La pubblicazione, da parte dell’ANVUR (Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca), delle Linee Guida per l’Accreditamento periodico delle sedi e dei corsi di studio è l’ultimo episodio di una strategia di distruzione dell’Università per via burocratica che lascia davvero sconcertati. Si tratta di un documento di 57 pagine, che in nome della onnipresente esigenza di Assicurazione della Qualità rovescia sugli addetti ai lavori l’ennesimo diluvio di indicazioni, tabelle e algoritmi che paiono usciti da un testo di astrologia: l’intera vita accademica viene tradotta e stravolta, ancora una volta, in adempimenti, requisiti, misurazioni, riunioni, valutazioni, raccomandazioni, incontri, indicatori, redazioni, programmazioni, colloqui, descrizioni, dichiarazioni. Il fatto che le Linee Guida vengano presentate semplicemente come «una raccolta di informazioni» utili alla riflessione dei singoli Atenei «sul livello di sviluppo raggiunto dal proprio sistema di Assicurazione della Qualità» e che si preveda un accreditamento periodico solo a campione non migliora le cose: specularmente si leggono gli obblighi che diventano a questo punto ineludibili, alcuni dei quali fatti scivolare nel testo come se fossero una cosa ovvia (a pagina 6, per esempio, scopriamo per la prima volta che gli Atenei devono esercitare «una azione continua di formazione dei responsabili dei Corsi di Studio» e tremiamo al solo pensiero dei possibili contenuti e dei misteriosi docenti ai quali sarà affidata questa sorta di “rieducazione” permanente).
Il documento è sconcertante non perché finora le indicazioni in proposito abbiano avuto un orientamento molto diverso, ma perché qui tutto si trova moltiplicato ed esasperato, fino al punto che sono indicati giorni della settimana e orari in cui i membri della CEV (Commissione Esperti per la Valutazione) devono svolgere i loro incontri, perfino privati. Se il testo non fosse stato pubblicato sul sito istituzionale dell’ANVUR si potrebbe davvero credere di essere di fronte ad una parodia. Tanto più che ciò avviene sotto un governo che ha considerato come priorità la «lotta alla burocratizzazione» e che proprio l’attuale responsabile dell’Università ha dichiarato il 1º aprile 2014 davanti alla VII Commissione Permanente del Senato (non tra quattro amici al bar) che con l’ANVUR «invece di semplificare, abbiamo complicato» e che bisogna operare «una semplificazione normativa sui meccanismi di accreditamento didattico di ogni ciclo». Pure autorevoli componenti dell’ANVUR si sono espressi in questo senso. Allora delle due l’una: o quella che leggiamo è una versione già semplificata (e inorridiamo nell’immaginare come potesse essere quella originaria: forse era indicato anche il menù settimanale per gli Esperti della Valutazione, in fondo anche Glenn Gould sceglieva il pasto a seconda del capolavoro che doveva interpretare); oppure l’Università italiana è ormai governata da ignoti, sottratti ad ogni indirizzo, controllo, valutazione.
Non abbiamo paura di lavorare di più. E soprattutto – ci teniamo a sottolinearlo a scanso di equivoci – non abbiamo paura di essere valutati, giudicati e controllati. È giusto che i professori universitari siano premiati quando operano bene e siano puniti e, nei casi estremi, perfino cacciati quando si sottraggono ai loro doveri verso gli studenti e verso la comunità scientifica alla quale appartengono. Così come dovrebbe accadere per tutti coloro che hanno la responsabilità e l’onore di lavorare per il bene comune, ricevendo per questo uno stipendio dallo Stato. Rifiutiamo però – e siamo ormai pronti a farlo fino a prendere la strada di una vera e propria disobbedienza civile – di accettare l’idea che questi obiettivi siano raggiungibili solo trasformando la burocrazia accademica in un mostro che divora le passioni e le energie di chi cerca ogni giorno di fare il proprio dovere e lascia paradossalmente indisturbati tutti gli altri. Parliamo di macigni che hanno trasformato in una frustrante corsa ad ostacoli la nostra vita quotidiana:
― occupazioni che tolgono spazio al nostro vero lavoro e ci trasformano in passacarte che non hanno più tempo e voglia neppure di parlare con gli studenti (e ancor meno fra di noi);
― adempimenti che sono, per ammissione universale, perfettamente inutili e inducono a continui falsi ideologici, consistendo, in buona parte, nelle redazione di documenti in cui si parla di riunioni immaginarie con discussioni immaginarie su argomenti immaginari;
― una mentalità che è la filigrana di queste normative e che rivela una sistematica sfiducia nei confronti delle Università, presentate all’opinione pubblica come istituzioni che devono continuamente dimostrare di non essere associazioni a delinquere dedite alla circonvenzione di incapaci;
― la mortificazione dell’autonomia universitaria tramite una regolamentazione nevrotico-ossessiva che rende sempre più difficile l’invenzione, la sperimentazione, l’interdisciplinarità, non per ultimo per l’anticipo spropositato con cui ogni sia pur minima novità va programmata.
Ci permettiamo anche di aggiungere che è inammissibile che documenti che pretendono di promuovere la qualità dell’Università siano scritti in un italiano stentato, pieno di barbarismi, con perle come «la CEV, può proporre all’ANVUR», «La CEV deve riunirsi […] per allineare [?] tutti i componenti sull’andamento della visita» (p. 12), «discussione sulle evidenze [?] della giornata» (p. 13 e altrove), «ex-alumni» (p. 13), «Se dopo tale tempo, le criticità permangono» (p. 15), «nota da tutti docenti » (p. 46), «gli eventuali altre strutture» (p. 49 e 51), «il numero di ore […] sono adeguate» (p. 56). Che lingua è? E nessuno si è accorto di quanto sia offensivo spiegare: «La CEV marca a destra la casella della riga prescelta» (p. 20 e poi molte altre volte)? Che cosa sono, le istruzioni per un bonobo? Abbiamo un minimo di dignità e non accettiamo di farci valutare con regole elaborate da qualcuno che riceverebbe probabilmente Obblighi Formativi Aggiuntivi (OFA) in lingua italiana in qualsiasi prova di ammissione all’Università e che tratta pure gli «Esperti» come docili esecutori. Si dirà certamente che queste sviste vanno attribuite agli “uffici” e che non si può pretendere che i colleghi del Direttivo dell’ANVUR si preoccupino di tali quisquilie. Noi pensiamo che la trascuratezza della forma trasmetta sempre un brutto segnale sulla qualità complessiva del percorso di elaborazione di un testo, soprattutto quando si tratta di un testo così importante.
Potremmo continuare a lungo, ma preferiamo per chiarezza giungere subito alla conclusione. La pubblicazione delle Linee Guida per l’Accreditamento periodico delle sedi e dei corsi di studio ha reso ormai definitivamente chiaro che nessuno può farsi illusioni sul sistema AVA, inaugurato con Decreto Ministeriale del 28 gennaio 2013. In campo non vi sono opzioni diverse su singoli problemi, ma due modelli di Università, diversi e inconciliabili: da una parte c’è un’Università libera e autonoma, valutata da agenzie indipendenti e anzitutto dagli studenti, fatta di insegnamento e di ricerca, in cui si suppone che le cose siano fatte bene a meno che consti il contrario; dall’altra c’è l’Università sotto il totale controllo delle burocrazie ministeriali, fatta di docenti trasformati a loro volta in burocrati, di commissioni e carte, con l’ossessione della «misurazione», in cui si suppone che le cose siano fatte male a meno che non si riesca a dimostrare il contrario. Bisogna scegliere da che parte stare.
Chiediamo per questo a tutte le colleghe e i colleghi di prendere atto che è arrivato il momento di metterci la faccia, non lamentandosi nei corridoi o intorno al tavolo di una cena fra amici, ma dicendo a voce alta che d’ora innanzi rifiuteranno la loro collaborazione per tutti gli adempimenti previsti dal sistema AVA (Autovalutazione, Valutazione periodica, Accreditamento), garantendo solo ciò che è indispensabile per non danneggiare i loro studenti. Noi lo faremo e speriamo di non restare soli. Chiediamo al CUN e alla Conferenza dei Rettori di rinunciare finalmente all’illusione di poter salvare l’Università con documenti che negli ultimi tempi hanno dimostrato la disponibilità ad un ravvedimento operoso rispetto a troppe complicità del passato e che tuttavia non producono nessun effetto. Facciano quello che la politica oggi ci sollecita a fare: chiedano prove concrete di un cambiamento radicale di rotta (a partire dal ritiro del Decreto Ministeriale del 28 gennaio 2013 con cui è stato istituito il sistema AVA) in tempi brevissimi e si dimettano in blocco se non accadrà niente. Chiediamo al Ministro e al Presidente del Consiglio, che non ne parla mai, di considerare che l’Italia non cambierà verso se non cambierà verso la nostra Università. Il Ministro riconosce che l’ANVUR ha in molti casi creato ostacoli anziché aiutare il sistema a guadagnare trasparenza ed efficienza? Cambi verso all’ANVUR, naturalmente senza buttare il bambino con l’acqua sporca. Il Presidente Renzi vuole prendere a picconate l’ipertrofia burocratica che genera frustrazione e spreco di risorse? Prometta che ridurrà dell’80 per cento il volume delle norme e degli adempimenti che uccidono l’Università e che sono stati purtroppo pensati con il contributo proprio di alcuni professori universitari, che in buona fede hanno fatto alcune cose buone e, purtroppo, molti errori. E lo faccia davvero. Siamo pronti a dimostrare che il 20 per cento di ciò che è stato fatto basta e avanza per stanare i fannulloni, valorizzare la buona ricerca, colpire davvero gli assenteisti e chiudere i corsi di laurea che “vendono” agli studenti quel che non hanno. Nel frattempo, si restituisca qualcosa anche all’Università. In troppe aule sono rimasti ormai solo gli studenti. E pareti e tetti non sono spesso in condizioni migliori di quelli delle nostre scuole.
Grazie Giovanni e Stefano(mi si perdoni l’entusiastico eccesso di confidenza). Finalmente!
C’è, a vostro giudizio, spazio per una protesta organica che possa incontrare un consenso ampio?
A disposizione…
Alla pagina https://www.roars.it/al-governo-e-allanvur-ora-basta/ è stato pubblicato il seguito. C’è la presa di posizione del nostro corso di laurea e una proposta per tutti gli altri. Siamo certi che presto saremo in ampia compagnia.
Grazie dell’articolo. L’ho segnalato al mio Ateneo di appartenenza.
“azione continua di formazione dei responsabili dei Corsi di Studio”
E’ chiaro che quest’aggiornamento è necessario: altrimenti come fare a seguire le circolari e i decreti che escono con cadenza mensile scritti in italiano approssimativo e giuridicamente abborracciati?
Per essere giusti, però, aggiungerei anche una unità di supporto psicologico e il riconoscimento della depressione come malattia professionale per i presidenti dei CdS.
Avevo già avuto occasione di leggere una “lettera aperta”, se non ricordo male, all’allora misistro Profumo (o già Carrozza?) da parte del Collega Salmeri sul “caos burocratico” e definitivo in cui si era gettata l’università italiana con l’introduzione della Riforma Gelmini, un misto tra restaurazione e velleitarismo moralistico, rafforzato dalla falange dell’ANVUR e poi dal decreto AVA dello scorso gennaio 2013 e avevo molto apprezzato e condiviso la sua lucida analisi.
Con questo nuovo intervento relativo alle “fresche” Linee Guida per l’Accreditamento periodico…non posso che tornare a pienamente condividere le riflessioni svolte e le conclusioni a cui Salmeri e Semplici richiamano la comunità accademica.
Ho definito più volte e pubblicamente “aritmocrazia” l’attuale politica perseguita dal Ministero e dall’ANVUR, una sorta di biopolitica antivitale, in cui il modello quantitativo, privo di senso, è volto a misurare e giustificare secondo l’ordine del numero, ogni necessaria “azione spontanea” della vita universitaria: un manuale che scompone ogni atto e che si riduce alla misurazione di come e perché scendere le scale, o come e perché si è pensato di fare un respiro profondo prima di aprir bocca…!
La valutazione è ben altra cosa: si chieda, ad esempio, alla fine di un triennio programmato, quali sono i risultati, didattici e di ricerca, prodotti da una Struttura o da un Corso di Studi. Vengano i CEV a vedere se e come si lavora, s’insegna o si fa ricerca. Si richieda ai professori di studiare di più, di più insegnare, di più trasmettere, in effettivo dialogo con gli studenti, le conoscenze che si hanno e che debbono costantemente approfondirsi, svilupparsi, modificarsi. Ma la si smetta di sfinire chi deve impegnarsi nello studio, nella didattica e nella ricerca, col richiedere continue giustificazioni su compiti e funzioni che con lo studio, la didattica e la ricerca nulla hanno a che vedere.
A meno che, come da più parti già adombrato, l’unico vero obiettivo di un simile assurdo modo di procedere non nasconda la volontà di produrre condizioni “suicidiarie”, come il titolo dell’intervento di Salmeri e Semplici lascia intendere, affinché, alla fine, si possa apostrofare con dito vindice e in presunto candore, quando ci si ritroverà esangui: <<Avete visto come siete ridotti? Spiacenti, ma in questa condizioni non vale la pena che continuiate a vivere".
paolomasullo
Grazie dell’articolo che esprime in modo esplicito le difficoltà che molti di noi , facenti parte delle varie Commissioni di Autovalutazione, stanno vivendo ormai da troppo tempo. Sono d’accordo con il collega Felici sulla proposta di una sorta di petizione da far arrivare al Ministro dell’Università affinché se ne faccia carico.
Chiudere l’anvur, destinare i soldi così risparmiati a giovani ricercatori.
Chi si ribellerà? una visione pessimistica
Nell’Università italiana secondo me esistono tre tipi “ideali” di professori (alla Max Weber!):
a) quelli che si identificano con l’università istituzione e la cui vita è definita dal piacere di fare ricerca e di insegnare
b) quelli che usano l’università istituzione per acquisire prestigio, incarichi e la cui vita è fuori dall’università
c) quelli che usano l’università istituzione per acquisire, prestigio, incarichi DENTRO l’università.
Ne consegue che:
i prof. di tipo A sono costretti ad accettare la valutazione burocratica perchè sono giustamente convinti di far bene il proprio lavoro e vogliono dimostrarlo contro tutto e tutti;
i prof. di tipo B se ne fregano della valutazione burocratica perchè il loro mondo è altrove;
i prof. di tipo C usano la valutazione burocratica per i propri fini individuali ed egoistici di potere/prestigio.
Dunque chi si ribellerà?
I prof di tipo A? al costo di vedere distrutta la propria carriera e sentirsi mortificati? secondo me no perchè il prezzo è troppo alto
I prof. di tipo B ? secondo me no, perchè non hanno alcun interesse reale nell’università e non si sentono sminuiti da una valutazione, anche negativa
I prof. di tipo C? questi negozieranno e si accorderanno con chi ha più potere di loro perchè sono interessanti al loro potere individuale e basta
Si, lo so è una testi semplice e pessimistica, ma sarà poi così falsa? attendo e spero in smentite.
Non sono lucido stasera.ma questo commento mi sembra colga il punto perfettamente. Ci ripenso domani mattina…
Tipo D): quelli che non “usano” l’università, né si “identificano” con essa, perché la loro vita si svolge, in ugual misura, fuori e dentro le mura dell’accademia. Si dedicano a vari interessi, intellettuali e non, e credono che, nella loro professione, la responsabilità maggiore sia quella nei confronti della società.
I prof. di questo tipo esistono, benché siano pochissimi.
Si ribelleranno, ma, naturalmente, non servirà a nulla.
Splendido articolo. Ma questo governo e la ministra che idee hanno sull’universita’? Qualcuno lo sa?
A mio avviso queste Linee Guida non sono il prodotto peggiore dell’ANVUR in questi pochi anni di vita, laddove fra VQR e ASN s’è visto invece qualcosa di inqualificabile.
Non intendo mettermi qui a “difendere” questo frammento di lavoro, o altri ad esso collegati, ma ritengo che il migliore aggettivo per definire il sistema che si intende mettere in piedi sia “acerbo”, e non “del tutto sbagliato” o “fuori luogo”, come pare dal tono dell’articolo.
Ritengo casomai che le aporie di tutto il congegno del sistema AVA si scontrano con una certa inadeguatezza della classe accademica a ripensare il proprio modo di organizzare, programmare e gestire l’offerta formativa; da qui la sensazione di oppressione e di incomprensione per il nuovo fardello che viene richiesto alle sedi e ai docenti.
C’è modo e modo di regolare e valutare le istituzioni accademiche; c’è chi coltiva la pratica e le relative professionalità da decenni, c’è chi mette dilettanti allo sbaraglio nei Ministeri o nelle c.d. Agenzie. Il punto è capire il problema, studiare e prendere qualche spunto da chi ci sa fare
http://www.teqsa.gov.au/
secondo lei questo misto tra cortina di fumo, auto-giustificazione del proprio insostituibile ruolo e atteggiamento da commissari politici sarebbe un metodo ancora “acerbo” per far “ripensare il proprio modo di organizzare, programmare e gestire l’offerta formativa”?
inadeguatezza della classe accademica?
il senso dell’articolo, per come lo capisco io, e’ chiaro e inequivocabile: lasciateci lavorare seriamente
su didattica e ricerca, che sono le cose per cui siamo pagati (o almeno, cosi’ dovrebbe essere)
aggiungo: ci sono sicuramente altri modi, molto piu’ seri, di valutare la qualita’ della didattica, e sono tipicamente a posteriori, ad esempio valutando le capacita’ e il successo in campo lavorativo dei laureati, gli strumenti non mancano
certo, accanto alla performance del corso di laurea anche le eventuali sofferenze dei singoli corsi vanno capite e risolte, ma e’ quello che negli atenei seri gia’ si fa in vario modo, c’e’ bisogno di una macchina
cosi’ complicata ? e per quanto riguarda corsi di laurea e/o atenei poco seri (ce ne saranno, ma quanti sono?), proprio una valutazione esterna a posteriori della qualita’ dei laureati basterebbe ad evidenziare i problemi veri e a guidare gli interventi
lo scopo di tutto questo e’ ben altro, e lo abbiamo capito ormai: mortificare i docenti, ridurre l’offerta formativa, mortificare la liberta’ di scelta degli studenti, in definitiva togliere dignita’ e autonomia ai singoli e alle strutture, uniformare e controllare il sistema (e non ultimo, ridurre la spesa)
come sempre, complimenti alla classe politica e a quella non trascurabile parte del potere accademico che ne e’ fedele interprete e servitrice
Valutare la qualità della didattica valutando le capacità e il successo in campo lavorativo dei laureati è un modo POCO SERIO e NON più serio.
In realtà stiamo parlando – cioè dovremmo parlare, se il lavoro dell’ANVUR fosse professionale – di un sistema complessivo di gestione dell’offerta formativa che AIUTA i docenti a fare proprio ciò che scrive Lei. Così funziona nel resto del mondo.
Trasformiamo UNIPD in Fondazione e sganciamoci gradualmente dallo Stato Centrale, come ha fatto UNITN.
Dopo di che, facendo credere che saremo costretti ad aumentare le tasse universitarie per mantenerci, tutti i centri sociali del Nord Est occuperanno UNIPD ad oltranza.
Vista la situazione lo Stato Centrale sarà costretto a concedere l'”autonomia universitaria” alla Regione Veneto che con i soldi in più finanziarà alla stragrande UNIPD, e vivremo tutti felici e contenti.
Fine della favola.
Cambiare verso all’Anvur sarà possibile? speriamo, in questi tempi convulsi di continua superfetazione di Agenzie riformarne una, anzichè crearne una nuova, sarà certo difficile ma magari se vi sarà la giusta iniziativa politica non impossibile.
Non sarebbe nemmeno una cattiva idea ipotizzare la separazione tra le Scuole di medicina e il resto delle altre Facoltà, che hanno sempre risentito dell’assoluta preponderanza numerica dei docenti di medicina nel determinare le politiche degli Atenei.
Fantastica la notazione sul bonobo e sugli orridi barbarismi degli estensori del testo delle Linee Guida, in aggiunta a “Glenn Gould sceglieva il pasto a seconda del capolavoro che doveva interpretare”
Buona Battaglia
“Non sarebbe nemmeno una cattiva idea ipotizzare la separazione tra le Scuole di medicina e il resto delle altre Facoltà”
Ottima idea, così almeno ci togliamo di torno personaggi come questo:
http://tinyurl.com/qfz32bn
Peccato che a noi, a quel punto, non lasceranno nemmeno un euro.
[…] L’Università che uccide se stessa […]
[…] che il preside di Medicina usa a fini elettorali… mentre l’università italiana “uccide se stessa” con le linee-guida per bonobo emesse […]
Ottimo articolo!
Dovremmo però chiederci: da quale fonte è giunta alla Gelmini l’idea di fabbricare un congegno così assurdo e distruttivo (VQR e ASN compresi)?
La fonte del disastro è passata inosservata — e agisce ancora. Se non si va alla causa, è tutto inutile.
Giusta osservazione. Anche perché la Gelmini partì da premesse completamente diverse, per chi se lo ricorda.
Massimo Bilò Vorrei raccontare agli amici dell’ANVUR l’esperienza della valutazione (avviata e presto abbandonata) della Pubblica Amministrazione negli anni 80 ma risparmio a tutti la triste storia che, comunque, ha visto fior fior di intelligenze collaborare alla sua nascita Ci sono due aspetti che stanno alla base e sono comuni a queste due esperienze: l’impossibilità di evitare l’immediata burocratizzazione del processo; l’uso della valutazione come scappatoia per evitare l’assunzione di responsabilità ai vari soggetti che ai diversi livelli hanno ruoli dirigenti. I concorsi universitari (specie con le nuove procedure) sono emblematici, da questo punto di vista. Non credo affatto, tuttavia, che i protocolli di valutazione siano inutili; ma dovrebbero essere solo adeguati strumenti di supporto a chi sceglie tra più soggetti (strutture o persone che siano), mettendo in ballo anche aspetti che travalicano le tecnicità della valutazione, e assume la responsabilità della scelta. Se alla prova dei fatti sbaglia, paga (non con la vita, ma con la sua posizione).
“l’uso della valutazione come scappatoia per evitare l’assunzione di responsabilità ai vari soggetti che ai diversi livelli hanno ruoli dirigenti”
Questo può avvenire ancor di più quando i dirigenti di vario livello si possono appoggiare anche a delibere collegiali che li esonerano da qualsiasi responsabilità, che a quel punto diventa collettiva, pur avendo essi guidato le discussione in una determinata direzione e con determinate argomentazioni. Perciò in alcuni casi chiedevamo esplicitamente di segnalare i nostri nomi, di pochissimi peraltro, accanto ad un voto contrario o di astensione. Ma sull’argomento comunque la decisione era presa a maggioranza. E certe volte, per non fare i rompiscatole o gli eternamente eccentrici, ci adeguavamo.
Tornando alle linee guida, avrete certamente notato come viene utilizzato il concetto di credito: anziché agganciarlo, come da legge, al lavoro-studente, viene agganciato al lavoro-docente. Basta questo dettaglio, per me fondamentale, per togliere credito al documento. Anche se questa è una incomprensione o cocciutaggine ottusa dell’oltre 90% del corpo docente, secondo la mia esperienza. Tuttavia ciò non giustifica l’inosservanza di come applicare un concetto basilare – seppur convenzionale nell’estensione – di tutto l’impianto dei nuovi ordinamenti didattici.
In che punto del documento la nozione di credito è usata in modo improprio?
Sono d’accordo perola per parola su questo post. Peró non possiamo non porci un problema. In questo caso, si rifiuta la valutazione, giustamente, perché troppo burocratica. Altre volte, la si rifiuta perché troppo punitiva, o inadeguata, o sbilanciata, o meramente quantitativa. Imsomma, c’è sempre una buona, spesso davvero buona, ragione per rifiutare la valutazione e le sue conseguenze. Credo che l’unica maniera per non apparire una casta intoccabile sia quella di dire esplicitamente quale valutazione vogliamo, chi deve valutare cosa e come deve farlo, e quali conseguenze essa debba avere., nel bene e nel male. Ad esempio, tanto per mettere il dito in un punto sensibile, siamo disposti ad accettare decurtazioni di stipendio e perfino licenziamento se non si passa una soglia minima?
luca: “tanto per mettere il dito in un punto sensibile, siamo disposti ad accettare decurtazioni di stipendio e perfino licenziamento se non si passa una soglia minima?”
======================
Per avere risposta, basta leggere l’articolo. Semplici e Salmeri scrivono:
______________________
“Non abbiamo paura di lavorare di più. E soprattutto – ci teniamo a sottolinearlo a scanso di equivoci – non abbiamo paura di essere valutati, giudicati e controllati. È giusto che i professori universitari siano premiati quando operano bene e siano puniti e, nei casi estremi, perfino cacciati quando si sottraggono ai loro doveri verso gli studenti e verso la comunità scientifica alla quale appartengono.”
[…] […]
[…] In sintesi, il problema della standardizzazione e dell’omologazione verso modelli ritenuti “assoluti” e adattabili a ogni contesto, continua a far discutere accademici, insegnanti e responsabili delle politiche educative di tutto il mondo. Il ripensamento dei sistemi della formazione è una cosa, la burocratizzazione e l’appiattimento di idee e prassi un’altra (come mostra anche l’evoluzione delle politiche sull’università in Italia). […]
Credo che quanto scritto dai colleghi non abbia bisogno di molti commenti: il loro discorso è ineccepibile. Da quanto essi scrivono è ora giocoforza chiederci a cosa serva l’ANVUR. Eccesso di burocrazia è tuttavia espressione troppo debole. Consideriamo ora nel complesso gli esiti registrati nei diversi ambiti in cui hanno operato i superpagati membri dell’ANVUR e non possiamo non riconoscere il fallimento complessivo del loro operato. La VQR si è rivelata macchinosa e poco utile, per essere generosi, l’ASN è quello che tutti abbiamo sotto gli occhi, un vero e assoluto disastro (su entrambe mi sono già espresso qui su ROARS); l’accreditamento dei Corsi e dei dottorati un meccanismo sadico che impedisce di fatto di lavorare. E a questo punto mi sorge una ulteriore domanda, e cioè se l’ANVUR sia in buona o malafede.
[…] In sintesi, il problema della standardizzazione e dell’omologazione verso modelli ritenuti “assoluti” e adattabili a ogni contesto, continua a far discutere accademici, insegnanti e responsabili delle politiche educative di tutto il mondo. Il ripensamento dei sistemi della formazione è una cosa, la burocratizzazione e l’appiattimento di idee e prassi un’altra (come mostra anche l’evoluzione delle politiche sull’università in Italia). […]