Comunicare tutto a tutti. Abbattere in concreto il paradigma della segretezza e ogni ostacolo che si oppone alla libera circolazione della conoscenza scientifica. Tutti i risultati della ricerca finanziata con fondi pubblici deve essere «open access»: accessibili a chiunque. È questo il senso di una direttiva emanata nei giorni scorsi dal Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, che potrebbe rivoluzionare quella che il fisico John Ziman chiamava «l’istituzione sociale fondamentale della comunità scientifica»: il sistema di comunicazione.

La direttiva del Presidente riprende alla lettera il memorandum del White House Office of Science and Technology Policy (OSTP) diretto da John Holdren, consigliere scientifico di Obama e scienziato molto noto: tutte le agenzie federali che investono in ricerca e sviluppo (R&S) più di 100 milioni di dollari l’anno (in pratica tutte le agenzie che dipendono dal governo degli Stati Uniti) devono elaborare un piano affinché i risultati delle ricerche che finanziano siano liberamente accessibili al pubblico entro un anno dalla loro pubblicazione».

Gli Stati Uniti sono la massima potenza scientifica del mondo. E una simile decisione potrebbe rivoluzionare il mercato della comunicazione scientifica. I risultati delle ricerche, infatti, vengono pubblicati da editori privati su riviste scientifiche a cui ci si abbona. Le riviste con peer review (con revisione critica e anonima a opera di colleghi esperti degli articoli pubblicati) più accreditate al mondo sono 25.000 e l’abbonamento medio è di 3.000 dollari l’anno (con punte che raggiungono i 40.000 dollari). Il mercato è miliardario (in dollari) controllato da poche case editrici (le prime tre coprono il 42% degli articoli pubblicati) che ottengono un guadagno medio che supera il 40% degli investimenti.

Molti trovano bizzarro questo mercato. Perché gli stessi scienziati che scrivono e svolgono la peer review (la revisione critica) senza compenso sono gli stessi che, attraverso le loro istituzioni, acquistano le riviste. In pratica non solo lavorano gratis, ma pagano per usufruire del loro lavoro. Sta di fatto che pochi centri al mondo possono accendere abbonamenti a migliaia di riviste con una spesa di milioni di dollari l’anno. In questo modo la circolazione dei risultati scientifici è, di fatto, molto limitata.

Anche per questo è nato un movimento mondiale che chiede un sistema di comunicazione della scienza on line con peer review totalmente open access: in rete, libero e gratuito. I vantaggi sarebbero enormi e di diversa natura. In primo luogo, un vantaggio logistico: la comunicazione in rete eviterebbe a università e centri di ricerca la necessità, sempre più difficile, di trovare spazi per le biblioteche cartacee. Poi c’è il vantaggio dei costi: un sistema ad accesso libero e gratuito consentirebbe di eliminare gli abbonamenti e di risparmiare un bel po’ di quattrini. Si calcola che gli abbonamenti alle riviste costituiscano tra il 2,5 e il 3,0% delle spese di un’università americana o inglese.

C’è un vantaggio sociale. Il costo degli abbonamenti taglia fuori soprattutto i ricercatori di paesi e istituti poveri dalla possibilità di accesso a una quantità importante dell’informazione scientifica che conta. Il libero accesso darebbe le medesime chances a tutti. Ma c’è, soprattutto, un vantaggio cognitivo. La scienza moderna è un’impresa collettiva. Portata avanti da una comunità. Che è potuta nascere, nel XVII secolo, perché, come diceva (e documentava) Paolo Rossi, il grande storico delle idee scientifiche scomparso un anno fa, ha abbattuto il «paradigma della segretezza»: comunicando in linea di principio «tutto a tutti». Nella comunità scientifica la conoscenza è considerata un bene comune. Tant’è che, come sosteneva il sociologo Robert Merton, il «comunitarismo» è il primo valore della comunità scientifica. Un valore che determina effetti pratici desiderabili: perché se tutti in linea di principio conoscono tutto, lo scopo sociale della comunità aumentare la conoscenza sul mondo ha maggiori probabilità di essere raggiunto.

Il movimento dell’«open access» punta dunque a questo: ritornare al valore fondante della scienza, la comunicazione totale e trasparente. Questo valore è oggi ostacolato non solo e non tanto dal costo di accesso alla conoscenza (gli abbonamenti), ma soprattutto dal fatto che molta ricerca scientifica è realizzata nei laboratori di imprese private, che a quello del «comunitarismo» oppongono il valore della «proprietà»: sono io che metto i soldi per fare ricerca, dunque i risultati di questa ricerca sono miei e io ho il dovere di utilizzarli, anche in segreto, per promuovere il successo economico della mia azienda. I privati investono molti soldi nella ricerca. Si calcola che dei 1.400 miliardi di dollari che il mondo ha speso nel 2012 in ricerca e sviluppo (R&S) i due terzi (oltre 900 miliardi) siano di fonte privata. A lungo si è dibattuto e molti hanno creduto che i vantaggi nella produzione di nuova conoscenza scientifica ottenuti grazie a questa enorme quantità di risorse private superassero gli svantaggi. Oggi si va affermando l’idea che la massima creatività si ha solo in una condizione di «comunitarismo»: ovvero di totale condivisione e comunicazione dei risultati scientifici. E che questa condizione debba essere garantita soprattutto alla fonte della creatività scientifica: alla ricerca fondamentale, di base, curiosity-driven. Dunque, non è una contraddizione se i motivi di fondo addotti per l’«open access» della scienza da Barack Obama e dall’Ostp, l’Ufficio per la politica della scienza e della tecnologia di John Holdren, sono di tipo utilitaristico.

Una maggiore circolazione dei risultati scientifici, dicono alla Casa Bianca, favorisce sia la generazione di nuova conoscenza sia un più rapido trasferimento del know how e alimenta l’innovazione tecnologica, che è il motore dell’economia nell’era della conoscenza. Considerazioni analoghe sono state proposte da David Willets, Ministro della ricerca nel governo conservatore di David Cameron, che in Gran Bretagna ha fatto proprie le proposte sia della Royal Society, la prestigiosa accademia che nel Seicento ha pubblicato le Philosophical Transactions e ha inaugurato il moderno sistema di comunicazione della scienza, sia del Working Group on Expanding Access to Published Research Findings, il comitato diretto dalla sociologa Dame Janet Finch e creato apposta per fornire indicazioni al governo sulla politica da seguire nella comunicazione della scienza. L’«open access», il libero accesso ai risultati scientifici, sembra mettere d’accordo tutti: idealisti e utilitaristi. Tanto che un nutrito gruppo di scienziati e la stessa Royal Society propongono un’ulteriore accelerazione: gli «open data». Che i ricercatori mettano i dati raccolti, anche e soprattutto quelli non pubblicati, a disposizione di tutti. Nella certezza che la loro libera e integrale circolazione determinerà l’irruzione sulla scena di un nuovo paradigma epistemologico. O, detto in altri termini, di un nuovo modo di produrre scoperte scientifiche. L’immenso oceano dei dati è oggi gestibile dai computer e può essere navigato da algoritmi intelligenti che da quel mare di informazioni sapranno trarre nuove conoscenze sul mondo.

(Articolo pubblicato da l’Unità di lunedì 11 marzo 2013)

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5 Commenti

  1. Volevo lanciare una provocazione: in realtà per la circolazione della conoscenza il problema vero non sono le pubblicazioni inaccessibili al pubblico generale quanto i brevetti. Se un’azienda privata investe in ricerca, ha assolutamente il diritto di proteggere la sua proprietà intellettuale tramite un brevetto. Ma se è sicuramente accettabile o auspicabile la produzione di brevetti nel caso di privati, vale lo stesso discorso nel caso di ricerche finanziate interamente con fondi pubblici? Il brevetto NON è una pubblicazione, serve a garantire a qualcuno il diritto di sfruttare per fini economici una scoperta. Il brevetto una volta ottenuto è di dominio pubblico, tuttavia il processo di brevettazione e il tempo in cui l’ufficio brevetti accetta la domanda sono lunghi, per non parlare del tempo che gli autori dedicano alla scrittura del brevetto. Sicuramente, i tempi richiesti affinché un brevetto divenga di pubblico dominio sono molto più lunghi della maggior parte delle pubblicazioni. Inoltre, una procedura presentata in un brevetto non presenta gli stessi dettagli di un buon articolo scientifico. La differenza è che un articolo scientifico può essere pubblicato molto velocemente ed essere accessibile dietro il pagamento di una cifra modesta (30-50 euro), mentre le informazioni di un brevetto possono rimanere confidenziali per un tempo molto più lungo: i brevetti hanno una scadenza (20 anni in generale) per cui è normale che gli autori tendano a ritardare il più possibile la pubblicazione del brevetto al fine di estendere il suo periodo di validità. Il sistema di peer review delle maggiori società scientifiche sarà anche criticabile, ma sicuramente seleziona abbastanza bene gli articoli in base alla qualità. La mia impressione nel mio campo specifico, è che non ci sia paragone tra la qualità delle pubblicazioni delle società scientifiche a pagamento e quella delle riviste open access. Inoltre, una parte significativa degli articoli scientifici è comunque accessibile al pubblico (abstract, parole chiave, materiale supplementare) e indicizzato nei database. Questo basta in molti casi per decidere se sia necessario acquistare tutto l’articolo per la propria ricerca o meno.
    In conclusione, tutte le università hanno un ufficio brevetti e questi sono presentati come titoli nei concorsi. Congratulazioni a chi operando nel pubblico lavora davvero, producendo risultati importanti anche se presentati sotto forma di brevetto, ma una riflessione se per il bene della scienza e del pubblico generale sia meglio pubblicare su riviste serie ed importanti o brevettare le proprie ricerche finanziate da fondi pubblici andrebbe fatta…

    • Il principale scopo di un brevetto è quello di impedire ad altri di sviluppare una innovazione, mantenendone quindi il monopolio. Si legga a questo proposito il bel libro di Michele Boldrin e David K. Levine “Against intellectual monopoly”, Cambridge University Press 2008. Lo scopo di una università dovrebbe invece essere quello di diffondere e sviluppare le idee e le innovazioni che ne derivano. Le università quindi non dovrebbero brevettare nulla né concedere ai propri dipendenti il diritto di brevettare innovazioni ottenute nel corso del loro lavoro come dipendenti.

    • “in realtà per la circolazione della conoscenza il problema vero non sono le pubblicazioni inaccessibili al pubblico generale quanto i brevetti.”
      Si sbaglia, il problema vero è l’impossibilità ormai sempre più diffusa di accedere a tutta la letteratura di cui ci sarebbe bisogno per la propria ricerca. Non si può ragionare a colpi di 50 euro nel momento in cui la ricerca finanziata con fondi pubblici è già stata pagata e ripagata più volte.
      “La mia impressione nel mio campo specifico, è che non ci sia paragone tra la qualità delle pubblicazioni delle società scientifiche a pagamento e quella delle riviste open access”
      E’ un’opinione infatti. Plos o Biomed pubblicano riviste pari per qualità a qualsiasi rivista toll access.
      Ma non si tratta solo di Open Access gold (riviste in cui paga chi pubblica, l’autore o la sua istituzione, perché tutti possano leggere). Esiste anche la possibilità di ripubblicare gli articoli apparsi in riviste a pagamento (dopo un periodo di embargo definito) negli archivi istituzionali o disciplinari (pubmedad es.) o nazionali come in Francia. Questo perché l’interesse dei ricercatori è che la loro ricerca sia letta, criticata, citata, non chiusa in piattaforme accessibili a pochi, e l’interesse delle istituzioni è quello di rendicontare ai diversi portatori di interessi i risultati dei finanziamenti ricevuti.
      Una settantina di rettori italiani o loro delegati si sono impegnati a sostenere l’accesso aperto nelle sue diverse forme già nel 2004 con la dichiarazione di Messina http://www.aepic.it/conf/Messina041/viewpaper5af5.pdf?id=49&cf=1 . Purtroppo pochi se ne sono poi ricordati, anche se mi pare che la situazione stia lentamente cambiando

  2. @Paola Galimberti:
    non sono affatto contrario all’open access. Anzi. Ne evidenzio solo alcuni aspetti non ottimali, che potrebbero spiegare perché in alcuni settori questa forma di pubblicazione sia ancora poco diffusa.
    Oggi, nel 2013, nel mio settore specifico (Chimica) sono convinto che nessuna delle riviste open access possa essere classificata come di eccellenza, rispetto ad alcune riviste a pagamento. Questo ovviamente non è estendibile su ogni singolo articolo ma garantisco che è assolutamente così in generale. Se qualcuno ritiene che nella chimica vi siano riviste “top” di tipo open access, pregherei di scriverne una lista specifica (limitata alla CHIMICA) così ne possiamo discutere. La mia opinione, di esperto nel mio campo, è che ben difficilmente un lavoro molto importante appaia sulle riviste open access. Il rigore del processo di peer review e l’affidabilità nella riproducibilità dei risultati di alcune riviste a pagamento “Society Owned” oggi, nel settore della chimica, non sono confrontabili con quelle open access. Non ho elementi per dire che quanto questo sia vero anche per altri settori.

    Pagare 50 euro per un singolo articolo può sembrare tanto in valore assoluto. Tuttavia, alcune informazioni contenute in un brevetto (magari derivante da una ricerca totalmente finanziata con soldi pubblici) possono non essere accessibili per un periodo molto lungo (anni). In questo caso, il pubblico può avere un vantaggio significativo dal fatto che I risultati quelle ricerche sono COMUNQUE accessibili, anche se dietro un pagamento oneroso. Insomma: guardo il bicchiere mezzo pieno…

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