Personalmente non ho mai considerato “Il Gattopardo” un romanzo epocale, ma è chiaro che la sua popolarità in Italia è dovuta al fatto che la propensione nazionale a cambiar tutto perché non cambi nulla si ripresenta con ripetitività estenuante. L’ultimo caso è quello della riforma universitaria. Sono stato uno dei non molti che hanno creduto nel proposito di introdurre con la riforma il principio del merito, smantellando il prepotere delle baronie, e che firmarono un appello per difenderla. Oggi non lo firmerei neppure sotto tortura, vista l’incredibile porcheria che, passo dopo passo, si è riusciti a confezionare, tradendo in toto i propositi iniziali.

Fu ingenuità? Forse sì, se è un errore credere alle promesse e ai propositi dichiarati. Nel fuoco del dibattito sulla riforma si tenne un convegno a Bologna, con una rappresentanza politico-parlamentare di alto livello, in cui furono affermati con vigore due propositi: (a) creare una struttura agile e dotata della massima autonomia compatibile con il carattere statale dell’istituzione; (b) introdurre una valutazione che operi a valle e non a monte. I due propositi erano coerenti e correlati.

Oggi abbiamo una riforma che ha ridotto l’università a una macchina burocratica soffocante – come se non lo fosse già prima – e ha introdotto una valutazione tutta a monte.

Consideriamo quest’ultimo aspetto. La neonata Anvur (Agenzia per la valutazione dell’università e della ricerca) doveva espletare la funzione (b) e pareva che volesse agire in tal modo, valutando la qualità della ricerca, secondo il principio all’americana “assumete chi vi pare, controlleremo quel che avrà fatto, e chi ha sbagliato ne renderà conto”.

Già il modo in cui l’Anvur aveva impostato la valutazione della ricerca svolta negli anni passati, troppo basato su tecniche automatiche, aveva destato sospetti. Puntualmente si è verificato il peggio. L’Anvur si è “allargata”, dettando i requisiti per far parte delle commissioni per l’abilitazione nazionale e per presentarsi al concorso, usando quei criteri bibliometrici che sono sempre più messi sotto accusa all’estero, aggiungendovi un inedito criterio della “mediana statistica”: chi sta sotto la mediana non può essere commissario e non può presentarsi al concorso. Di fronte alla valanga di assurdità e incoerenze che sono emerse nell’applicazione di questi criteri, l’Anvur ha moltiplicato le mediane e gli algoritmi di calcolo in un balletto farsesco che sembra più che altro rispondere al fine di evitare ricorsi, e che soprattutto ha ridicolizzato la pretesa “oggettività” dei metodi introdotti.

Inoltre, ha spaccato in due il mondo universitario, riservando al settore umanistico una valutazione non bibliometrica, che consente di entrare in gioco pur di aver pubblicato un articolo in una rivista di serie A, secondo una classifica di merito stilata dall’Anvur stesso, che pure ha provocato un diluvio di contestazioni. Senza dire che questo meccanismo cristallizzerà la ricerca entro forme inamovibili, e cancellerà l’interdisciplinarità.

Sta di fatto che questo bailamme inizia a piacere a qualcuno che si è chiesto: ma se facessimo classificare come riviste di serie A quelle che interessano a noi o comunque a impadronirci delle riviste di serie A, non sarebbe questo un modo ben più efficace e meno esposto alla critica di arbitrio per esercitare un controllo totale sulla ricerca e sul reclutamento? Nel settore bibliometrico è ancor più semplice: basta farsi calcolare la mediana nel modo “giusto”. L’Anvur ora balbetta di agire contro le “baronie”, mostrando una gigantesca coda di paglia.

In nessun paese al mondo esiste una simile sorta di Presidium del Soviet Supremo della ricerca e dell’università. Ci voleva un paese con un ventennio e poi altri decenni di culture totalitarie alle spalle per creare un simile mostro di dirigismo statalista. E solo nella patria del gattopardismo era possibile assistere allo spettacolo delle inossidabili congreghe che, al grido di “abbasso i baroni, evviva le mediane”, sgomitano per ottenere un posto nel Soviet Supremo.

 (apparso anche su Il Foglio del 13 settembre 2012)

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67 Commenti

  1. Parlo dei settori non bibliometrici, mi sono infatti un po’ perso nei meccanismi dei settori bibliometrici… Non mi è chiaro il passaggio – che trovo in questo articolo ma anche in altri post – secondo il quale classificare le riviste individuando un gruppo di fascia A cancellerà l’interdisciplinarietà: ci sono riviste che per loro natura sono fortemente interdisciplinari e che nelle liste Anvur risultano essere di fascia A per più settori (le faccio l’esempio delle riviste del gruppo di Environment and planning, fortemente interdisciplinari, di fascia A per diversi settori di economia, per sociologia e per scienza politica). In questi casi l’interdiscipliarietà della ricerca mi pare uscirne rafforzata invece che penalizzata.

    • perché come ho scritto qui https://www.roars.it/?p=12058

      Stando al Documento di accompagnamento alle mediane non bibliometriche (punto 3.3), si apprende che:

      – il giudizio di scientificità ha valore all’interno dell’area CUN
      […]
      A titolo di esempio, ciò significa che in mancanza di questo reciproco riconoscimento, che in moltissimi casi non ha avuto luogo, ai fini delle mediane sono da ritenersi non scientifici

      – uno scritto di un economista su di una rivista di diritto del lavoro (e viceversa)

      – uno scritto di un economista su di una rivista di sociologia (e viceversa)

      – uno scritto di un giurista su di una rivista di sociologia, di economia, di filosofia (e viceversa)

    • Concordo con lei, ma quello che scrive è collegato alla ‘qualità’ delle liste che vengono predisposte: a mio modo di vedere liste che non prevedono il mutuo riconoscimento sono liste mal fatte. Questo però non vuol dire che i tentativi di classificare le riviste frenino l’interdisciplinarietà; lo fanno solo i tentativi mal fatti. Nel caso specifico, a me pare che almeno in alcuni casi tale riconoscimento ci sia stato, come mostrano casi estremi – e anche molto dibattuti – di riviste come Lancet che valgono come fascia A per alcuni settori di economia. Da questo punto di vista la scelta di prendere le riviste su cui gli ‘strutturati’ hanno pubblicato ha riconosciuto – non so se e quanto intenzionalmente – di più l’interdisciplinarietà rispetto alle liste prodotte per la VQR che erano molto più ‘strict’ dal punto di vista disciplinare. Per questo credo che la classificazione fatta per l’abilitazione scientifica nazionale non penalizzi ‘con certezza’ l’interdisciplinarietà. Il che ovviamente non vuol dire che tale scelta non abbia difetti: solo per fare un esempio, tale scelta comporta di escludere dalla lista alcune riviste per il semplice fatto che nessun strutturato ci ha pubblicato, indipendentemente dalla qualità della rivista.

  2. Quanto dice il prof. Israel mi trova concorde.
    Però attenzione: non ci lasci ingannare dalle definizioni “bibliometrico” e “non bibliometrico”.
    La perversione di tale sistema è tale che le valutazioni cd non bibliometriche sono più bibliometriche di quelle cd bibliometriche. In che senso? Nel senso peggiore immaginabile. Libri, articoli, note storiche o filologiche “fanno mediana” INDIPENDENTEMENTE DALLA LORO ESTENSIONE E LUNGHEZZA. perciò un articolo di 5 pagine “vale” come uno di 50. Un libro prodotto da una vita din ricerca, magari di 500 pagine dense vale come una monografiucola compilativa di 100, note e bibliografia incluse. Tanto quel che conta è avere l’ISBN. ed ecco la caccia all’ISBN… Lungi da me negare che una nota di poche pagine può fare avanzare laricerca umanistica più di un saggio prolisso dieci volte tanto. Potrà anche dirsi l’opposto tuttavia, che una noterella striminzita rispetto a un corposo saggio non sono uguali. OCCORREREBBE VALUTARE, ENTRARE NEL MERITO, LEGGERE I PDF, ESPRIMERSI SU QUESTO DA PARTE DELLA COMMISSIONE. Ed è esattamente quel che non si farà e non si può materialmente fare.
    Ecco la bibliometria perversa dei settori non bibliometrici. Una bibliometria semplice, da aritmetica delle scuole primarie: 1 libro 15 o 18 articoli o capitoli di libro, 1/3 (ancora non si capisce) pubblicazioni su riviste di fascia A. Elementare, null’altro viene in conto.
    Conseguenza facilmente prevedibile di tutto il sistema: una infornata gigantesca, una selezione in nessun modo meritocratica (si sarà notato del resto come questo santo termine, che ha goduto di notorietà e voga sino a qualche anno fa, cominci ora a essere rimesso in discussione da molti…), che sposterà sul piano delle lotte tra clientele e gang accademiche a livello di ateneo e dipartimento le chiamate, le programmazioni ecc. fra le miriadi di nuovi potenziali professori.
    Complimenti a tutti gli artefici di questa bella impresa all’italiana,
    Duanelli

  3. Grazie di cuore per questo suo commento alla situazione. E grazie anche per la sua, per così dire sperando di non travisare il suo pensiero, autocritica rispetto all’adesione ad una riforma che ha completamente distrutto le speranze di chi all’onestà ed alla bellezza del lavoro accademico ha creduto davvero. Ci vuole coraggio per ammettere di avere sbagliato e lei ne ha.
    Credo che nemmeno l’acutissimo spirito di osservazione di Franz Kafka avrebbe saputo immaginare un meccanismo così perverso, quale quello messo in piedi da una congrega di – uso eufemismi bonari naturalmente – accademici navigati ed esperti. Il nostro buon Gattopardo ha visto negli anni, nel nostro Paese, avvicendarsi diversi sistemi di misura della qualità della ricerca scientifica (della didattica nemmeno uno ma questa è un’altra storia, come ben sanno in altre realtà dove esistono Università votate per missione alla didattica. Provo ad elencarne alcuni:
    a) metodo gravitazionale, fondato sul peso dei plichi da mandare ai commissari
    b) metodo inerziale, fondato sulla forza necessaria ad accelerare la borsa da portare (da non sbagliare la scelta della borsa, naturalmente)
    c) metodo della reazione vincolare: basato sul fattore di impatto della rivista su cui pubblichi
    d) metodo topografico: fondato sulla posizione del tuo nome nell’elenco degli autori
    e) metodo sportivo: o metodo delle cordate integrato dallo strumento delle citazioni reciproche e delle autocitazioni.

    Di leggere tre, dico tre, lavori presentati dai candidati non se ne è mai parlato.Naturalmente un saggio o un capitolo di libro nemmeno.
    Quante cose si potrebbero dire, ma a che servirebbe? Nel Gulag molti di noi ci sono già …

    • Penso che il concetto dietro alla messa a punto dei concorsi locali sia proprio questo.

      C’è una commissione fatta da 5 persone esperte in un settore disciplinare che valuta i candidati sia sulla base della “bontà” della loro produzione scientifica sia delle esigenze della sede carente in determinati settori che sarebbero dovuti essere strategici per complementarietà.

      La commissione aveva il tempo ed il modo di appurare leggendo i lavori, o almeno quelli presentati dai candidati etc.

      Cosa è successo? Esattamente il contrario!

      La selezione non è stata mai fatta ed in genere sono stati premiati quelli che duplicavano linee di ricerca già presenti ma funzionali. Il risultato è che non solo la qualità non è stata premiata ma anche l’interdisciplinarità tanto sventolata è stata ignorata. Ci si è riprodotti per “partenogenesi” spesso selezionando i peggiori.

      A questo punto dov’è la malattia nell’ANVUR o in quello che c’è stato prima?

    • OK, ma allora in questo schema, almeno si deve ammettere che la situazione passata/attuale abbia generato delle distorsioni comprensibili nell’attuale sistema di valutazione. Io, quindi, non ci vedo alcuna volontà e “menti raffinatissime” dietro le quinte.

    • “non ci vedo alcuna volontà e “menti raffinatissime” dietro le quinte”

      Alla luce degli ultimi eventi non posso che concordare. Nulla che sia espressione di razionalità, raffinata o meno.

  4. “Personalmente non ho mai considerato “Il Gattopardo” un romanzo epocale”
    Caro Israel, se lo lasci dire: di letteratura non capisce un granché…

    • Per me un romanzo epocale è, per esempio, “L’Idiota”. “I Demoni” oppure “Vita e destino” e mi pare che “Il Gattopardo” al confronto sfiguri. Lei pensa che non capisco niente? Pazienza. Si vede che sono sotto la mediana. Ad ogni modo credo che la questione non appassioni i lettori di Roars.

    • Ma no, non se la prenda, scherzavo…. “il Gattopardo” è semplicemente uno dei dieci capolavori del romanzo italiano del Novecento; niente più di questo, e di sicuro niente di paragonabile a Dostoevskij (con Grossman, direi che se la gioca benissimo invece).

  5. Business is business. Immagino che molti colleghi avranno ricevuto circolari simili a quella che copio e incollo qua sotto:

    l’editore “I libri di Emil” ha appena lanciato un nuovo progetto per la pubblicazione di monografie universitarie. Si tratta di un servizio pensato per chi vuole avere tempi rapidi e certi per la pubblicazione, e una spesa contenuta.
    Il libro sarà disponibile in un mese dal momento della consegna del file in formato word, sarà ordinabile in libreria (tramite la distribuzione di Messaggerie Italia) e in vendita dal sito della casa editrice.
    Se ha il suo studio, la sua ricerca, la sua monografia nel cassetto in attesa di un editore, la nostra casa editrice è quello che fa per lei.
    Qui trova il catalogo delle nostre collane universitarie.
    Per informazioni più specifiche può scrivere a redazione@ilibridiemil.it
    Cordialmente,
    Lo staff di I libri di Emil

    Direttore editoriale Fabrizio Podda
    Casa editrice I LIBRI DI EMIL
    Via Benedetto Marcello, 7
    40141 Bologna
    Tel./Fax + 39 051 474494

    Per carità, gli editori (o tipografi) fanno il loro mestiere. Ma ecco l’oggetto della mail:

    “Scadenza Anvur 2012 – Emil per l’Università”. C’è bisogno di aggiungere altro?

  6. Insieme al richiamo al Gattopardo (che feci in un mio commento su ROARS alcuni giorni fa) aggiungere quello alla tela di Penelope. Ovvero in Italia si disfa’ la sera quello che si e’ fatto la mattina. Il risultato e’ che alla fine non si fa mai nulla! Questa assurda procedura, montata in fretta e furia nel timore che cadesse il governo e che il successivo bloccasse tutto indefinitivamente, ormai sta per morire.
    E’ anche chiaro a tutti che semmai dovesse partire questa farsa sarebbe una una tantum che generera’ gli idonei necessari per i prossimi 4 anni e fino ad allora nulla.
    Quando poi tra 4 anni la favola della crisi sara’ finita e come per magia si tornera’ a spendere e spandere avremo nuove ope legis che faranno entrare chiunque sia riuscito in qualche modo a sopravvivere.
    Fatemi anche dire che i migliori che questa procedura vorrebbe garantire se ne andranno comunque all’estero dove stipendi e condizioni lavorative sono migliori, ovvero degne di loro.
    Qualunque seria riforma dell’Universita’ italiana dovrebbe partire dal presupposto che non si torna piu’ indietro. Finiamola con il buonismo, le erbacce vanno estirpate iniziando a licenziare e pensionare tutto il ciarpame improduttivo. Poi bisogna riseminare dando delle vere opportunita’ ai giovani di crescere e di far valere il loro talento.
    Come si fa? Bisogna scrivere regole certe e durature. In questo momento dico qualunque esse siano, basta che siano fatte con un minimo di intelligenza e diano certezza e stabilta’.

    • “Fatemi anche dire che i migliori che questa procedura vorrebbe garantire se ne andranno comunque all’estero dove stipendi e condizioni lavorative sono migliori, ovvero degne di loro.”

      Mi sa che se ne sono andati già da un po’…

    • La comunità accademica si è divisa in due fazioni: sopra le mediane (l’ANVUR non rappresenta la perfezione ma andiamo avanti perchè è la migliore soluzione possibile) e sotto le mediane (L’ANVUR è l’impero del Male). Poi c’è la fazione grigia, che al momento non riesce a schierarsi.

      La richiesta di regole chiare dovrebbe però trovare tutti concordi.

      Immaginiamo un articolo scientifico in cui:

      1) Le ipotesi di lavoro sono almeno discutibili. (il superamento di parametri biblimetrici può essere impiegato come indicatore della capacità di un ricercatore)

      2) Non è chiaro quale sia l’algoritmo di calcolo dei parametri. (Uno su tutti: l’età accademica)

      3) I dati primari, ovvero le pubblicazioni di ogni singolo docente impiegate per calcolare le mediane, non sono accessibili pur essendo pubblici.

      4) Le conclusioni (i valori delle mediane) sono state parzialmente ritrattate dagli stessi autori e non sono verificabili in modo indipendente. Ad oggi, ciascuno può STIMARE i propri indicatori ma non CALCOLARLI con esattezza in modo riproducibile con quelli determinati dall’ANVUR.

      Penso che come referee, di fronte ad un simile articolo saremmo almeno perplessi. Non importa quale potrebbero essere i vantaggi derivanti dalla pubblicazione di un tale articolo, io personalmente non la sponsorizzerei in questa forma. Direi che senza un “Major Revision” non si considera neppure. e poco importa che cita ed elogia i miei lavori…

      Tutta la mia comprensione e stima (senza alcuna ironia, sia chiaro) allo staff ANVUR-CINECA che ha lavorato a Luglio ed Agosto, ma se procedura di abilitazione deve essere bandita (ed il bando è aperto già da due mesi) può essere bandita solo in un modo: con il massimo rigore possibile. Su questo dovremmo trovare un accordo tutti, sopra sotto o in mezzo alle mediane.

      Non capisco perché si possa derogare ai principi di rigore metodologico e scientificità proprio per valutare quelle pubblicazioni che dovrebbero essere basate appunto su rigore e scientificità.

  7. A proposito di furbetti delle rivistine. Aevum è una rivista molto accreditata in campo umanistico che pubblica ‘studi di scienze storiche, linguistiche e filologiche’. Nel sottotitolo è taciuto ma accoglie anche studi di paleografia, storia delle biblioteche, etc. Ebbene Aevum NON è stata compresa tra le riviste di fascia A dell’area 11 mentre è compresa tra le riviste di fascia A nell’area 10. Perché questa scelta? Una rivista o è scientifica oppure non lo è, dunque perché non considerarla di fascia A per entrambe le aree? Per costringerla – direbbero gli esperti dell’anvur – a concentrarsi su un solo settore disciplinare ed abbandonare tutti gli altri.

    Ma mentre riviste come Aevum vengono ‘declassate’, alcune misteriosamente dimenticate, altre entrano in gioco, come la MISCELLANEA BIBLIOTHECAE APOSTOLICAE VATICANAE, compresa tra le ‘riviste’ di fascia A del settore 11/A4. Peccato che sotto l’aspetto strettamente bibliografico MISCELLANEA non è una rivista bensì una ‘monografia’ e per verificarlo è sufficiente controllare nell’Opac-SBN: http://www.iccu.sbn.it/opencms/opencms/it/

  8. Cari tutti quelli che stanno commentando, me compreso, l’ottimo spunto di Israel. A me modestamente sembra che molti tra di noi si preoccupano molto più di riuscire a capire se, in un modo o nell’altro, riusciranno entro la fatidica data a far tornare i conti e, dunque, partecipare speranzosi alle procedure di abilitazione, piuttosto che non dichiarare se il sistema messo in piedi va ostacolato, combattuto, negato con forza. Dopo trenta anni di carriera, non esiste alcun giudizio possibile: ho prodotto e lavorato (compresa l’attività didattica si badi) oppure no. Al di la di questo mi si giudichi realmente per ciò che ho fatto e non per ciò che AVREI dovuto fare. Si badi che sarebbe stato necessario avere facoltà divinatorie senza pari per sapere prima quello che oggi sarebbe servito, al di là di un onesto lavor. Dunque, per me, il sistema messo in piedi è il più iniquo che mai si sia visto e, pertanto, non intendo sottopormi ad alcuno giudizio iotesi di correità in un certo senso). Basta, mi hanno già trombato 6 volte, ogni volta con un pretesto diverso ma sempre in favore del migliore. Penso che sarebbe assai interessante se nessuno, dico nessuno, si presentasse, almeno per questa tornata, alle abilitazioni eancor di più se nessun ordinario si fosse candidato commissario. Pensate un po’: questo si che sarebbe stato un fatto ed un giudizio di valore. Invece, i ‘migliori’ (da Togliatti in poi questa qualifica un po’ mi disturba), naturalmente, anche questa volta si presenteranno e giustamente avranno successo.

  9. “Ci voleva un paese con un ventennio e poi altri decenni di culture totalitarie alle spalle per creare un simile mostro di dirigismo statalista. ”
    D’accordo ma non posso fare a meno di sottolineare che la spinta propulsiva che ha portato la L. Gelmini ad essere approvata e e l’abilitazione nazionale ad essere implementata così viene da ambienti pseudo-liberali che si vantano di conoscere il sistema meritocratico anglosassone. Non sarà mica che i sedicenti liberali nostrani, pur avendo soggiornato negli Stati Uniti, non hanno capito un acca?

    • D’altronde i liberali de noartri hanno scambiato un cialtrone monopolista per il paladino del libero mercato, dunque almeno un paio di occhiali li hanno vinti. A proposito, ma ora che fanno?

  10. Il prof Israel ci dice che non sarebbe contrario al modello neoliberale di università all’inglese ma che si è reso conto che la legge 240 ne ha tradito le premesse. Ci sarebbe molto da discutere sulla superiorità del modello decentralizzato di università, e più in generale del modello dei quasi-market nel welfare, rispetto al modello centralizzato. A mio parere non si sono trattati sinora in modo adeguato e non ideologico i complessi problemi di “mechanism design” (implementazione, principale agente…) che l’approccio dei quasi-market comporta. Questo non si può fare in sede di breve commento ovviamente. Faccio solo presente che l’esito “sovietico” di questo approccio, e del connesso strumento del “new public management,” non è per nulla paradossale ed è già stato documentato in letteratura. Comunque, chi si è opposto alla legge 240 fin da quando era in fasce non può che rallegrarsi della “conversione” del prof Israel: errare humanum, ecc ecc!
    Tuttavia, non mi convince per nulla la critica che egli fa, senza distinguo, alla “terza mediana.” Se critichiamo l’uso acritico della bibliometria e della compilazione, basata su tale uso, di classifiche di riviste possiamo essere d’accordo. Ma, come ho avuto modo di dire, attenzione a non assecondare l’eliminazione della terza mediana, mantenendo le altre. Il prof Israel non è solo un matematico. Ha anche scritto “La mano invisibile” e penso conosca la storia del pensiero eoonomico. Si consideri il caso dei seguenti profili di candidati a commissario per il settore 13A1: Economia Politca. Il candidato 1 ha scritto un libercolo e ciò gli consente di superare la mediana, il candidato 2 ha scritto 5 articoli nel Journal of Economic Theory, rivista di fascia A “ortodossa” ed ha superato la mediana, il candiato 3 ha scritto 5 articoli nel Cambridge Journal of Economics, rivista di fascia A “eterodossa” ed ha superato la mediana. Ora, si elimina la terza mediana e solo il candidato 1 è ammesso come commissario. Qualsiasi economista serio “ortodosso” o “eterodosso” griderebbe allo scandalo. E il prof Israel? Speriamo non si debba concludere: perseverare diabolicum est!

    • Pieno accordo sul rischio che l’ipotetico autore del libercolo possa sfangarla a danno degli altri. Ma c’è un problema non da poco: in fascia A, oltre al JET ci sono molte altre riviste cosiddette “ortodosse”, mentre il CJE è l’unica rivista “eterodossa” in lista. Il che sta a dimostrare, ancora una volta, che i fautori della terza mediana in ANVUR stanno pensando più agli affari loro che alla necessità di valorizzare la qualità dei ricercatori.

  11. Cosa direste se una persona al vertice dell’Anvur avesse detto, in sogno, al sottoscritto: “Chi capisce di giurisprudenza sa che non sono possibili ricorsi, visto che nessun parametro è vincolante. Quello che ci spaventa è un possibile ricorso contro Anvur alla Corte dei Conti…..”?

  12. Mi riferisco al tenore generale di alcuni ultimi articoli del prof. Giorgio Israel. Ne ho letti anche sul Sussidiario, domenica 9 settembre 2012 http://www.ilsussidiario.net/News/Educazione/2012/9/9/UNIVERSITA-Israel-solo-la-pensione-ci-puo-salvare-dalla-rivoluzione-giacobina-/319346/.
    Detto en passant e in riferimento ad un altro articolo, credo, se Pajetta avrebbe detto “tra verità e rivoluzione scelgo la rivoluzione” (forse la mia citazione è imprecisa), importerebbe conoscere il contesto. Ma piuttosto restituisco massima per massima: Ferdinand Lassalle, dirigente della socialdemocrazia tedesca dell’Ottocento, avrebbe detto “Dire la verità è rivoluzionario”. E non abbiamo concluso granché. Uno a uno.

    Mi meraviglia profondamente la fiducia iniziale del prof. Israel nello spirito della riforma “epocale” gelminiana, dalla quale ora prende tutte le distanze possibili, cioè dalle cui applicazioni e ricadute (semafori multicolori, ad esempio, oppure le riviste di fascia A, per non parlare delle mediane, passatempo estivo di parte dell’accademia italiana) egli prende le distanze. Vogliamo mettere in conto anche il dissesto istituzionale operato attraverso la disgregazione e la riaggregazione delle strutture? Quanto si è speso, anzi sprecato, tra anvurate e riorganizzazioni (anche patrimoniali) e le loro ricadute sui singoli? Qualcuno è in grado di valutarlo e tradurlo in vile danaro?

    E’ anche vero che non ho avuto il piacere e l’onore di dialogare con la dott.ssa Gelmini, forse persona amabile ed affascinante in circostanze informali, la quale avrebbe però detto al nostro rettore, tappandogli in qualche modo la bocca, “ne avete combinate di tutti i colori (voi universitari)”. Cosa ne sapeva in concreto e per esperienza diretta il ministro Gelmini? Rien de rien. Tunnel insegna. Facendo dunque questa tara, della mia non frequentazione personale, noi i politici non dobbiamo comunque frequentarli tutti, dal momento che ne conosciamo le tendenze e le affiliazioni politiche, e li vediamo agire e li ascoltiamo attraverso i media. E sentiamo anche i commenti dei vari cittadini, giornalisti e non. Mi domando come si poteva pensare che da una mente tanto esperta ed autonoma (e illuminata da chi le metteva le parole in bocca), venisse fuori qualcosa di sensato, calato per di più su un’università logorata ed appesantita strutturalmente da una dozzina d’anni di sperimentazione ri-ri-riformistica (non sto balbettando come l’anvur). Quella, la riforma epocale, significava e significa ancora, sempre di più, dare scientemente il colpo di grazie e così è stato, o quasi. Per raggiungere quali obiettivi? per creare, attraverso i sopravvissuti o gli elastici, un’università e una ricerca (che si sarebbe gestita male in regime di autonomia, ma i responsabili sono latitanti), dunque un’accademia allineata su, asservita a determinate tendenze politiche, di governo, aziendalistiche, iperburocatizzanti, alienanti (spero che Kafka le piaccia). Il primo atto del ministro Gelmini è stato quello di reintrodurre l’unifome a scuola (i dettagli poco importano e nemmeno il fatto che è preferibile sporcare il grembiulino e non il vestito e che il grembiulino dà una parvenza di eguaglianza). Quell’atto era simbolico senza che ce ne rendessimo conto: uniforme su tutto e chi non ci sta e non ci rientra, pazienza, anzi mobbizzato/a, emarginato, rottamato, ecc. (a proposito, il focoso incitatore alla mobbizzazione pare che stia ancora lì, incollato).

    Ora abbiamo il prof. Profumo, che proviene dall’università, ma il cui obiettivo è quello, subepocale, di oliare il processo epocale messo in moto dal ministro Gelmini.

  13. Questa la noticina che ho inviato l’11 settembre all URP del MIUR:

    “Se esiste, a quanto dichiarato dal presidente dell’ANVUR Fantoni, un’autonomia delle commissioni deputate a valutare i parametri per l’abilitazione a professore ordinario e professore associato che permette di non tener conto delle mediane come indicato nel DM 76/2012, sia chiaro che verrà chiesto alla Corte dei Conti di valutare gli eventuali danni all’erario. Se il lavoro dell’ANVUR non è così essenziale e restrittivo perchè si sono spese tante migliaia di euro? Perchè questo spreco visto che secondo l’OCSE l’Italia si trova al 31° posto con il 9% della spesa pubblica destinato all’istruzione?
    Qual’è il parere del Ministro Profumo?

  14. Non dovrei in realtà rispondere al messaggio di Marinella Lorinczi perché la funzione di questi commenti dovrebbe essere quella di discutere del merito degli interventi e non della persona di chi li ha scritti. Immaginiamo cosa succederebbe se ognuno facesse altrettanto, per esempio, io informandomi di chi sia la mia interlocutrice e commentando il suo operato anziché le sue idee: si produrrebbe una situazione molto sgradevole e oltretutto priva di qualsiasi interesse. Che cosa gliene dovrebbe importare ai lettori di Roars di tutto questo? Comunque, siccome pare che a qualcuno questo tema affascini, risponderò una volta per tutte e poi basta, almeno spero. A quanto sembra, la principale imputazione a mio carico è di aver collaborato con il ministero Gelmini. Non è nuova: nel 2009 qualcuno in rete mi paragonò a Marco Biagi e dovetti rivolgermi alla Digos.
    Il fatto curioso, che forse Lorinczi non sa, è che col ministero Gelmini hanno collaborato tantissime persone, di tutte le parti politiche. Per esempio, tanto per fare un nome, l’ex-ministro Berlinguer. E queste persone, pur essendo su posizioni politiche opposte o comunque diverse, andavano molto più d’accordo con lei di quanto ci andassi io. L’aspetto giusto del loro atteggiamento è che si agisce per il bene del paese, in coerenza con le proprie idee. Per esempio, tutta la commissione che ho presieduto e che ha varato il TFA (poi stravolto in modo indegno, per pressione di sindacati e associazioni che il ministro ha avuto il torto di subire, e Profumo ha fatto ancora peggio) era tutta composta di persone non omogenee politicamente al ministro. Volevamo fare un buon lavoro, l’abbiamo fatto, lo difendo e quando è stato stravolto abbiamo preso le distanze. Ho (abbiamo, in molti) ritenuto che vi fossero delle speranze di cambiare qualcosa nel sistema dell’istruzione. Difendo la fondatezza di questa convinzione. Il ministero è in preda da decenni al controllo di una lobby politicamente trasversale che ha un sostegno potente in Confindustria, che non a caso appoggia a spada tratta l’Anvur e cerca di fare di scuola e università un luogo di formazione di addetti alle imprese. Ebbene, ho sperato che la presa di questa lobby si allentasse, e sono convinto che per un breve periodo si è allentata, altrimenti uno con le mie idee mai sarebbe diventato presidente di una commissione. Poi il ministro – sulla cui persona non dico nulla perché è cosa che non influisce su queste considerazioni – ha deciso di riallinearsi alle solite politiche che vengono condotte da un trentennio. E allora non a caso ho preso le distanze (e con me tanti, che hanno abbandonato commissioni e collaborazioni) e ho continuato a ribadire quel che ho sempre pensato e detto. Difatti, sfido chicchessia a scoprire una sola riga in cui non siano scritte sulla valutazione (il tema che ci riguarda) esattamente le stesse cose che dico ora. Quindi, la mia “presa di distanza” è semplicemente la presa di distanza dal riaffacciarsi della solita cordata che impone alla scuola e all’università ideologie costruttiviste e manageriali che ho sempre combattuto e combatterò sempre. Sono stato ingenuo a credere che si fosse aperto uno spazio? Può darsi, ma questo non attiene alla persona del ministro Gelmini, visto che le politiche dell’istruzione da Berlinguer, De Mauro, Moratti, Fioroni, Gelmini a Profumo sono sempre le stesse, con poche varianti e modulazioni. In queste modulazioni rientra l’accentuazione managerial-ingegneristica del ministro Profumo, che è andato molto più in là anche dell’ultima fase della politica gelminiana.
    Lei sa, gentile Lorinczi, chi erano i consiglieri (io non sono mai stato un “consigliere”) del ministero Moratti? Gli stessi del ministero Berlinguer, tutti intellettuali di sinistra, peraltro, con l’aggiunta di qualcuno, con la Moratti, vicino alle sue posizioni ma accomunato a quelle degli altri dallo stesse visioni pedagogistiche. All’inizio del ministero Gelmini si sono affacciate persone nuove come il sottoscritto, e altri di cui non mi pare il caso di fare i nomi. Siamo riusciti a delineare un percorso innovativo per la formazione insegnanti nel breve lasso di quattro mesi (entro fine 2008). Hanno provveduto a farlo a pezzi. Siamo riusciti a fare le nuove indicazioni nazionali per i licei, che difendo e per le quali c’è al ministero chi ci impiccherebbe all’albero di trinchetto. Stavamo per fare le nuove indicazioni per le primarie e prontamente hanno sciolto la commissione (guardi che porcheria ha confezionato la commissione nominata da Profumo). Abbiamo sperato che alcuni aspetti della legge universitaria fossero innovativi. In fondo, l’abilitazione nazionale è una buona idea, in Francia si fa tempo immemorabile con ottimi risultati e la tenure track era un’altra buona idea. Abbiamo ritenuto che opporsi a tutto questo parlando soltanto di precari e salendo sui tetti non fosse affatto ragionevole. Ma mentre dicevamo questo avvertivamo che bisognava evitare una visione dell’università improntata a uno squallido managerialismo e evitare come la peste le valutazioni automatiche di tipo bibliometrico. È andata come è andata e abbiamo “preso le distanze”. Ma non soltanto dal ministro Gelmini, bensì da quel vasto fronte che raccoglie segmenti influenti di tutte le parti politiche. E purtroppo egemoni. Leggo che l’on. Mazzarella (Pd) scrive cose quasi identiche a quelle che scrivo io, e in tono non meno drastico. Non mi pare che riesca a smuovere alcuno nel suo partito. E potrei continuare con gli esempi. Io poi non appartengo ad alcuna formazione politica. E allora perché mai si occupa tanto di me? Forse perché non mi piace il motto di Pajetta? In cambio, mi piace quello di Lassalle… E allora come la mettiamo?

  15. “l’abilitazione nazionale è una buona idea, in Francia si fa tempo immemorabile con ottimi risultati e la tenure track era un’altra buona idea. ”
    Si d’accordo ma si renderà conto che non si può mettere ad esaurimento la fascia dei ricercatori (confermando la Moratti) senza una prospettiva concreta per le circa 20 K persone che la popolano e che, in gran parte, hanno fatto il proprio dovere scientifico sostenendo fortemente anche l’offerta didattica. Non mi si dirà che il problema andava risolto con il transitorio previsto per le abilitazioni perchè tutti sapevano che non c’era un euro. Forse chi saliva sui tetti una qualche ragione ce l’aveva.
    Lancio un’idea (magari non nuovissima): perchè, come in altri paesi civili, non un ruolo unico della docenza (suddiviso per fasce e con meccanismi di avanzamento permanenti basati sulla valutazione individuale) a cui si accede per chiamata diretta? Così la finiamo con questa pantomima dei concorsi e può darsi che riusciremo a dotarci di un ANVUR decente che fa il proprio mestiere valutando ex post le strutture e i loro docenti.

    • Lo so, è lo stesso problema che blocca la scuola con le graduatorie permanenti. Però ci vorrebbero soluzioni di mediazione e ragionevoli che non escludano la verifica di merito. Perché nella scuola tra i precari vi sono persone che tirano la carretta da anni lavorando egregiamente e gente da nulla che pretende il posto fisso perché ha avuto supplenze. Idem all’università, sia ben chiaro in tutti i ruoli. Però i passaggi ope legis per favore no, basta. E chi saliva sui tetti voleva proprio questo, perché alla fine il posto di ricercatore non è un posto precario. Non capisco bene: se i soldi non ci sono per passare con le abilitazioni, perché ci dovrebbero essere per trasformare i ricercatori in professori? Molta gente è salita sui tetti con intenzioni oneste, ma non mi si neghi che altri (e non pochi) volevano cogliere la palla al balzo per passare di ruolo automaticamente senza verifiche. Del resto, diciamolo, è dagli anni settanta che l’università va avanti così e gran parte dei ricercatori anziani sono borsisti assunti ope legis in quel periodo. Ruolo unico della docenza? Francamente non so quanti paesi civili l’abbiano. Non negli USA, non in Francia, non in Germania, ecc. ecc. Tra un full professor e un associate professor c’è un valico e grande. E anche nei paesi del terzo mondo i ruoli distinti ci sono, eccome. In che senso la permanenza dei ruoli escluderebbe la chiamata diretta? In questo senso sull’idea sono d’accordo: chiamata diretta e verifica ex-post.

    • Io non ho parlato di “ope legis” ma una soluzione, anche in prospettiva, era doverosa. A quanto mi risultaiI ricercatori della rete 29 aprile non hanno mai parlato di ope legis. Francamente non riesco a capire come si possa dire a 20 K persone che il loro ruolo è ad esaurimento senza prospettargli nulla, che so, una via d’uscita.
      C’è tanta gente, glielo assicuro, che ha lavorato moltissimo e che comincia a pensare che in fondo non ne valeva la pena. Io, intorno a me non vedo lavativi tra i ricercatori, ma magari non sarà così ovunque.
      Il punto è questo: i ruoli PO e PA sopravvivono alla L. Gelmini mentre quello di RTI no; eppure la L. Gelmini non fa differenza tra le procedure concorsuali di uscita da PA verso PO e da RI verso PA. A me non sembra ragionevole.
      Il ruolo unico, secondo me, è nei fatti nella misura in cui ci si rende conto di quanta parte della didattica è sostenuta dai ricercatori (che sono anche scientificamente attivi, beninteso). Tuttavia se non convince il ruolo unico, bene, ma non si può chiedere ad uno scienziato di sostenere 4 concorsi nella sua vita accademica (Dottorato, RI, PA, PO) con tutte le implicazioni del caso di cui discutiamo quotidianamente causa mediane. E’ vero che c’è differenza tra Full e Associate ma questa mi sembra più una differenza di “funzioni” piuttosto che di “ruoli giuridici”, come invece si configura da noi. Pur nel ruolo unico, la differenza di funzioni resta, naturalmente con relativo corrispettivo economico.

    • Capisco molte delle sue ragioni ma non quella che non si possa chiedere di sostenere molti concorsi. Io ho fatto quello per borsista e poi per assegnista, quindi un concorso per assistente, per professore incaricato, l’idoneità per associato e cinque volte il concorso per ordinario (due per matematiche complementari e due per storia della scienza). Nonostante gli ultimi siano stati dovuti alle solite mafiate accademiche non mi lamento, mi sembra abbastanza normale. Mio figlio, che vive all’estero, per entrare e fare un primo passaggio di ruolo ha già fatto due concorsi (li si chiami come si vuole, sono più selettivi dei concorsi nostrani) e ancora sta a un livello di tipo assistente. Per arrivare a full professor hai voglia… Questa di voler entrare in ruolo al primo colpo e poi fare progressioni mediante semplici verifiche interne di carriera non la capisco proprio. Non vi sono differenze di ruoli giuridici all’estero? Alcune posizioni sono a posto fisso, altre sono com’era l’assistente o l’aiuto qui un tempo: sottoposte a rinnovo periodico. Non facciamoci l’idea che fuori sia il bengodi. È molto più dura che qui e si richiede molta più didattica.

    • Didattica e ricerca convivono male in un sistema che guarda solo alla distinzione nella ricerca. Un tempo mi sembra di ricordare che in UK i posti di lecturer e senior lecturer erano mantenuti dalla università dopo i pensionamenti mentre quelli di reader e full professor venivano rimessi in discussione. La ragione ovvia era che l’università viveva degli studenti e questi dovevano andare a lezione. Il senior lecturer guadagnava come il reader più o meno.
      Questo sistema di abilitazione che stiamo discutendo è nettissimamente a favore di coloro che sono entrati ricercatori intorno al 2000 nei settori bibliometrici. Favorisce le cordate e non vedo come si possa pensare che sia una soluzione ai nostri problemi. La didattica continuerà a ricadere in massima parte sugli esclusi da questa valutazione.

    • Parlando di “molta più didattica” a chi si riferisce?
      Qui da noi a ingegneria il ricercatore che tiene corsi (cioè tutti) lo fa da solo. Senza dottorandi precettati, teaching assistants, esercitatori o altro: da solo, dalla prima all’ultima ora, dal primo all’ultimo verbalino.
      Di contro i miei allievi andati in erasmus mi dicono che nelle prestigiose sedi europee (quelle che ci eclissano, trendsetting e così via, come KTH, Aalborg, Delft) c’è a supporto dei corsi una pletora di assistenti a vario titolo (borsisti, laureati, dottorandi etc.). Il che, a occhio, rende l’impegno didattico dei nostri (indubbiamente prestigiosi) colleghi molto meno epico di quanto possa parere.

    • Mah.. un punto d’incontro mi pare si possa trovare a patto di evitare affermazioni apodittiche su precari nullafacenti, docenti lavativi o pretese di carriera automatica. Io non vedo nulla di scandaloso nel fatto che l’ateneo di turno, che ha bisogno di un docente, mettiamo, di antropologia, seleziona con i criteri propri il migliore. Certo siamo in Italia e queste pratiche si presterebbero a evidenti rischi. Ma se avessimo un organismo di valutazione serio che fa il suo mestiere (e non perde tempo e soldi a calcolare le mediane) le pratiche scorrette, forse, potrebbero essere debellate. D’altronde la storia recente e passata sul sistema dei “concorsi” non mi pare deponga a favore di queste procedure. Eppoi chi ha mai parlato di semplici “verifiche interne”? Delle due l’una: o cerchiamo di andare verso un sistema anglosassone, e allora mi spiega che senso ha, ad esempio, il nostro “concorso” per il dottorato? Mi risulta (ma potrei sbagliarmi) che in UK non si sognano minimamente di fare queste stupidaggini. In tale ottica i “concorsi” non hanno senso e l’unica cosa che conta è la selezione per la ‘open position’ di turno, qualunque essa sia, anche di Full Professor o di Faculty Dean.
      Oppure facciamo i “concorsi” come li conosciamo, cioè banditi in GU, con la commissione eletta o sorteggiata, con i verbali, i ricorsi e tutto il contorno.
      Mi sbaglierò ma non penso che introdurre elementi tipicamente anglosassoni (la tenure track) in un italianissimo quadro di abilitazione nazionale (peraltro già sperimentato in passato) funzionerà. Ma allora lo ripeto più convinto che mai: chiamate dirette ad ogni livello (con rigorose procedure di selezione per ogni Vacancy) e valutazione ex-post. Se l’ateneo vuole il migliore (non Palmiro) per non essere penalizzato successivamente si doterà di procedure di selezione molto rigorose. Oppure continuiamo la manfrina dei concorsi in cui ad ogni livello più o meno sappiamo già chi vince e non c’è valutazione di sorta (e quindi neanche premio o sanzione) perchè l’anvur invece di fare il proprio mestiere calcola le mediane.

    • “Però i passaggi ope legis per favore no, basta. E chi saliva sui tetti voleva proprio questo, perché alla fine il posto di ricercatore non è un posto precario.”

      Trovo paradossale (e peraltro anche leggermente sgradevole) che il Prof. Israel, per convincerci di esser stato in buona fede anche quando era in prima fila tra i supporter della riforma Gelmini, cerchi di screditare proprio coloro che a quella riforma si erano opposti.

      Vorrei peraltro far notare che l’attuale “ritrattazione” del Prof. Israel e’ tanto eccessiva nei toni quanto poco convincente nella sostanza.

      Davvero il Prof. Israel poteva, in buona fede, dare credito ai proclami del Governo Berlusconi, famoso per esser capace di dire tutto ed il contrario di tutto?

      Davvero era credibile che il Ministro Gelmini potesse essere garante della meritocrazia? (proprio lei, famosa per aver raggiunto la poltrona ministeriale dribblando qualsiasi filtro meritocratico!)

      Insomma, queste scuse mi ricordano tanto quelle di qualcuno che disse: “Credevo che Ruby fosse la nipote di Mubarak”.

    • non faccio l’avvocato e nemmeno il moderatore, ma devo dire che, in questo caso, l’accusa di mancanza di buonafede (che si spinge fino all’accostamento alla faccenda di Ruby ecc) e’ a mio avviso fuori luogo, anzi, se posso dirlo, ma non dovrei dirlo, di cattivo gusto; può capitare a tutti noi di sbagliare nelle proprie valutazioni, giusto? (negarlo sarebbe come affermare di avere la chiave della infallibilità); ma questo non significa che ogni volta siamo in malafede, anche se c’erano già motivi per fare una scelta diversa;

    • Sono abbastanza d’accordo con Di Biase.
      E’ ben vero però che siamo tutti un poco esacerbati dagli anni di Mr. B., in cui ci si è sentiti spesso in una trincea assediati da una classe politica che si distingueva per arroganza ed ignoranza, e che dunque non è facile dare credito a chi è apparso in una certa fase come un supporter di quella classe politica.

      La mia impressione è che il prof. Israel sia persona che, come dicono gli americani, cerca di fare la cosa giusta. Certo, mi sentirei di dire che tra le sue molteplici competenze non c’è una elevata competenza in filosofia politica, giacché altrimenti non mi spiegherei come possa mai aver creduto alle istanze liberali di un gruppo di potere che aveva reiteratamente manifestato la propria assoluta estraneità alla cultura liberale (meglio, alla cultura in genere, per accidente anche quella liberale).

      Dunque, premesso che apprezzo molti degli argomenti di Israel e che sono perfettamente convinto della sua buona fede, credo che un paio di suoi riferimenti potevano rimanere nella penna.

      In primo luogo il riferimento ai ricercatori che protestavano sui tetti: è evidente per chiunque abbia seguito la vicenda che le ragioni della protesta di allora non erano affatto mosse da intenti di ope legis, né da una ostilità generica verso una modifica dello status quo. E’ legittimo non aver seguito da vicino la vicenda, ed è legittimo non sapere, ma non è legittimo sparare a zero su gente che, a loro volta cercava di fare la cosa giusta, e peraltro con argomentazioni che con il senno di poi sono risultate in gran parte lungimiranti.

      La seconda cosa su cui, a mio sommesso avviso, il prof. Isreal farebbe bene a riflettere è la sua convinzione, mi si permetta, ingenua di poter dividere il mondo in fautori della libertà e dirigisti (Sovietici trinariciuti). Il mondo è sempre stato ed è vieppiù oggi molto più complesso, e dicotomie ideologistiche servono solo ad acciecare nel giudizio, non a discernere con lucidità. Io tenderei a stare, per inclinazioni culturali sul fronte opposto alle pretese della ‘mano invisibile’, ma non ho difficoltà ad ammettere che in molti casi il modello di organizzazione delle relazioni di tipo liberale ha vantaggi che altri sistemi ‘costuttivisti’ non hanno. Ma le cose si valutano nel merito, non con l’adozione pregiudiziale di occhiali colorati buoni per tutti i panorami.

    • “[…] in questo caso, l’accusa di mancanza di buonafede (che si spinge fino all’accostamento alla faccenda di Ruby ecc) e’ a mio avviso fuori luogo […]”

      Caro Fausto,
      se Israel, nel tentativo di riabilitarsi, si inventa ricostruzioni storiche farlocche, be’ allora il sospetto di un deficit di buona fede mi pare piu’ che giustificato.

      Lo sanno tutti: chi nell’autunno 2010 stava sui tetti aveva un unico obiettivo, il ritiro della una riforma Gelmini.

      C’erano al tempo -e’ vero- anche ricercatori che invece puntavano al qualcosa di simile ad una “ope legis”: questi erano i “dialognati” (vedi http://tinyurl.com/brxe23c ), che peraltro venivano anche invitati ai convegni di “Magna Carta”, tipo quello di Bologna (12/2/2010: http://tinyurl.com/d9e6csj ).

    • Senta, ho già detto che le discussioni di merito vanno bene, i tentativi di screditare le opinioni altrui parlando di malafede o consimili valutazioni personali (incluso il tentativo di farmi passare per berlusconiano) sono metodi che qualificano chi li usa. Parli pure contro il muro, a questo livello non discuto.

    • Gentile Giorgio,

      La riforma Gelmini era quello che vediamo adesso. I ricercatori era sul tetto perchè era una riforma a favore dei Boroni e dei parassiti con amici. Non per l’ope legis.

      Non è degno di Lei usare la denigrazione conto chi non la pensava come lei. Come poi afferma loro avevano ragione ne lei torto.

      Se po’ dice che molti e non pochi erano li per l’ope legis si squalifica del punto di vista umano. Faccia i nomi di chi conosce lei che era li per l’ope legis. Se erano molti non avrà problemi a fare almeno due nomi. Se no certi trucchi retorici se li risparmi.

      Chi era sul tetto aveva ragione e lei aveva torto. Punto.

  16. Qualcuno riesce ancora ad accedere ai cv dei candidati commissari?
    Io non ci riesco più. Funzionano tutti gli altri link, ma non quello.

  17. Cari Colleghi, vorrei fare una piccola riflessione.
    Lasciamo stare per un attimo i criteri (giusti/sbagliati)
    L’abilitazione di fatto è solo a titoli e non a titoli ed esami.
    Quindi le commissioni non vedranno mai in faccia il candidato.
    Con questo sistema una persona può tranquillamente “assoldare” (non voglio utilizzare altri termini) qualcuno per fare pubblicazioni a suo nome (anche di fascia A). La commissione, non esistendo una discussione sui titoli, come può comprendere che l’articolo non è scritto dal vero autore ma da altri ?. Personalmente proprio per questo motivo avrei lasciato almeno la discussione dei titoli.

  18. Gentile Prof. Israel, La ringrazio. Sì, ho letto anche l’articolo di Mazzarella. La ringrazio soprattutto per le ulteriori informazioni, anche se la questione TFA mi lascia di nuovo meravigliata (oggi un collega mi ha raccontato altri dettagli pazzeschi sul riconoscimento del curriculum dei candidati tirocinanti), ma non insisto oltre. Sì, sapevamo anche della partecipazione di persone del PD (dove il responsabile per l’università è Marco Maloni), degli interessamenti o pressioni della Confindustria, delle preoccupazioni dell’ex ministro Belinguer rispetto agli esiti di una riforma in cui ha avuto un ruolo importante (e voleva salvarsi in corner davanti all’opinione pubblica). Insomma della convergenza su un’idea di, come dire, moralizzazione di quell’università che ha utilizzato male l’autonomia affidatale e che è diventata, in soldoni, un mercato dei CFU, un produttore spendaccione di precari (sia docenti che amministrativi) e un mostro iperburocratico. E poi la questione dei concorsi, soprattutto in certi settori, anche se non credo che in percentuale la situazione fosse così disastrosa o scandalosa come hanno scritto certi giornali.
    Grazie dunque per le informazioni aggiuntive e utili e per il tempo che ci dedica ma, se posso esprimere questo mio parere, la frattura completa tra operato e idee non posso condividerla sebbene noi non siamo l’incarnazione della perfezione (e credo esistano biblioteche intere sull’argomento). Ma un po’ di coerenza ci vuole e la cito: “si agisce … , in coerenza con le proprie idee”.

    • E chi ha mai sostenuto la frattura tra idee e operato? Per quanto mi riguarda è il contrario. Appena ho visto che per continuare a collaborare con ministero dovevo andare contro le mie idee ho girato i tacchi e comunque ho sempre scritto quel che pensavo. Francamente non capisco.

  19. A 1saqquara: va benissimo, siamo d’accordo, ma le selezioni per i posti disponibili non è che siano meno dure di un concorso, nella sostanza, s’intende. Comunque, non ho mai detto nulla di diverso: assunzione diretta e selezione ex-post. Certo, che se si concepiva l’abilitazione nazionale come una scrematura e poi le università assumevano assumendosi la responsabilità salvo risponderne ex-post c’eravamo arrivati vicino… Ricordo benissimo che si era detto che questo si voleva e poi ora ci ritroviamo con l’esatto contrario. Piccolo commento: non mitizziamo UK, per favore, ormai certe università inglesi sono l’ombra di un tempo. Ci siamo dimenticati lo scandalo di LSE pronta a offrire qualsiasi cosa al primo sceicco pagante? Quanto alla didattica (StefanoL) dipende, sia da noi che altrove. In certe facoltà italiane c’è uno sfruttamento indegno, in altre francamente no. E comunque ricordo bene colleghi americani (per esempio a Berkeley) letteralmente disperati per non riuscire a finire un libro da dieci anni per l’enorme carico didattico.

    • “se si concepiva l’abilitazione nazionale come una scrematura e poi le università assumevano assumendosi la responsabilità salvo risponderne ex-post c’eravamo arrivati vicino”

      È un’idea del tutto sensata. L’abilitazione funge da controllo di qualità affidato alla comunità scientifica nazionale, ma viene lasciato un margine (ragionevole) di autonomia alle sedi nella selezione dell’abilitato. Meglio dei concorsi locali, ma anche meglio dei concorsoni stile 382/80 dove la necessità di accoppiare N idonei sulle N sedi che avevano bandito i posti era fonte di grossi problemi. Rispetto alla legge Moratti mai attuata, la differenza è che nella 240/2010 l’abilitazione è a numero aperto. Il timore che potesse trasformarsi in un “ope legis” è stata una delle motivazioni per l’invenzione di astruse tagliole bibliometriche di cui si è perso il controllo tecnico e legale.

    • Secondo me si parla impropriamente di ope legis. Ope legis non vuole dire immissione in ruolo di massa. Il filtro anvur delle due mediane su tre potrebbe trasformarsi in una procedura ope legis (per disposizione di legge). Chi passa il filtro è abilitato. Circa 1/3 dei PA in servizio. Se fosse così sarebbe una ope legis. Questo potrebbe accadere e nessuno parlerà di ope legis, assurdo.

    • Nel dibattito sulla questione universita’/reclutamento la formula “ope legis” e’ stata coniata per far riferimento al reclutamento per via di legge della 382/1980 ed ogni volta che viene usata s’intende un reclutamento di massa (todos cabelleros) fatto sulla base di “titoli” e non sulla base di un concorso (ope legis ora pro nobis – cit.): uno spauracchio da usare per gabbare gli ingenui. L’abilitazione, anche se conseguita da qualche decina di migliaia di canditati, non puo’ essere paragonata all’ope-legis (382/80) in quanto gli abilitati avranno una medaglietta e basta: i reclutamenti verranno comunque fatti con il contagocce.

    • @Francesco Sylos Labini
      Non credo che quella medaglietta non conterà nulla. L’università non è la scuola.

    • @Thor: conterà qualcosa per qualche percento degli abilitati. Il paragone tra l’abilitazione e l’opelegis del 1980 è però improprio per il fatto che gli assunti saranno comunque pochissimi per mancanza di risorse. Aggiungo che l’effetto combinato della Riforma Gelmini con i tagli della 133/2008 (Tremonti) è prorpio un downsizing dell’università (da 60,000 a 40,000 docenti permanent) e questo era chiaro sin dal 2009.

    • Non mitizzavo il regno unito e comunque mi riferivo più ad Oxford che non alla LSE. Non è possibile immaginare che dove oggi c’è una posizione di full professor (PO) questa debba rimanere in eterno magari al suo discepolo mentre è sempre importante che ci sia qualcuno dedicato al massimo possibile alla organizzazione dei corsi di studio e di tutto quello correlato. Cosa che i senior lecturers fanno egregiamente nel pieno rispetto di tutti.
      Quei colleghi americani di cui parla non potrebbero fare carriera in Italia così come, molto probabilmente, quei nostri ricercatori che sono sovraccarichi di corsi di servizio (fisica a ingegneria, chimica a biologia ecc…).

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