La notizia è di qualche giorno fa: rispetto al suo sistema di valutazione scolastico basato sulle competenze e sui test standardizzati, l’America fa dietrofront. Finalmente oltreoceano rivalutano le conoscenze, del tutto trascurate nel sistema scolastico americano a vantaggio delle competenze, per troppo tempo, e a torto, considerate più utili e spendibili nel mercato del lavoro. Lo andiamo ripetendo da anni, da quando, in Italia, qualcuno di noi ha letto l’utilissimo libro di Diane Ravitch, docente della Columbia e della New York University, già responsabile dell’assessment sotto le presidenze Bush e Clinton – e poi, nel 2009, polemicamente dimissionaria – intitolato “The death and the life of the great american school system. How testing and choise are undermining education”; lo andiamo ripetendo da anni, da quando, in Italia, qualcuno di noi ha studiato, ha riflettuto, ha analizzato e messo a confronto i sistemi di valutazione del nostro paese, le indicazioni dell’Unione europea e il modello americano, sottolineando le criticità di un modo di concepire l’intera filiera dell’istruzione incomparabilmente meno efficace del nostro, sotto il profilo della formazione culturale e sociale della persona e del cittadino. E non sembra inutile, a questo punto, riproporre un articolo di cinque anni fa che analizzava proprio questo aspetto della questione. Vox clamantis in deserto …
Risultato: mentre lì fanno dietrofront, qui noi facciamo ‘avanti, march!’, con i test in seconda e quinta elementare, in terza media, seconda superiore ed ora anche alla vigilia dell’esame di Stato. Con l’accelerazione ministeriale della didattica per competenze, proprio quelle che si misurerebbero con i test standardizzati che implica quell’approccio all’istruzione e alla formazione che oggi in America viene messo in discussione, mentre invece in Italia, contemporaneamente, si arriva all’assurdo di imporre addirittura la certificazione delle competenze di imprenditorialità (sic) dei bambini delle elementari e di terza media e di diffondere il sillabo della didattica imprenditoriale per gli studenti delle superiori!
Quousque tandem – pedagogisti, burocrati ministeriali, opinionisti confindustriali, ministri e sottosegretari – abutemini patientia nostra?
La “cultura della valutazione” nasce nella seconda metà del secolo scorso negli Stati Uniti d’America, imposta dal modello economico neoliberista, che applica anche all’istruzione il principio imprenditoriale dell’analisi costi-benefici a breve termine[1].
Per fare questo occorreva individuare un’entità misurabile circoscritta, una unità di misura e uno strumento di misurazione, che permettesse di valutare “oggettivamente e sistematicamente” il livello degli apprendimenti di uno studente, di una classe, di una scuola, di uno Stato.
Il profitto in reading e mathematics, inteso nel suo incremento percentuale annuale, è l’entità misurabile; la competenza è l’unità di misura; il test standardizzato a risposta multipla (bubble test) lo strumento di misurazione.
Nel 1983 la National Commission on Excellence in Education insediata da Ronald Reagan pubblicava un rapporto, “A Nation at risk: the imperative for educational reform”, che denunciava l’inadeguatezza del sistema scolastico americano e la scarsa preparazione degli studenti, attribuiva alla scuola e agli insegnanti tutta la responsabilità circa il futuro del Paese e chiedeva al Congresso provvedimenti immediati per forgiare nuovi strumenti educativi che valorizzassero il cosiddetto “capitale umano” e rendessero gli Stati Uniti competitivi a livello mondiale.
Il documento, fin dal titolo, era costruito con un’enfasi retorica evidentemente performativa (cito, fra tutte, una frase assai esemplificativa: “Se una potenza straniera nemica avesse cercato di imporci risultati scolastici così scadenti avremmo dovuto considerarlo un atto di guerra”) ed ha prodotto un’attenzione immediata e capillare: enti statali e privati, istituzioni, authority, esperti, gruppi di consulenti e decisori politici hanno messo a punto una strategia riformatrice basata sulla valutazione degli apprendimenti e sul conseguimento di standard definiti a livello nazionale, da raggiungere obbligatoriamente imponendo agli insegnanti metodologie didattiche omologate.
Questa strategia ha implicato la diffusione generalizzata, ben presto anche a livello internazionale, delle valutazioni comparate longitudinali, sebbene il richiamo alla valutazione sia diventato, soprattutto oggi, un fenomeno planetario grazie alle iniziative di organizzazioni transnazionali, in primis la Banca Mondiale, che tende a subordinare alla valutazione dei risultati scolastici i prestiti ai governi per l’istruzione.[2]
Sulla scia della spinta riformatrice avviata dal documento e cavalcata lungo tutti gli anni Novanta da repubblicani e democratici, che invocavano con una sola voce riforme di mercato nella pubblica amministrazione, incluse deregulation e privatizzazioni, nel 2001 viene approvata la legge federale No Child Left Behind (NCLB), che impone agli Stati americani l’elaborazione di standard nazionali di apprendimento e obiettivi misurabili attraverso test di verifica degli apprendimenti, in grado di monitorare i risultati incrementali degli studenti di ogni scuola. Per ricevere i finanziamenti, infatti, gli studenti devono mostrare progressi adeguati annuali nei punteggi dei test.
Le scuole che non raggiungono i livelli prestabiliti di incremento della performance vengono fatte oggetto di provvedimenti tempestivi, che vanno dalla riduzione dei finanziamenti alla sostituzione all’ingrosso del corpo docente e dirigente, dall’introduzione coatta di nuove metodologie d’insegnamento alla trasformazione della scuola in scuola charter, cioè a gestione privata, fino alla chiusura della scuola stessa. Esemplare, in proposito, la vicenda del Balanced Literacy, una metodologia di lettura intensiva basata sul riconoscimento fonetico e semantico dei singoli lemmi, adottata negli anni Novanta nel secondo distretto scolastico di New York. L’incremento dei punteggi nella lettura delle scuole di quel distretto impose l’adozione generalizzata e obbligatoria di quella metodologia in molte altre scuole di New York nell’era del sindaco Bloomberg e in altre città degli Stati Uniti, supportata da funzionari eletti che ne fecero un loro cavallo di battaglia politico; tuttavia, studi critici successivi dimostrarono che i punteggi alti degli alunni del II distretto erano strettamente collegati al loro status socio-economico e alla loro etnia (miglioravano infatti gli studenti bianchi e asiatici ma non gli studenti ispanici e afroamericani) e il successo delle scuole di quel distretto dipendeva fondamentalmente dal processo di gentrification che in quegli anni aveva caratterizzato Chelsea, Soho, Tribeca, Little Italy: queste zone infatti, diventate nel frattempo quartieri di lusso, avevano approssimativamente in proporzione il doppio di studenti bianchi, tre volte gli studenti asiatici, metà degli studenti afro-americani e una minuscola percentuale degli studenti ispanici presenti nelle scuole di tutta la città.[3]
A distanza di più di dieci anni, numerosissime e aspre sono le critiche che si sono addensate intorno al progetto di riforma dell’istruzione basato su punteggi, classifiche e ranking, provenienti non solo dai docenti che l’hanno sperimentata, facilmente accusabili di corporativismo e ideologismo anche in America, ma soprattutto da esperti di politiche scolastiche, teorici, educatori e pedagogisti.
Fra le tante, meritano di essere analizzate con particolare attenzione le riflessioni di Diane Ravitch, autrice del libro “The death and the life of the great american school system. How testing and choice are undermining education” (2010), e quelle di Andy Hargreaves e Henry Braun, coautori del documento pubblicato nell’ottobre 2013 a cura del National Education Policy Center dell’Università del Colorado, intitolato “Data-Driven Improvement and Accountability”.
Partiamo da quest’ultimo, più recente. Vi si afferma che negli Stati Uniti le misure dell’apprendimento per test sono in generale assai scarne e si limitano a valutare un numero ristretto di discipline e di obiettivi. Questi dati vengono utilizzati per punire le scuole con prestazioni carenti e gli insegnanti in difficoltà e che non ottengono con i loro studenti risultati almeno pari alla media di quelli conseguiti da altre scuole simili. Il documento spiega come nei sistemi scolastici data-driven le statistiche ed i dati su i punteggi siano utilizzati più spesso di quanto non si pensi per creare “incentivi perversi” che inducono gli insegnanti a ridurre il curricolo, ad insegnare agli studenti unicamente come si devono affrontare i test e a concentrare in modo sproporzionato i loro sforzi sugli studenti che possono ottenere i migliori punteggi nei test piuttosto che sugli studenti che avrebbero più bisogno di aiuto, perché quelli fanno ottenere un punteggio alla classe. Tra gli effetti perversi di questo sistema di valutazione, gli autori segnalano un pericolo: la rendicontazione impedisce il miglioramento, la pressione esercitata sugli insegnanti per evitare punteggi bassi incita un gran numero di insegnanti a concentrare i loro sforzi su un numero limitato di obiettivi, a ridurre la loro autonomia responsabile e la loro libertà di scelta.
Per fare in modo che il miglioramento degli apprendimenti diventi l’obiettivo principale, gli autori propongono due raccomandazioni: basare le valutazioni su un ampio ventaglio di prove e di indicatori che riflettano adeguatamente ciò che gli studenti hanno imparato o stanno imparando; e, conformemente a quanto succede nei sistemi scolastici più efficaci, promuovere la responsabilità collettiva per il miglioramento degli apprendimenti, soprattutto a livello sociale.
E in questo la Finlandia, che ha il punteggio più alto del mondo nell’Education Index (pubblicato ogni anno nell’Indice dello Sviluppo Umano dell’ONU) e che non usa nessuna forma di valutazione standardizzata delle competenze dei docenti, ha molto da insegnarci.[4]
L’uso perverso dei dati in molte scuole americane ha conseguenze significative:
“Quando la rendicontazione è prioritaria sul miglioramento, il modello data-driven non serve né ad aiutare gli insegnanti a sperimentare strumenti pedagogici più efficaci né li spinge a migliorarsi o a perfezionare le loro conoscenze e le loro competenze professionali”, sostengono Hargreaves e Braun, che continuano affermando che “le scuole sono indotte a attribuire troppa enfasi ai punteggi delle prove strutturate che captano solo quanto può essere facilmente misurato. In questo modo, le scuole trascurano altri importanti obiettivi che sono difficili da quantificare”; ad esempio, la capacità di socializzazione e di cooperazione, la partecipazione al dialogo educativo, la conoscenza di sé e degli altri, l’incremento della curiosità e dell’attenzione al mondo circostante, il senso di responsabilità, l’etica dei comportamenti oppure il progressivo interesse per certi ambiti disciplinari o l’incremento progressivo delle capacità cognitive. E concludono: “i dati statistici e i punteggi dei test non possono essere un sostituto né un surrogato della valutazione professionale. Non ci sono algoritmi per captare l’esperienza. Abilità e competenze significative di studenti e docenti non appaiono nei fogli di calcolo.”
Classifiche e statistiche non possono diventare il totem cui ispirare tutte le decisioni che dovrebbero servire per promuovere progressi negli apprendimenti degli studenti.
Diane Ravitch insegna storia e scienze della formazione alla New York University e alla Columbia University; è stata, dal 1991 al 1993, responsabile dell’Office of Educational Research and Improvement nel U.S. Department of Education, sotto la presidenza di George Bush; dal 1997 al 2004 è stata membro del National Assessment Governing Board, che sovrintende il programma federale di testing; sotto la presidenza di Bill Clinton ha collaborato con il responsabile del dipartimento dell’educazione, nel 1999 è stata uno dei membri fondatori della Koret Task Force della Hoover Institution presso la Stanford University, che supporta le riforme dell’istruzione basate sul principio dell’accountability.
Nell’aprile del 2009 si è polemicamente dimessa dall’incarico e nel 2010 ha pubblicato il suo libro “The death and the life of the great american school system. How testing and choice are undermining education”.
Ripercorrendo la sua storia, racconta, con esempi concreti, in che modo la diffusione del testing e del regime di libera concorrenza sul mercato dell’istruzione abbiano minato le fondamenta del sistema scolastico americano, depauperandolo del ruolo sociale e civile che ogni scuola del mondo dovrebbe avere, e ci spiega quali siano gli ingredienti essenziali per il successo di un sistema educativo: “Un curriculum di grande spessore, uno zoccolo duro di materie umanistiche, insegnanti esperti, studenti motivati, risorse adeguate e una comunità che dia valore all’istruzione. L’istruzione è un processo difficile, che richiede enormi sforzi. I fondamenti di una buona istruzione devono essere trovati in classe, a casa, nella società. Il modo per migliorare le scuole è migliorare il curriculum e migliorare le condizioni in cui gli insegnanti lavorano e gli studenti imparano, invece che intervenire costantemente su come il sistema scolastico debba essere organizzato, gestito e controllato. Quello che noi testiamo può, in definitiva, essere meno importante di quello che noi non testiamo, come l’abilità dello studente di cercare spiegazioni alternative, di produrre domande, di coltivare la conoscenza da solo, e di pensare in modo non conformista. Le nostre scuole non miglioreranno se noi ci aspettiamo che esse agiscano come imprese private. Le scuole non sono un business, esse sono un bene comune. L’obiettivo dell’istruzione non è produrre punteggi alti, ma educare i ragazzi a diventare adulti responsabili”.
Il Presidente Obama ha oggi avviato un processo di revisione della normativa del NCLB Act, per riprogettare il sistema scolastico in base ad una più ampia gamma di valutazioni, in grado di cogliere abilità avanzate. Obama propone che la normativa NCLB riduca l’impatto punitivo e la focalizzazione sulle responsabilità degli Stati, concentrandosi di più sul miglioramento dello studente, attraverso un ventaglio di misure in grado di offrire una valutazione adeguata di tutti i bambini e gli adolescenti (compresi studenti non di madrelingua inglese, le minoranze etniche e studenti con esigenze speciali) e promuovendo incentivi per mantenere gli studenti iscritti a scuola e avviarli a percorsi di istruzione superiore, piuttosto che incoraggiare gli studenti drop-out ad uscire dal sistema formativo per aumentare l’AYP, il punteggio incrementale annuale.
Nel 2012, il Presidente Obama ha significativamente concesso deroghe dagli obblighi del NCLB a 43 Stati.
Dal sito del U.S. Department of Education
(in blu, gli Stati che hanno ottenuto la flessibilità in deroga, in verde gli Stati che ne hanno fatto richiesta)
Ma non facciamoci illusioni. Le lobby che incarnano i poteri forti non abbandoneranno mai il progetto del succulento banchetto di privatizzazione della scuola con studenti addestrati dal e al pensiero unico, di cui il test è il nutriente perfetto. Micheal Barber, già consulente alle politiche scolastiche di Tony Blair e oggi Chief Education Advisor della Pearson, la più grande multinazionale dell’editoria scolastica e accademica nonché proprietaria del Financial Times e dell’Economist e che produce i software più diffusi per la correzione elettronica dei test, è a capo di un progetto editoriale per cambiare l’insegnamento su scala mondiale, attraverso l’individuazione di standard globali planetari.
“Io voglio che ogni bambino in ogni parte del mondo impari le stesse cose nello stesso momento” ammonisce come un Savonarola impazzito dal pulpito del suo blog whatiscommoncore. E per realizzare questo progetto di clonazione culturale propone un “modello orizzontale”, che supera la tradizionale relazione insegnante-allievo e coinvolge agenti, fonti, piattaforme differenti, ovvero le nuove tecnologie. Perché? “Perché è una naturale evoluzione del processo di riforma che non riguarda più solo scuole e università britanniche ma, date le dimensioni della Pearson, tutto il pianeta. I leader politici cominciano a capire ovunque che l’istruzione è la chiave non solo per risolvere il problema dell’occupazione ma per avere una società sana, civile, democratica, omogenea. Dalla scuola dipende tutto”. Così, esplicitamente, nell’intervista rilasciata a Enrico Franceschini , La Repubblica, lunedì 18 novembre.
Quale lezione possiamo trarre a questo punto del nostro sommario excursus? La prima è una domanda che ci riporta all’inizio di questa riflessione: esiste una “cultura della valutazione” o stiamo semplicemente affermando un ossimoro, se non una vera e propria contraddizione in termini? Se è criticabile la tendenza delle discipline che si occupano di oggetti ideali come le scienze umane a scimmiottare maldestramente le metodologie dell’analisi quantitativa proprie delle scienze naturali[5], non lo sarà ancor di più l’applicazione di questo metodo a qualcosa che di scientifico non ha proprio nulla, cioè l’insegnamento e la trasmissione del sapere? Non sarebbe invece importante “capire in che modo il discorso del merito è diventato senso comune in riferimento a università, scuola e ricerca, perché la retorica della valutazione ha guadagnato subito un’adesione quasi fideistica e perché il nuovo conformismo accademico che ad essa si ispira tanto presto e tanto facilmente ha avuto la meglio sul bisogno di comprenderne il significato politico”[6]?
Economisti che sui problemi della scuola si costruiscono carriere, imprenditori e faccendieri a caccia di nuovi guadagni, insieme a politici e burocrati compiacenti, stanno imponendo il governo tecnocratico nella scuola e nell’università, un governo che inneggia all’individualismo e alla competizione sfrenata, dove l’istruzione ridotta a prodotto di mercato, e che liquida come anacronistico retaggio del passato ogni dimensione del sociale. Una pletora di decisori senza idee che, a dispetto di ogni evidenza, vogliono imporre oggi in Italia quello che la storia mostra aver fallito altrove.
In questo scenario il test non è neutro e non è innocuo: è un dispositivo di controllo che agisce come strumento performativo retroattivo, trasformando ciò che facciamo e il senso di ciò che facciamo a scuola[7]. In America “gli speculatori di Wall Street too big to fail hanno saccheggiato il Tesoro statunitense, hanno calpestato ogni tipo di regolamentazione evitando incriminazioni penali, hanno negato l’assistenza medica ai malati, hanno svuotato i servizi sociali fondamentali e ora amministrano scuole e università”[8]. Non permettiamo che questo accada anche da noi.
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Intervento al Convegno “Educare alla critica: quale valutazione?”, Liceo Classico Mamiani, Roma, 26 novembre 2013
tratto da educationduepuntozero
[1] “Le scuole saranno più efficienti se saranno sottoposte alle leggi del mercato capitalistico e, come tutte le aziende, entreranno in concorrenza le une con le altre per attirare i loro clienti: gli studenti” così Milton Friedman, nel 1955, in “The role of Government in education”
[2] Katarina Tomasevski, “Six reason why the World Bank should be debarred from Education”, Bretton Woods Project, 2006; Norberto Bottani, “La Banca Mondiale cambia strategia nel settore educazione”, gennaio 2010, Norberto Bottani Website
[3] Diane Ravitch, “The death and the life of the great american school system. How testing and choice are undermining education”, Basic Book, New York, 2010
[4] In Finland there are no standardized tests. In fact, there is really very little testing at all. Finnish teachers are not monitored or rated based on test scores, and teachers (as well as their students) have a great deal of autonomy” Erik Kain, dal blog Education di Forbes, febbraio 2011.
In un’intervista a Marco Orsi, maestro e pedagogista, a proposito del successo del sistema scolastico finlandese, pubblicata sul sito dell’Indire nel 2011, leggiamo che i suoi punti di forza sono “in primo luogo la formazione dei docenti, la loro ottima preparazione universitaria, dalla primaria alla secondaria, ed il rapporto stretto, il forte interscambio tra ricerca universitaria e attività didattica. Poi la serietà del curriculum uguale per tutti fino al 16° anno d’età, con grande cura delle attività manuali e artistiche.”
[5] German Berrios, “Per una nuova epistemologia della psichiatria”, Giovanni Fioriti Editore, Roma, dicembre 2013
[6] Maria Rosaria Marella,”(Psico-) analisi della valutazione”, MenodiZero, II, 5; aprile-giugno, 2011
[7] Valeria Pinto, “Valutare e punire”, Cronopio, 2012
[8]Chris Hedges, “Perché gli Stati Uniti distruggono il loro sistema scolastico”, Znet, gennaio 2012, on line
Bellissimo articolo!!! speriamo che qualche funzionario illuminato del MIUR, o persino il futuro ministro lo leggano e ci riflettano a fondo…
Mi scuso per la lunghezza del commento che segue ma spero si voglia ascoltare anche una voce “terza” rispetto a voi e ai vostri “nemici”. Sull’argomento, innanzitutto, potreste anche consultare “The Closing of the American Mind”, giusto per capire che non esiste solo la vostra chiave di lettura della realtà. Il declino USA è parte del declino di tutto l’Occidente e quello che voi chiamate “neoliberismo” e che altri chiamano “capitalismo finanziario apolide” c’entra eccome, ma in un senso diverso da quello che intendete voi. Le obiettive degenerazioni del sistema USA (nell’ambito della cultura e dell’istruzione ma non solo), secondo Bloom derivano piuttosto dall’ideologia “progressista” e relativista che, irradiatasi dal mondo anglosassone, ha investito in pieno anche noi occidentali non anglofoni. In Italia si aggiungono un certo lassismo derivante dalla cultura cattolica, settant’anni di sudditanza politica ed economica, la tendenza ad essere più realisti del re e gli esiti (grotteschi) sono quelli che voi denunciate (dovreste però ammettere che la peggior “neoliberista” è la sinistra liberal e anche a sinistra radical fa il gioco del cosiddetto “neoliberismo”). Detto ciò, che gli esiti del “modello italiano” riguardo alla scuola e alla cultura siano “incomparabilmente migliori” degli esiti del modello USA (e anglosassone in generale), ci sarebbe ampiamente da discutere. Quali sarebbero tali brillanti esiti? L’Italia è fanalino di coda in Occidente per quanto riguarda la lettura di libri e quotidiani, la percentuale di laureati, la percentuale di diplomati, l’abbandono scolastico. L’Italia (a parte brillanti eccezioni che non sono qui a negare) ha una tara storica riguardo alla ricerca applicata, in special modo riguardo al trasferimento tecnologico tra università ed imprese (avendo fatto r&d in ambito privato per tanti anni l’ho constatato di persona e la mia critica riguarda gli imprenditori non meno degli accademici). Il paese della “genialità italica” è fanalino di coda per il numero di brevetti per abitante. Anche nelle scienze umane non mi sembra che l’Italia sia esattamente leader e gli umanisti di formazione più “italica” si distinguono spesso per cultura libresca e per una visione estremamente settoriale. Scusatemi se preferisco l’apertura a 360 gradi dei “barbari” anglosassoni, per quanto possano essere un poco più “ignoranti” secondo il metro di misura “italico”. Volete nomi e cognomi? Non li posso fare ma ho esperienza diretta degli archeologi italiani e so quel che dico. Vogliamo guardare ai (da voi non graditi) test PISA? L’Italia fa peggio degli USA che pure non sono messi tanto bene. Se però dal dato USA scorporiamo le ben note minoranze etniche (che scontano obiettive ingiustizie e crimini commessi dalla maggioranza etnica, anche il problema non credo sia solo quello), gli USA scalano la classifica mondiale e si collocano a livelli di eccellenza. La stessa cosa accade se consideriamo separatamente le performance di Italia del Nord e Italia del Sud ma ciò significa che il modello “italico” che voi ritenete così eccellente non “risuona” con una parte del Paese. Che al Liceo mi abbiano riempito la testa con migliaia di date e titoli da ricordare non mi fa pensare ad alcuna superiorità del modello italico. Mi fa piuttosto pensare a una noia infinita, a tanta retorica per nulla, a tanta muffa. Ringrazio viceversa il sistema anglosassone per avermi fatto scoprire una diversa concezione della cultura e del sapere, anche di quello umanistico. Se adesso so qualcosa di storia, archeologia, arte, antropologia, non lo devo certo al sistema scolastico italico. Leonardo da Vinci, homo sanza lettere, non sarebbe tanto entusiasta del modello che voi ritenete il migliore al mondo, sol che gli si dessero più soldi.
Mi pare che SMSConsulting abbia buone ragioni. Se si qualificasse meglio mi ci potrei complimentare chiamandolo per nome.La chiave è nell’articolo che è falsamente giusto. Infatti i test standardizzati a risposta multipla fanno di sicuro schifo, prova ne sia che si può imparare a fare i test, non nel contenuto, ma nel meccanismo logico. Ma che le conseguenze di valori scarsi si ripercuotano sull’istituto scolastico è una cosa sacrosanta ed è la cosa alla quale si oppongono i nostri saccenti puristi. Il non detto da noi è che la scuola deve essere a servizio degli operatori scolastici e mai degli studenti. Molti studenti delle scuole superiori non riescono a scrivere senza banali errori di grammatica. Molti studenti delle scuole superiori non riescono a leggere un testo minimamente articolato. Molti studenti delle scuole superiori non ‘masticano’ le più elementari nozioni di matematica. Inutile dire che questi sono quasi sempre delle classi sociali più svantaggiate. Se, nonostante questo, il sistema scolastico ancora regge, ciò si deve all’impianto di fondo del sistema di era prebuonista e presinistra, impianto che ancora giova a chi ne sa approfittare. Ma per quanto ancora? La scuola pubblica deve essere salvaguardata, di certo, ma le ragioni fondanti della scuola pubblica poggiano sulla uniformità ed omogeneità dei risultati minimi su tutto il territorio nazionale. Qualcuno questi risultati deve accertarli e le giuste sanzioni devono essere date alle istituzioni che falliscono. Di sicuro non con i test a risposta multipla, ma con qualche strumento serio si.
Allan Bloom, un reazionario ultra cinquantenne, che dava tutte le colpe al rock, che, signora mia, ti fa diventare satanasso! E quei n***acci che corrompono i nostri sani principi di bianchi cristiani. Scuola come business => catastrofe culturale e morale.
Al sig. Braccesi: quando c’era LVI, i treni arrivavano puntuali! Il 68, signora mia!
La sinistra non ha mai deciso gran ché in Italia.
Il problema è un sistema scolastico tarato su un’élite idealogicamente definita e non su un’educazione di massa. Più o meno è così in tutti i grandi paesi. Puniamo gli insegnanti delle scuole di quartieri e regioni disagiate: e poi? Nessun insegnante vorrà andarci, attireranno solo disagio e disperazione, e andranno peggio ancora. Investire di più e rafforzare dove serve, non dare di più a chi ha già. Le scuole di periferia dovrebbero essere come hotel a 5 stelle.
Chi è convinto che la sinistra non abbia deciso gran che in Italia o non è stato attento o non si è accontentato e sognava che la sinistra ‘rivoluzionaria’ prendesse il potere con la rivoluzione proletaria.
Nessuno vuole punire gli insegnanti dei quartieri disagiati, perchè per fortuna i fallimenti della nostra scuola interessano anche i quartieri ‘alti’. Sognare che anche nei quartieri disagiati la scuola funzioni è un piccolo assillo che mi perseguita. A quelli di sinistra-sinistra invece fa comodo dire che nei quartieri disagiati la scuola non funziona, così almeno possono incolpare il regime.
Quanto ai treni in orario non commento. Chi sa solo dare del fascista agli altri è il più Fascista di tutti ed è un refrain talmente abusato da non essere degno di considerazione.
Che gente di tale pochezza culturale possa in qualche modo gravitare nell’Università è forse lo specchio della realtà che purtroppo ci appartiene.
Prof. Braccesi, inutile sottolineare che condivido le sue parole e che i suoi complimenti mi fanno piacere. La buona educazione imporrebbe di presentarmi con nome e cognome, è vero. E’ anche vero che mi interessava gettare un sasso nello stagno, credo di esserci riuscito e non avrei potuto farlo se avessi usato il mio vero nome. A suo tempo, infatti, avevo espresso simili considerazioni e le reazioni di alcuni utenti erano state a dir poco scomposte. E questo, come dicono taluni giovinastri, al limite “ci sta”. Non “ci stava”, invece, il fatto che qualcuno col potere di moderare gli interventi mi invitò, neanche tanto cordialmente, ad astenermi da ulteriori commenti, in quanto “noi siamo gente seria”. Non posso che condividere, comunque, la sua frase: “Che gente di tale pochezza culturale possa in qualche modo gravitare nell’Università è forse lo specchio della realtà che purtroppo ci appartiene”.
[…] e la mancanza di trasparenza:“Orrore: arrivano i test PISA ai bambini di 5 anni” scrive Diane Ravitch, “I test Baby Pisa sono dietro l’angolo, come mai nessuno ne parla?” continuano negli USA. […]