Il 20 gennaio il Riformista ha pubblicato un appello intitolato “Vogliamo liberare l’università”. I firmatari includono i fratelli Ichino, Alesina Giavazzi e 62 altri accademici. Utilizzando a mo’ di scudo una citazione di Luigi Einaudi del 1947, i firmatari chiedono:
- L’abolizione del Valore Legale del Titolo di Studio
- La liberalizzazione delle rette universitarie
- L’istituzione di un sistema di borse di studio e prestiti d’onore.
Di tutti questi temi abbiamo già parlato allo sfinimento, ma ci ritorno perché tra i firmatari dell’appello c’è Margherita Hack, una donna che per molti è un punto di riferimento nella nebbia intellettuale che avvolge l’Italia. Vorrei chiedere apertamente a Margherita Hack di ritirare la sua firma, e le spiego il perché.
Il primo punto, l’abolizione del valore legale del titolo di studio, vorrebbe sostituire l’accreditamento giuridico del titolo di studio con meccanismi altri in grado di consentire agli atenei di garantire la qualità della formazione degli studenti. L’idea è che l’“uomo vergine di bolli” è bello.
Certo è così, ma ci sono dei problemi. Come questo: chi tra gli insigni firmatari accetterebbe di essereoperato a cuore aperto da un chirurgo laureato in un istituto privo di monitoraggio? Perché di questo stiamo parlando. Benedetto Coccia e Carlo Finocchietti ci spiegano che l’abolizione del valore legale consente “l’adulterazione del retroterra formativo del titolo accademico”, “l’elusione dei normali procedimenti di monitoraggio, accreditamento, ispezione e sanzione”, e la relativa “contraffazione dei curricula e falsificazione dei titoli”. In altre parole, c’è il rischio che la rimozione del vincolo legale apra alla proliferazione di “fabbriche di titoli” e “fabbriche di accreditamento”, in grado di accreditare istituzioni d’istruzione superiore prive di qualunque forma di legittimità. Del resto, chi accrediterebbe queste università?
Si ripensi poi alle università telematiche: complice una legge permissiva e l’assenza di programmazione di sistema, dal 2003 le università telematiche sono proliferate in Italia con una velocità senza pari nei paesi europei. Francesco Coniglione ci dice perché: Unimarconi, la più strutturata tra queste, ha 33 mila iscritti e tasse a 1.200 euro annue per studente. In tutto, gli ordinari di tutte le 11 università telematiche italiane sono 13, gli associati 18 e i ricercatori 236. Insomma, poche spese, alti introiti. Lo stesso Giavazzi aveva definito le università telematiche comeuna truffa. Allora perché creare le condizioni per altri titolifici e altre truffe?
Ma questo è il problema minore. Il problema vero è questo: l’abolizione del valore legale del titolo di studio trasferisce al mercato il giudizio di valore. In altre parole, sarà la competizione tra atenei a selezionare le università migliori, e queste potranno con il loro prestigio garantire il “valore” del titolo di studio, imporre tasse più alte, offrire prestiti d’onore. La competizione di mercato selezionerà così pochi atenei eccellenti. Dopodiché: si potrà lasciar andare in malora gli altri, giustificare il definanziamento pubblico all’università, portare le tasse universitarie a cifre vicine a 10 mila euro l’anno, indebitare gli studenti prima ancora che abbiano un lavoro, dimezzare il numero delle immatricolazioni, trasformare l’università in una questione d’élite, e condannare il paese alla barbarie.
Come qualcuno sa, con Ichino e Terlizzese, firmatari dell’appello, già ci sono stati lunghi scambi su questo tema. È inutile, lo so. Ma vale la pena ripeterlo: in un sistema caratterizzato da un tasso di disoccupazione giovanile al 30% l’esito dei prestiti d’onore è sempre negativo: violano l’Art. 34 della Costituzione, portano al crollo delle immatricolazioni, la stessa Moody’s ne definisce gli effettiworrisome, ovvero “preoccupanti”, e gli studenti continuano ad opporvisi.
La verità è che le priorità del sistema universitario italiano sono altre. Le tasse universitarie già superano i limiti imposti per legge nonché molti paesi europei quanto a importo complessivo. Bisogna rifinanziare il diritto allo studio, garantire una borsa di studio agli aventi diritto, porre fine alla raccapricciante anomalia italiana dello studente idoneo senza borsa, integrare il Fondo previsto per il 2012 e gli anni a venire, reintegrare i tagli al diritto allo studio che sono stati fatti negli ultimi anni.
È evidente che ai governi di destra e sinistra tutto questo importa poco, ma Prof. ssa Hack, a lei importa? Gioverebbe a tutti se il mondo della scienza si facesse portavoce di un sapere libero, più che di un mercato libero.
Testo pubblicato anche nel Blog di F. Coin de Il Fatto Quotidiano.
Perché prendersela con uno slogan privo di conseguenze pratiche? E’ evidente che l’invocata abolizione non è possibile. Se non altro perché viviamo in un contesto europeo ed internazionale che non ce lo permette. A parte le direttive europee, come sarebbero accolti anche nel mondo i medici italiani se l’accesso alla professione non fosse regolato? Non vale quindi la pena di prendercela con i firmatari dell’appello, che ripetono uno slogan privo di significato concreto. Piuttosto dovremmo cercare di convertire i firmatari ad azioni più concrete di attenuazione del valore legale dei titoli di studio, ed in particolare del valore legale della laurea magistrale. Quanti di essi, ad esempio, sarebbero disponibili a proporre che sia sufficiente una laurea triennale per accedere alla formazione specifica degli insegnanti di scuola secondaria(come succede ad esempio in Inghilterra)?
Ma perché impostare il discorso in questo modo? Perchè si dovrebbero richiedere competenze culturali inferiori ai futuri insegnanti? La nostra tradizione ha posto al livello della Laurea Magistrale gli standard professionali dei docenti e non siamo di certo in presenza di una penuria di aspiranti/candidati, nè c’è bisogno di abbassarne la qualità.
Non si tratta di richiedere competenze culturali inferiori ai futuri insegnanti, ma di consentire a chi non ha conseguito la laurea magistrale di dimostrare (se ci riesce), attraverso un concorso, di avere competenze culturali maggiori o uguali di chi possiede una o più lauree magistrali. Chi l’ha detto che non c’è penuria di candidati di primo ordine per l’insegnamento? Intanto non è vero per le discipline scientifiche e tecniche. E poi, se si richiedono sei sette anni di studi universitari per diventare insegnante, si avvieranno a questa professione solo i soggetti che non sono altrimenti impiegabili.
Non è ai concorsi che affidiamo il compito di certificare competenze, ma alle istituzioni scolastiche ed accademiche (oltre che di formarle), perchè è lì che stipendiamo il personale qualificato all’uopo. I concorsi servono a confrontarle mediante valutazione comparativa, secondo un mix di criteri adatto al profilo lavorativo ricercato.
Se poi vogliamo certificare competenze acquisite attraverso l’esperienza pregressa (in ammbiente lavorativo e informale) dobbiamo ugualmente fare riferimento alle medesime istituzioni scolastiche e accademiche, semprechè un qualche politico asinino non tolga questa facoltà, o la limiti di parecchio.
Ai futuri professori io non richiedo “anni” di studio ma competenze C1, C2, … , CN certificate correttamente. Per l’Italia ritengo, e continuo a preferire, che queste competenze abbiamo proprietà formali caratterizzate dai Descrittori della Laurea Magistrale LM1, … , LM5.
Oltre a quello che ho già scritto nell’ultimo pezzo sul mio blog
http://cronaca.anvur.it/2012/01/la-valorizzazione-delluniversita.html
e in altri post più datati, vorrei aggiungere che è molto difficile discutere laicamente con queste persone, visto che il loro unico interesse è affermare un discorso ideologico.
Ma in linea di principio, io sarei molto disponibile a entrare nel merito – e nei fatti questo argomento dovrebbe costituire un punto centrale di una discussione in materia di istruzione (e relative politiche – prendendo in esame tutte le obiezioni e ragionando su ciò che vi è di sensato nelle critiche.
Per esempio, anche nel Regno Unito, dove, per motivi storici, sono molto legati al valore giuridico e sociale dei titoli di studio e del voto di laurea (è una società “meritocratica”, quella…) ci sono parecchi spunti del loro dibattito che si potrebbero prendere, e – per dire – sarei contento di confrontarmi con qualcuno di queste Hack o Ichinos a partire da un ‘paper’ critico specifico come questo
http://www.hepi.ac.uk/466-1838/Comparability-of-degree-standards.html
come “terreno d’incontro”… ma è solo utopia e fantascienza.
Per esempio, anche nel Regno Unito, dove, per motivi storici, sono molto legati al valore giuridico e sociale dei titoli di studio e del voto di laurea (è una società “meritocratica”, quella…) ci sono parecchi spunti del loro dibattito che si potrebbero prendere, e – per dire – sarei contento di confrontarmi con qualcuno di costoro a partire da un ‘paper’ critico specifico come questo
http://www.hepi.ac.uk/466-1838/Comparability-of-degree-standards.html
come “terreno d’incontro”… ma è solo utopia e fantascienza.