apertura della mente”) dobbiamo riconoscere che tale politica non esiste per Matteo Renzi: esistono invece commercio e turismo. A mio parere l’adozione di un punto di vista aggressivamente consumistico costituisce un’incongruità per ciò che Renzi stesso rappresenta come segretario del Partito democratico. Provo a spiegare perché.
Le nostre preferenze culturali sono modellate da differenti tipi di marketing. Se desideriamo che il “pubblico” (di una mostra, di un concerto) sia qualcosa di più e diverso da una folla plaudente che sorseggia cocktail e rende omaggio alla munificenza di mecenati pubblici o privati dovremmo porci il problema dell’inclusione. I “mercati culturali” non sono efficienti: esistono alti costi di accesso e pronunciate asimmetrie informative[3].
Personalmente ritengo che l’arte non coincida inevitabilmente con il lusso, al contrario: tantomeno se il nostro punto di vista è quello dell’amministratore pubblico. Eppure questa è la tendenza dominante. Né credo sia lecita la riconduzione del patrimonio storico-artistico alla sola dimensione del profitto: obbliga la cultura a competere sul breve termine con industrie ben più remunerative.
La Costituzione prevede l’investimento pubblico in cultura perché riconosce la specifica complessità del processo di partecipazione[4]. Al pari dell’indigenza, i deficit educativi creano “ostacoli” formidabili alla piena esplicazione sociale e professionale della persona. E’ tuttavia interesse generale, quantomeno in uno stato di diritto, che vi sia (e continui ad esservi attraverso le generazioni) un’opinione pubblica informata e indipendente.
Sospinto da un pregiudizio “popolare” (o più semplicemente populista) e dallo spiccato amore per l’acclamazione, il più giovane presidente del consiglio della storia italiana ha sinora mostrato di ignorare le responsabilità di una seria politica culturale[5]. Ha sottostimato i benefici economici e civili della ricerca. Si è circondato di collaboratori fugaci e modesti e ha privilegiato opache reti amicali. Non ha fatto ottimi studi né ha ragione di nasconderlo. In futuro farà tuttavia meglio a evitare dispersive polemiche con i “professori” per valutare senza pregiudizio punti di vista meditati[6]. Perché, malgrado accattivanti appelli all’”uguaglianza”, tanta disattenzione ai temi della cittadinanza? Suppongo che l’organicità di Renzi a cerchie economiche e d’opinione dominanti possa essere la risposta che cerchiamo.
@MicheleDantini
Una versione ridotta dell’articolo è apparsa sul Giornale dell’Arte, 340, marzo 2014, p. 11
[1] Matteo Renzi, Stil novo, Rizzoli, Milano 2012, p. 50.
[2] ibid., p. 55.
[3] Gustavo Zagrebelsky, Fondata sulla cultura, Einaudi, Torino 2014, p. 44: “le tante conoscenze particolari restano scomposte come tessere di mosaico che non compongono figure… Qualunque avventuriero della conoscenza [può] infilarsi, senza incontrare ostacoli, di fronte a un pubblico ignorante e inconsapevole. Il ‘pubblico’ è già vittima della capacità specialista e dell’ignoranza generalista”. Uno stato di diritto può trascurare il compito di un’educazione permanente dei suoi cittadini? Sul tema dell’informazione culturale vd. qui.
[4] Sul tema cfr. Salvatore Settis, Paesaggio costituzione cemento, Einaudi, Torino 2010, p. 122 e ss.
[5] Cfr. Fabio Bordignon, Matteo Renzi: A ‘Leftist Berlusconi’ for the Italian Democratic Party?, in: South European Society and Politics, 2014, p. 9, online qui: “Overall, the ‘leader of scrapping’ appeared interested in developing a post-ideological political proposal and a catch-all electoral strategy, insisting on key words such as ‘innovation’, ‘education’, ‘culture’”.
[6] Con un ampio e polemico intervento apparso su Repubblica, Giovanni Valentini è sembrato porsi in scia a Renzi attaccando le soprintendenze con argomenti in parte sommari, soprattutto per la mancata distinzione, quanto alle modalità di partnership pubblico|privato, tra filantropia culturale o no profit da un lato, sbrigative forme di “valorizzazione” commerciale dall’altro (I no delle soprintendenze che rovinano i tesori d’Italia, in: la Repubblica, 9.3.2014, pp. 1, 20). Valentini aveva anticipato la sua posizione in un articolo apparso in precedenza, ma passato inosservato, La bellezza italiana e il sonno del reame (la Repubblica, 11.1.2014, p. 24): “si dovrebbe iniziare a riorganizzare la rete delle Soprintendenze artistiche e archeologiche… troppo spesso diventano fattori di conservazione e protezionismo in senso stretto: cioè ostacoli allo sviluppo, alla crescita del turismo e dell’ecenomia. La Penisola è piena di sfregi alla sua bellezza, al suo patrimonio e al suo paesaggio; ma anche di opere bloccate o incompiute, a causa di ritardi, pastoie e lungaggini burocratiche”. L’articolo prendeva spunto dalle riflessioni sul turismo contenute nel libro di Yoram Gutgeld, deputato PD e al tempo consigliere economico di Matteo Renzi, Più uguali, più ricchi, Rizzoli, Milano 2013. A mio avviso un eccesso di ideologia vizia da tempo la discussione sulle politiche di tutela. La differenza non passa tra capitale pubblico e capitale privato: ma tra “capitale paziente” (per usare la felice definizione di Mariana Mazzucato) e capitale speculativo o rendita. Checché se ne dica la piccola o media impresa attiva oggi in Italia nell’ambito dei servizi al patrimonio non è in grado di (né motivata a) produrre innovazione: sottocapitalizzata, trae la propria sopravvivenza da relazioni politiche e vive di progetti a breve termine (Paolo Sylos Labini, La crisi italiana, Laterza, Bari 1995, p. 9 e ss.). L’attività di agenzie pubbliche in grado di selezionare competenza, procurare strategia e finanziare trasformazione – qualcosa che il MiBACT di oggi, inutile dirlo, è del tutto incapace di fare – potrebbe risultare di grande vantaggio. L’editoriale di Valentini ha sorpreso quanti, sulla prima pagina del quotidiano romano, erano soliti trovare qualificate difese del patrimonio e dell’ambiente intesi come “bene comune”. Per la discussione che ne è seguita, cui ha preso parte anche l’ex ministro Bray, e la raccolta di firme cfr. qui, qui, qui e qui. Sulle retoriche della “sussidiarietà” e le loro implicazioni ideologiche (“neoguelfe” o meglio neocesaristiche) nel contesto della discussione italiana sulle politiche della tutela cfr. Michele Dantini, Inchiesta su “patrimonio” e “sussidiarietà”. Retoriche, politiche, usi pubblicitari, in: ROARS, 9.11.2012, qui. Per una ricostruzione dell'”industria delle concessioni” cfr. Tomaso Montanari, Le pietre e il popolo, minimum fax, Roma 2013, p. 21 e ss. Sui luoghi comuni della “valorizzazione” cfr. Bruno Zanardi, Un patrimonio artistico senza, Skira, Milano 2013, p. 93 e ss. Cfr. anche, di Valentini, l’elusiva controreplica dal titolo Quelli che difendono le soprintendenze, in: la Repubblica, 12.3.2014, p. 56; e, a mo’ di parziale palinodia, L’archeologia rock, in: la Repubblica, 17.3.2014, p. 35.
[…] cultura dovrebbe essere il baluardo di una sfida identitaria”, vaticina Renzi in Stil novo[1]. Non è chiaro tuttavia se intenda porre giusta enfasi sull’importanza dell’istruzione o […]
Leggo sempre con interesse i suoi interventi.
Venendo a Renzi, quel che si intravede dietro discorsi, dichiarazioni, le citazioni da lei riportate a proposito dell’arte (che se e’ morta – cosa vorra’ dire?- non e’ arte ma storia dell’arte e non suscita emozioni) e’ sostanzialmente il suo credo non solo culturale ma politico. Il passato va rimosso – rottamato -, quando conviene, pero’. Il passato e’ d’intralcio – ma non sempre. C’e’ quindi passato e passato. Passato da lui utilizzabile e infatti utilizzato, senza problemi, disinvoltamente, perche’ gli rende, e passato, anche proprio, che non fa comodo e andrebbe percio’ dimenticato. Forse perche’ suscita persino troppe emozioni e fa riflettere, ma in una direzione diversa da quella voluta. Come appunto sull’organicita’ a certi ambienti, politici, culturali, di opinione, come lei ricordava. Ma questo stile non e’ soltanto suo. Che si voglia ripartire con una seconda tornata di ASN, senza lasciar tempo di riflessione, ubbidisce allo stesso principio di accantonare il passato, all’urgenza di un nuovo mondo. In cui le universita’, ad esempio, saranno privatizzate e forse nemmeno gradualmente. Come e’ successo in Finlandia, da dove vi scrivo.
Cos’è successo in Finlandia?
Riporto ciò che ho capito da quanto mi ha detto rapidamente un collega, al quale poi chiederò altri dettagli. Sapevo già che era successo qualcosa anni fa, ma soltanto superficialmente. Da un momento all’altro sono stati licenziati e poi riassunti, con contratti che non garantiscono la copertura sanitaria se non per un quarto. Non hanno rivalutato la carriera. Se uno si ammala seriamente, ci rimette la casa. I finanziamenti bisogna cercarseli, e allora lo stato contribuisce con un terzo. La morale: hanno sperimentato, come in un laboratorio, ciò che presumibilmente si estenderà ad altri paesi UE o anche solo E. Nel silenzio ed indifferenza generali.
Così si può capire a cosa serve tutta la strategia denigratoria ai danni dell’università, da consegnare, come sta già avvenendo, alla burocrazia soffocante, alle oligarchie accademiche che campano anche di burocrazia perché la creano e ne traggono benefici, ai processi valutativi lotteria.
@Marinella, che ringrazio dell’apprezzamento. Due brevi riflessioni in coda a quanto tu scrivi.
1_L’antiquaria nasce (o meglio rinasce in epoca moderna) proprio nel nostro paese. Disciplina di grande utilità, che si accompagna tuttavia alla svalutazione del presente. Questo pone oggi, a mio avviso, un problema di formazione storico-artistica e comporta una serie di difficoltà (ne ho scritto @
https://www.roars.it/come-cambia-la-storia-dellarte-mutazione-di-una-disciplina-tra-prima-e-terza-missione/
e anche @ http://www.left.it/2014/03/07/critica-cittadinanza-la-storia-dellarte-sui-media/15373/
2_L’enfasi sulla remuneratività a breve termine e la mancanza di distinzione tra filantropia culturale e no profit da un lato, sbrigative pratiche di commercializzazione dall’altro creano equivoci e distorsioni. Dovremmo fare attenzione a quanto intendiamo sostenere: ma è chiaro che l’industria del “pittoresco” (quale si pratica in larga parte adesso nel sottobosco delle “concessioni”), distaccata da istanze di qualificazione e responsabilità, senza connessioni con il mondo della ricerca, è per lo più incompatibile con obiettivi economici e civili.
Mi sembra agghiacciante. Ma non erano socialmente avanzati?
Ti aggiornerò tra qualche giorno, quando avrò informazioni più complete.
Ho letto un documento spaventoso: vi mando il link sperando che funzioni. E’ un progetto bello e buono di smantellamento dichiarato e programmato. University reform in Finland – Cimo
http://www.cimo.fi/instancedata/prime_product_julkaisu/cimo/embeds/cimowwwstructure/23947_University_reform_in_Finland.pdf
Sì, funziona. Credo che qualcuno, di quelli menzionati in Roars, abbia già tradotto alacremente, per far entrare nella mente della gente i sani principi mercantili. Sarebbe da divulgare. Grazie.
«Questo cartone fu la prima bella opera che Michelagniolo mostrò delle maravigliose sue virtù, e lo fece a gara cor uno altro che lo faceva, con Lionardo da Vinci, che avevano a servire per la sala del Consiglio del palazzo della Signoria. Rappresentavano quando Pisa fu presa dai Fiorentini, e il mirabil Lionardo da Vinci aveva preso per elezione di mostrare una battaglia di cavagli con certa presura di bandiere, tanto divinamente fatti quanto imaginar si possa. (…). Inmentre che gli stettero in piè furno la scuola del mondo».
A parlare così è Benvenuto Cellini, ne La vita, una delle più straordinarie autobiografie mai scritte.
Un microscopico, invisibile forellino (non pagato con soldi pubblici) fatto per svelare un mistero secolare (non certo un’invenzione di Dan Brown) è per l’autore di questo articolo una delle molte terribili colpe del Renzi. ‘Avrebbe dovuto chiedere agli esperti prima di muoversi’, scrive l’insigne studioso. Qualcuno pensa davvero che i burocrati avrebbero dato il loro assenso? E che gli studiosi convocati non avrebbero a lungo tergiversato al fine di godersi immeritati 15 minuti di notorietà, prima di dire no, non si può?
La “seria politica culturale” a cui fa riferimento l’estensore di questo articolo (non nuovissimo, né originale, per la verità) immagino sia quella dei ministeriali ignari della storia che sono riusciti persino a far declassare la più antica biblioteca pubblica della storia? Gli stessi che dal 1998 preferiscono impalcature ormai arrugginite alla pensilina di Isozaki, o a qualsiasi altra diversa soluzione.
@autographa. La tua replica pseudonima, purtroppo scientificamente trascurabile per gli esausti argomenti addotti, ha tuttavia un pregio, sia pure preterintenzionale e indiretto. Dimostra cioè quanto sia difficile districarsi, nelle attuali polemiche sul patrimonio, tra paladini dell’uno o dell’altro campo, “collaboratori fugaci e modesti” (suppongo tu sia parte della schiera) e fervidi oppositori. Occorrerebbe tuttavia porre su basi terze, di strategia politico-industriale, l’argomentazione politico-culturale. Quella seria appunto. Non quella plebiscitaria. I miei più cari saluti MD
ps. Il mio sostegno al progetto di Isozaki è da tempo pubblico.
Che sia questa una delle ragioni per le quali le impalcature sono ancora li a far oscena mostra di se?
Commento al teschio, morale della favola: non si rottamano nemmeno i teschi se ricoperti di diamanti, tanto meno le persone di una certa eta’ se ricche (ricoprono di danaro le bisognose) e potenti – il resto e’ irrilevante, non ci turiamo il naso per cosi’ poco. Comunque, e’ in atto un ripensamento da parte di Renzi sulla rottamazione, D’Alema e stato graziato, seguiranno altri, se utili. Quanto ai forellini invisibili (un sindaco fiorentino si puo permettere questo e altro) altro che opere d’arte: ne fara’ fare di fori nella spesa per la sanita’ ecc.
Aggiungiamo pure questa notizia. Senza necessità di commento.
[…] costituisce una lesione del diritto, almeno un’inopportunità (ne ho accennato qui, ricostruendo il contesto). Ma è probabile che le retoriche della denuncia adottate da chi scrive […]