Lo stato quasi cadaverico dell’università è contestuale al generale declino della società italiana. In fondo che ce ne dobbiamo fare dei laureati con le belle spiagge che abbiamo, con i tanti monumenti e luoghi d’arte? Bagnini, guide turistiche, camerieri, albergatori, cuochi, chef, venditori di souvenir: ecco quello di cui abbisogniamo, non ingegneri, filosofi e archeologi. No, non è più questa l’università dei nostri sogni, nella quale avevamo deciso di investire la nostra vita. Ma se tale stato d’animo scaturisce dalla sfera dei sentimenti privati, non siamo affatto rassegnati e vogliamo fino in fondo esercitare il nostro impegno civile. Abbiamo iniziato, qui con Roars, in pochi e senza mezzi, ma abbiamo ingaggiato una battaglia a tutto campo, dando filo da torcere ai volenterosi becchini dell’università. E se si profilerà una seppur minima possibilità di salvezza la additeremo a chi avrà testa e determinazione per afferrarla. Corvo rosso, non avrai il nostro scalpo!
Lo stato d’animo di chi ormai si trova a vivere le quotidiane vicende dell’università assomiglia a quella condizione di luttuosa predisposizione d’animo propria di chi ha anziani genitori sempre più in precaria salute e la cui scomparsa viene letta, giorno dopo giorno, nei sintomi sempre più fitti e inequivocabili di un fine vita: ci si prefigura l’evento fatale, ad esso si cerca di abituarsi, si dice a se stessi che è comunque un episodio della vita e così si tenta di attenuare la disperazione che verrà comunque inevitabile: ci si sforza di convivere con essa, di farsene una ragione, di continuare comunque le proprie attività e incombenze, di guardare avanti ad altre ragioni di speranza.
Così, prossimi nello stato d’animo a questa condizione, molti di noi avvertono ormai la propria condizione all’università. No, non è più questo il luogo che avevamo sognato quando, ancora giovani, vedevamo in essa la sede della cultura e della ricerca, dove potersi dedicare secondo il proprio talento ai propri interessi e curiosità intellettuali, fiduciosi che comunque l’innovazione e la creatività dovessero scaturire dalle proprie capacità e dall’amore per la scienza. Non a comando, per fare carriera o redigere un formulario. Il luogo in cui era possibile stare a pensare, leggere, indagare, riflettere e magari poi scrivere, quando ci si sentiva in grado, quando si era convinti di avere qualcosa di autenticamente nuovo da dire, perché la ricerca e la scoperta sono frutto innanzi tutto della passione. Non di una imposizione burocratica, necessaria per essere valutati.
Ci piaceva stare a discutere con i colleghi, senza preoccuparci del prossimo modulo da riempire. Ci era possibile organizzare un seminario con lo studioso che magari veniva per un’altra occasione, senza doverlo programmare con mesi di anticipo – così come ora pretenderebbero i burocrati – in tal modo cogliendo l’occasione al volo per una proficua discussione in cui coinvolgere gli studenti. Senza doverli precettare con la concessione dei crediti formativi.
Ed era una università in cui il riconoscimento di maestri indiscussi per autorità e dottrina e lo stare a sentirli, il seguirli, l’essere da essi apprezzati e incoraggiati a studiare, vincere grazie al loro aiuto una borsa di studio e magari intraprendere una carriera di ricerca, era visto come la quintessenza della trasmissione del sapere, della formazione delle scuole di pensiero, come il modo normale in cui la scienza viene trasmessa e si riproduce. Non come l’abuso clientelare del potere baronale, come oggi accade in una opinione pubblica, colta e incolta, per la quale l’attitudine alla ricerca dovrebbe essere accertata allo stesso modo in cui si testano le capacità di espletare una pratica in un ufficio postale.
Ora questa università sta per morire: l’hanno uccisa i “maestrini del pensiero” che non hanno curato più la ricerca, ma gli interessi familistici, in sintonia con un generale degrado della vita pubblica italiana in cui ciascuno pensa di grattare quanto più possibile, di acquisire quanti più privilegi, di sistemare quanti più clientes, perché ciò testimonia del proprio potere e lo accresce ulteriormente; la stanno uccidendo gli zelanti esecutori di una volontà di sorveglianza totale che non risponde alle esigenze della ricerca ma solo alla voglia del ceto politico di controllare e imbrigliare quella residuale libertà di pensiero, che ha nell’università la sua ultima roccaforte, e per il quale è più profittevole spendere denaro per una sagra del carciofo piuttosto che per una ricerca sulle scuole neoplatoniche del medioevo; la stanno uccidendo certi colleghi universitari che, abusando degli strumenti bibliometrici e servendosi come di un braccio armato dell’Anvur, pensano – persino in buona fede – di dare una “raddrizzata” alla qualità della ricerca e non si avvedono che per molti si è invece presentata semplicemente l’occasione per sistemare vecchi conti di potere accademico, per scalare posizioni prima precluse, per acquisire nuove prebende; la stanno uccidendo tutti i burocrati che all’università stanno ormai prendendo la loro vendetta storica contro docenti prima onnipotenti e adesso ridotti a smarrite e umbratili figure che – privi di ogni potestà di decisione e di autogoverno democratico – elemosinano ciò che dovrebbe esser loro garantito normalmente, ridotti a sudditi di un meccanismo autocratico che ha conosciuto un accentramento di potere (con la legge Gelmini) che la vecchia università dei “baroni” nemmeno si sognava.
E tutto ciò sta avvenendo nell’indifferenza del potere politico e nella acquiescenza dei grandi mezzi di comunicazione di massa, disinteressati alle grida di allarme, insensibili alle ragionevoli proteste avanzate da più parti e invece assai attenti alle solite analisi che vengono portate avanti da personaggi ormai squalificati, sbugiardati più volte pubblicamente. Ma che tuttavia hanno grande prestigio e sono costantemente presenti nei talk show e nella grande stampa.
Non è facile far fronte allo scoramento, continuare a lavorare in questa università, testimoniare con scritti e parole il proprio dissenso motivandolo con fondate argomentazioni (così come ormai da anni facciamo su Roars), quando si avverte di aver di fronte quasi un muro di gomma, di essere una “vox clamans in deserto”, di aver di fronte un grande meccanismo per il quale si è meno di un granello di sabbia che si infiltra nei suoi ingranaggi.
Ma poi amaramente ci si “consola” riflettendo sul fatto che lo stato quasi cadaverico dell’università è contestuale al generale declino della società italiana, al trasformarsi della politica in palcoscenico; e la sua possibile scomparsa non deve stupire, perché è il corrispettivo del degrado del sistema industriale italiano, ormai sempre meno competitivo e innovativo e quindi non bisognoso di talenti, di giovani creativi, di alta qualità umana, di un’alta percentuale di laureati. Ci bastano e avanzano quelli che abbiamo – si sente dire in giro. In fondo che ce ne dobbiamo fare con le belle spiagge che abbiamo, con i tanti monumenti e luoghi d’arte? Bagnini, guide turistiche, camerieri, albergatori, cuochi, chef, venditori di souvenir: ecco quello di cui abbisogniamo, non ingegneri, filosofi e archeologi. E se Pompei cade a pezzi, non è forse meglio affidarne il restauro a una grande fondazione straniera che investe in cultura? E che magari non solo non ruberà, ma ha persino assunto gli ultimi nostri archeologi e storici dell’arte formatisi nei nostri corsi di laurea resistenti, prima della loro chiusura per manifesta inutilità e mancanza di personale docente.
No, non è più questa l’università dei nostri sogni, nella quale avevamo deciso di investire la nostra vita. Da essa viene voglia di congedarsi con la mente e col cuore, espellendola dal nostro orizzonte di vita, per dedicare le residue forze creative alle ultime ricerche che si possono ancora fare in libertà (magari “approfittando” della nostra condizione “baronale”). Al Moloch dell’istituzione universitaria e ai suoi burocrati possiamo solo conferire la nostra esteriore e rassegnata ubbidienza alle formalità amministrative, il nostro docile adempimento dei doveri accademici. Non certo più la nostra anima.
Ma se tale stato d’animo scaturisce dalla sfera dei sentimenti privati e conduce a quel giusto distacco, a quel non-attaccamento che è la condizione della saggezza, esso tuttavia non prelude all’inanità e all’indifferenza, perché ancora il cadavere non è stato composto, né inumato; ed ecco allora che contro chi sta perpetrando tanti disastri non siamo affatto rassegnati e vogliamo fino in fondo esercitare il nostro impegno civile. Abbiamo iniziato, qui con Roars, in pochi e senza mezzi, ma abbiamo ingaggiato una battaglia a tutto campo, dando filo da torcere ai volenterosi becchini dell’università. Se proprio non riusciremo ad evitare che la nave si infranga sugli scogli, i timonieri dell’apocalisse, grazie a noi, rimarranno inchiodati alle loro responsabilità, per sempre. E se si profilerà una seppur minima possibilità di salvezza la additeremo a chi avrà testa e determinazione per afferrarla.
Corvo rosso, non avrai il nostro scalpo!
segnalo questo articolo del corriere.it
http://bergamo.corriere.it/notizie/cronaca/14_giugno_21/yara-ricercatrice-svolta-ha-lavorato-gratis-3ba9829c-f90e-11e3-b86c-bac0e6d7d70d.shtml
adesso avete capito che l’urgenza è quella dei ricercatori precari, per i quali occorre fare un piano di assunzione straordinario (anche reintroducendo, se possibile la terza fascia)?
Non mi importa se un associato è arrabbiato perché non ha preso l’ASN, non mi importa se un ric. a t. ind. non ha preso l’ASN, tutti e due hanno lo stipendio, il ric. precario no, e non lo avrà mai.
oppure sono io che dico stupidaggini?
c’è qualcuno che ancora crede che l’urgenza sia l’ASN?
grazie,
ciao,
anto
Certo che stabilizzare la ASN è estremamente urgente, è in assoluto la cosa più urgente, l’anello fondamentale del sistema, visto che regola l’ingresso in ruolo in entrambe le fasce di docenza attualmente esistenti. Ciò non toglie che, contemporaneamente, si possano varare i necessari piani straordinari di assunzione di ricercatori di tipo a) e b). Sono leggermente meno urgenti, ma prima o poi occorrerà farne e farne seriamente.
Ho fatto il “ricercatore” precario dal 1991 al 2009: 18 anni!! Ma ho sempre guadagnato dignitosamente integrando con la didattica a contratto.
Lavorare gratis per me non esiste. E non ho molta stima di chi propone ad un altro di lavorare gratis.
Il mio massimo reddito annuale lordo l’ho avuto l’anno prima di diventare PA. Poi sono sempre andato il calando.
Spero di recuperare con la “ricostruzione della carriera” ma la vedo molto dura: gli amministrativi hanno l’ordine di “non permettere il riscatto” nei casi dubbi (che per loro sono quasi tutti).
In altre parole: e’ una giungla a tutti i livelli e quindi
fratres, sobrii estote et vigilate !!
@Luca Salasnich, veramente ammirevole, sei uno tosto, un esempio da seguire per chi pensa di mollare tutto, anche se il precariato ultimamente ha preso connotati più drammatici ed il lavorare gratis per qualche periodo (quindi fare ricerca, quindi esperimenti, articoli, brevetti, convegni) è nella normalità del momento. Ora la didattica a contratto ti arricchisce solo di espedienti e soddisfazioni, altro che arrotondare!!!
@Anto, sono con te,
capisco cosa significa fare ricerca ad alti livelli e nel contempo pensare a quando ti scadrà il contratto, la borsa o l’assegno o, se ti è già scaduto, a quando potranno rinnovartelo. Per non parlare poi di lavori e lavoretti che sei obbligato a fare per poterti nel frattempo sostenere per fare quello che più ti piace e per cui hai lavorato tanto: La Ricerca.
La ricercatrice di cui parla l’articolo del tuo link ha avuto prima di tutto il talento ma poi anche la fortuna di portare indirettamente il suo caso alla ribalta dei media nazionali. Molti ricercatori precari talentuosi, purtroppo non potranno avere la sua stessa opportunità, tuttavia hanno il curriculum che certifica il loro talento e quanto hanno fatto e stanno facendo per le università ed i centri di ricerca in cui lavorano, anche gratis per molti giorni dell’anno.
Quindi, se la priorità è la ricerca e la didattica in un sistema meritocratito, bisogna promuovere e mettere a disposizione le esigue risorse per un piano straordinario di assunzione di ricercatori (anche reintroducendo la terza fascia) della “generazione mai” dotati di curriculum che hanno conseguito in tanti anni di sacrifici e di ingiusto precariato (il reclutamento può benissimo essere fatto usando parametri bibliometrici, così cari all’ANVUR)
L’Italia è il Paese dei maestri delle pacche sulle spalle e ultimamente dello “stai sereno”, ma quelle stesse persone difficilmente comprendono gli immani sacrifici di chi è fuori, perché magari quelle persone hanno usufruito dell’ ope legis, illo tempore, https://www.roars.it/tag/ope-legis/ o che a carriera inoltrata fanno le “Comari del Paesino” di De Andrè.
L’alternativa a piani di reclutamento di questo tipo è che la ricercatrice precaria del caso Yara tra qualche mese vada a fare: “Bagnini, guide turistiche, camerieri, albergatori, cuochi, chef, venditori di souvenir”(@Francesco Coniglione).
Allora vi chiedo, un “sistema sano”, per usare le stesse parole del Ministro, cosa dovrebbe fare prima o più celermente, dare stabilità e stesse garanzie e opportunità a TUTTI i meritevoli o premiare con avanzamenti di carriera TANTI meritevoli??
Se lo scopo è quello di ridimensionare l’università, il primo passo è sbarrare gli accessi. I pensionamenti fanno il resto. È del tutto ragionevole e urgente provvedere al ricambio generazionale, a patto che si creda nell’utilità dell’istruzione e della ricerca. Ci sono segnali chiari che non ci si crede, ma anzi che si ritiene virtuoso avere una percentuale di laureati inferiore alla Turchia (che ci crede e sta salendo). Fino a quando non si riesce a convincere l’opinione pubblica che questo disinvestimento, lungi dal costituire un virtuoso risparmio, ci sta conducendo al baratro, tutti gli appelli a favore della generazione perduta saranno parole al vento. La condanna dei precari da qui al 2020 è già stata emessa ed è scolpita nel seguente grafico. Relativamente alla percentuale dei laureati nel 2020, l’obiettivo italiano è il più basso in Europa, ma da come stanno andando le cose (calo degli immatricolati) non riusciremo nemmeno a raggiungerlo.

https://www.roars.it/laureati-italia-ultima-in-europa-obiettivo-2020-aggravare-il-distacco/
Avete letto il documento del CUN “Analisi_e_proposte del 11/06/2014”?
Ripensare l’assetto della docenza universitaria: I. L’accesso al ruolo
https://www.cun.it/uploads/5088/Assetto_Docenza_Universitaria_CapitoloI.pdf?v=
Purtroppo l’olio di ricino del blocco stipendiale e del turnover è stato somministrato a tutto il comparto pubblico, senza distinzioni.
Ma anche senza una vera urgenza, perlomeno motivata da un eccesso di spesa per i dipendenti pubblici che in Italia sarebbe intollerabile.
Se si guardano i numeri, è un luogo comune anche quello, perché la spesa per il pubblico impiego da noi è l’11% del PIL, ponendoci al 7° posto in Europa, superati da Danimarca (19%), Svezia, Finlandia, Francia, Belgio, Spagna e Regno Unito. Non solo, mentre la spesa in quei paesi e in quelli che ci seguono è in aumento, da noi è in calo netto.
Abbiamo i dipendenti pubblici mediamente più anziani di tutti, e ne abbiamo 58 ogni mille abitanti, contro i 135 della Svezia, i 94 della Francia, i 65 della Spagna e i 92 del Regno Unito.
Se poi andiamo a vedere il numero dei dipendenti pubblici per area, risulta che gli universitari sono appena il 3,4% di tutti i dipendenti pubblici, che sono maggiormente concentrati nella Scuola, nella Sanità e nelle Regioni/Enti (i Ministeri invece non sono lontani da noi).
La politica dei tagli non può quindi reggersi su argomenti che riguardano emergenze non reali della spesa pubblica.
Andando a vedere i numeri della spesa pubblica, si vede che una delle vere urgenze sono gli interessi che paghiamo sul debito pubblico, questi sì superiori alla media europea.
Ci si chiede dunque ancora di più perché penalizzare in questo modo il pubblico e in particolare l’Università.
Per rispondere ad anto: il “mors tua vita mea”, in queste condizioni peraltro, non è una strategia utile, ma serve chiedere più risorse per tutti, per chi deve entrare e per chi deve andare avanti, coesi e a ragione.
@c_s,
letto al tuo link,
ma è proprio questo il punto, si cammina ancora sul solco sbagliato.
L’impalcatura generale della riforma Gelmini dal punto di vista teorico non fa una piega (non parlo delle modalità di svolgimento dell’ASN) ma altra cosa è la pratica poiché, a mio parere, è sbagliato il momento storico in cui essa è calata (forse calata adesso per velare ben altri fini).
La formula RTD vs PA andava e andrà bene, speriamo, in periodi di opulenza dove bene o male si può garantire a tanti il RTD ma ancor di più il successivo PA per molti di loro meritevoli, assorbendo nel contempo rapidamente gli attuali RTI. Va però rilevato che in un forte periodo di regressione, quale quello che è stato e che per certi versi ancora lo è, tale sistema distrugge il ricambio generazionale, ma più che altro annienta tale ricambio in un quadro meritocratico, diventando così un infido reset generazionale apparentemente volto solo al risparmio e prevedendo il salvataggio solo di pochi eletti.
Se questo era l’intendo principale, sta per essere raggiunto in pieno…
Se una famiglia (università) ha il reddito basso, difficilmente adotta altri figli, anche se bisognosi (sta per meritevoli), tanto più se per forza di cose questi consumano molto di più dei figli naturali (RTI); inoltre gli “adottivi” andrebbero ad assumere ranghi superiori di molti “naturali” quindi i genitori se ne guardano bene da perturbare la quiete familiare. Poi potrai anche obbligare la famiglia ad adottarli, ma in questo modo non faranno mai parte di essa.
Al contrario, in un periodo di transizione e di scarse risorse, quale quello attuale, queste persone (dotate di curriculum) occorra che rientrino, attraverso un opportuno sistema di selezione nazionale (tipo ASNjunior, intanto potrebbero entrare gli idonei delle attuali ASN), con un ruolo che li ponga al pari degli attuali RTI garantendo loro un minimo di vita dignitosa e serena e un inizio di carriera dall’interno.
La guerra dei grafici (cara a molti di voi), rispetto alla formazione universitaria e alla Ricerca di altri Paesi, non si vince promuovendo gli attuali soldati a tenenti e gli attuali tenenti a generali (o almeno non solo) e punendo magari chi è stato arruolato in precedenza ma non sa combattere o ha poca attitudine alla guerra o non pensava che un giorno qualcuno gli contasse le medaglie. Le guerre si vincono arruolando nuovi soldati, magari soldati che hanno già dimostrato di saper combattere e combattere bene. Altrimenti si avrà che il Paese si scoraggia vedendo i suoi soldati andar via e nessuno crede più nel suo esercito e credendolo perdente non lo ritiene più meritevole di finanziamento. Ma non è tutto, questi potenziali soldati sono quindi costretti fare i mercenari all’estero rimpinguando gli altri eserciti ed ecco lo sprofondamento nella guerra dei grafici.
In ogni caso i soldati nuovi e vecchi andrebbero anche armati con armi tecnologicamente avanzate, quindi un sostanziale investimento in tal senso andrebbe contemporaneamente affrontato.
intervento perfetto. bisogna ripetere e ripetere ogni parola.
bisogna fare capire che contestare l’anvur non è andare contro a modelli internazionali.
complimenti, sono con te.
@Marc
parzialmente condivisibile, infatti, ora
domando: “sarebbe uscito l’articolo che ho linkato, se l’abbinamento con il presunto colpevole l’avesse fatto un ordinario o un associato?
risposta mia: “assolutamente no, essi già sono stipendiati, lo scandalo è che proviene da una (bravissima)non stipendiata”.
e la vostra risposta quale sarebbe?
grazie,
anto
Condivido tutto, spirito compreso!
Ammazza che ottimismo.
@basta:
grazie per la comprensione, spero anche altri possano capire l’urgenza di chi, molto titolato, non ha di che mangiare e smetterla con i piagnistei di chi ha già lo stipendio
Riporto, col suo permesso, il commento inviatomi da Gereon Wolters, professore di filosofia all’università di Costanza (Germania), perché mi pare interessante.
«La situazione mi sembra particolarmente tragica perché in Italia tanto genio e tanta prontezza al lavoro individuali vengono frenati e ostacolati da una burocrazia e da una politica, interessata solo ai propri guadagni e al potere. In un certo senso l’“enrichissez-vous” sembra la norma che guida la politica in generale e quella dell’università e della ricerca in particolare. Purtroppo, possiamo vedere gli inizi di un tale sviluppo anche da queste parti. Il modello bancario con i premi nel 2005 ha rimpiazzato gli scatti d’anzianità nel salario professorale nelle università tedesche. Il personale dei rettorati si è aumentato lo stipendio in modo sproporzionato. Adesso siamo fieri d’avere qui a Costanza reparti “comunicazione e marketing”, “quality management” e “controlling”. I rettori si sono aumentato molto il loro stipendio. Il miglior pagato nella Renania settentrionale-Vestfalia (degli altri Länder non si sa), il rettore del politecnico di Aquisgrana, nel 2006 prendeva 109 601€ lordi, nel nel 2013 erano ca. 50% di più: 152 528€ lordi, mentre gli stipendi dei professori (e degli statali in genere) non si sono mossi molto. È ovviamente niente paragonato agli “uomini d’oro” del direttivo ANVUR, è indicativo però per un trend. Spero che non si rinforzi. Secondo me è un disastro che nel settore universitario la gente aspiri a un posto per i soldi. Noi siamo diventati professori non per lo stipendio, ma per l’amore per la scienza. Certo, uno stipendio decente ci vuole e c’era. Non era però il nostro primo motivo. Altrimenti avremmo dovuto lavorare nel settore bancario o simile. Per fortuna non abbiamo ancora raggiunto da queste parti il livello italiano e spero di cuore che con la crisi finanziaria cominci anche il declino dell’ideologia dietro quasi tutte queste “riforme”: il neoliberalismo tipo anglosassone. Per fortuna qua non c’è anche un’istituzione come l’ANVUR e sono abbastanza sicuro che non arriverà. Però, non si sa mai.».