Il 21 marzo, in tutte le università italiane si è celebrata la “primavera delle Università”: iniziative di riflessione e dibattiti alla presenza di Rettori, Docenti, Studenti, Amministratori locali e nazionali, per discutere insieme il futuro della nostra Università e ribadire la convinzione che la conoscenza è il principale motore e strumento di cambiamento. Tuttavia, una vera Primavera delle Università ci sarà nel momento in cui sarà chiaro che le università non possono funzionare come le aziende, che i loro ruoli culturali hanno molte sfaccettature che richiedono un’attenzione particolare, che entro settori disciplinari differenti è possibile che si lavori secondo logiche differenti. Solo allora si potrà con convinzione e fuori dalla retorica affermare che «la conoscenza è il principale motore e strumento di cambiamento».
Oggi, 21 marzo, in tutte le università italiane si celebra la “primavera delle Università”, per, recitano più o meno i comunicati ufficiali, «porre all’attenzione delle Istituzioni e della società il rischio che gli Atenei del nostro Paese perdano competitività internazionale». Iniziative di riflessione e dibattiti alla presenza di Rettori, Docenti, Studenti, Amministratori locali e nazionali, per discutere insieme il futuro della nostra Università e individuare le strategie più efficaci da portare al centro del dibattito istituzionale. Si ribadisce inoltre la convinzione che la conoscenza è il principale motore e strumento di cambiamento.
Ieri sera Riccardo Iacona ha dedicato una parte della trasmissione Presa diretta al declino delle Università, in particolare di quelle del Sud d’Italia, mettendo in evidenza come l’Università italiana dal 2008 a oggi abbia subito un’accanita e sistematica volontà di ridimensionamento, che si è concretizzata prima di tutto nei tagli del finanziamento pubblico, e poi in una serie di provvedimenti, regolamenti e imposizioni tutti all’insegna della convinzione opposta, vale a dire che la conoscenza è una spesa improduttiva.
Il dato a mio parere più eclatante che emerge, dato che gli addetti ai lavori conoscevano molto bene, è che l’Università italiana ha subito in questi anni il più grande disinvestimento nel settore pubblico della storia della Repubblica.
Le conseguenze sono state devastanti per quello che riguarda, faccio alcuni esempi, il diritto allo studio, perché sono aumentate le tasse e sono diminuiti i fondi per le borse di studio, l’offerta formativa, perché sono diminuiti i docenti a causa del blocco ottuso del turn over e dei pensionamenti massicci, i progetti di ricerca, perché i fondi sono scomparsi prima e poi ricomparsi in una misura ridicola; per non parlare dell’arresto delle progressioni di carriera per i docenti, del blocco degli stipendi, delle umilianti procedure di valutazione messe in piedi dal Ministero tramite l’Anvur, l’Agenzia di Valutazione del sistema della Ricerca, costosissimo baraccone sul quale non mi soffermo, dei vincoli burocratici che si oppongono a qualsiasi iniziativa nel settore della ricerca e della didattica si voglia avviare, e di tutti quei meccanismi all’insegna del famigerato “controllo della spesa” che può essere un principio sacrosanto ma che diventa una mannaia micidiale se applicato in modo cieco in un ambito così delicato quale è quello della produzione di conoscenza e dell’alta formazione.
Si potrebbe affermare che tutto questo è stato il segno della crisi e di un governo poco sensibile, laddove adesso si stia lentamente invertendo la rotta. Non è così, se pensiamo primo, che la crisi ha colpito anche fuori dall’Italia, e che però per esempio in Germania, i fondi per l’Università negli anni scorsi non solo non sono stati tagliati, ma sono stati aumentati notevolmente. Secondo, che i più recenti provvedimenti governativi per l’Università sono in linea con la visione “aziendale” dell’Università e della produzione di conoscenza e si muovono nel segno della più scontata propaganda. Non voglio entrare nei dettagli.
Vorrei solo sottolineare che affermare il ruolo strategico della conoscenza, della cultura, della formazione e della ricerca per il futuro di una comunità resterà pura retorica finché tale affermazione resterà ingabbiata nelle maglie del “complesso culturale neoliberale”.
Si tratta di un coacervo di idee e pratiche politiche centrato sulla convinzione che il mercato offra un modello “superiore” per regolare attività e relazioni sociali, senza distinzioni di sorta. Questo coacervo è oggi l’ideologia dominante, è parte del senso comune, è continuamente ribadito in ogni contesto, politico, giornalistico, è assunto a mo’ di riferimento indiscusso e indiscutibile da molti esponenti della “classe dirigente” nella società italiana (ma non soltanto). Ovviamente anche da chi ha la responsabilità dell’Università e della Ricerca e, in generale, della produzione di conoscenza.
Diverse parole chiave ricorrenti – rendicontazione, trasparenza, privatizzazione, controllo qualità, branding, auditing (revisione), eccellenza, ranking (valutazione) – segnalano la presenza (e l’azione) del complesso culturale neoliberale. I danni che questo complesso culturale, unito alla scarsa conoscenza dei diversi modi di produzione del sapere nei differenti settori disciplinari, ha provocato, sono ormai evidenti. Ma non sono nulla rispetto a quelli che provocherà, se non si cambia strada.
Una vera Primavera delle Università ci sarà nel momento in cui – mi auguro al più presto – sarà chiaro che le università non possono funzionare come le aziende, che i loro ruoli culturali hanno molte sfaccettature che richiedono un’attenzione particolare, che entro settori disciplinari differenti è possibile che si lavori secondo logiche differenti. Solo allora si potrà con convinzione e fuori dalla retorica affermare che «la conoscenza è il principale motore e strumento di cambiamento».
Pubblicato su Corriere.it il 21 marzo 2016
Non si può che essere d’accordo con questa analisi. Con due postille. Il divario fra università del Nord e del Sud è reale, ma non facciamoci abbagliare né dividere: il disegno distruttivo è il medesimo, solo che forse al Sud non ci sono i Bocconiani e i Politecnici a drenare più risorse.
Capisco poi che il collega antropologo chiami complesso culturale quella che è una vera e propria ideologia, una ‘visione del mondo’ che ha una determinata classe (o casta) sociale di riferimento.
Sul mito della Germania vi pregherei di leggere questo excerptum (la versione completa su nytime.com):
Under intense financial pressure, universities are undergoing dramatic change at the hands of strong administrators with broad authority to force though decisions over the objections of the faculty. Their brief is to make German universities relevant to modern needs – particularly economic ones – and rationalize their structures so they can compete with educational institutions in the United States.
That approach has put enormous stress on what German calls the “kleine Fächer” – literally: the small disciplines. These areas of study, often handled by a single professor at one university, and represented at three or four universities nationwide, cultivate a narrow field.
Though somewhat ill-defined, they are overwhelmingly from the humanities, and include such exotic areas as Albanian studies, Oriental philology and Indo-Germanic language studies. They include some sciences, like astrophysics, and some disciplines of wide public interest, notably Islamic studies.
The German University Association, a union for German academics, calculated this year that 663 humanities professorships disappeared between 1995 and 2005, or 11.6 of the overall total. Bernhard Kempen, the head of the association, said when the study was published in August that, “‘we don’t need to debate whether there is a real or perceived crisis of language and cultural studies.”
Idem in Australia. A Canberra tagliano la Scuola di Asian-Pacific studies. Negli anni ’50, quando non dettavano legge i manager, un ex-ambasciatore aveva contribuito a fondare la scuola pensando agli interessi nazionali in quell’area geografica. Adesso comandano i manager e ci si domanda che senso abbia studiare strane lingue e culture.
http://www.theage.com.au/comment/anu-celebrates-excellence-in-asiapacific-studies-by-axing-it-20160327-gnrxt6.html
La scuola di studi mesoamericanistici in Germania ricevette impulso addirittura da Alexander von Humboldt. Ai primi dell’Ottocento, quando in molti stringevano la cinghia e guerre e malattie non scherzavano, pareva all’uomo necessario studiare la storia e le lingue dei popoli.
La Germania ha prodotto nell’Ottocento più scienziati in ogni campo del sapere che il resto dell’Europa messo insieme.
Il bilancio odierno ha il sapore di un regresso devastante.
La qui auspicata primavera dell’università finirà inevitabilmente per essere una primavera taroccata …. da
[Citazione]
….. un coacervo di idee e pratiche politiche centrato sulla convinzione che il mercato offra un modello “superiore” per regolare attività e relazioni sociali, senza distinzioni di sorta.
[Fine Citazione]
Se un Antropologo auspica la primavera dell’università, quale settore disciplinare si sta occupando di vangare e concimare il terreno per una vera fioritura, che non sia fatta solo di fiori di plastica?
Deve essere finalmente chiaro – dice un Antropologo – che
[Citazioni]
1)
… le università non possono funzionare come le aziende
2)
i loro ruoli culturali hanno molte sfaccettature che richiedono un’attenzione particolare
3)
entro settori disciplinari differenti è possibile che si lavori secondo logiche differenti
4)
solo allora si potrà con convinzione e fuori dalla retorica affermare ….
«la conoscenza è il principale motore e strumento di cambiamento»
[Fine Citazioni]
Quindi dovrebbe esserci una disciplina responsabile di riportare alla luce
[vangando il terreno da coltivare]
casi di strategie aziendali e istituzionali fallite
[fertilizzandolo con la consapevolezza della cause di errori già vissuti].
Mostrando che in quei casi l’università “non c’era”, cioè che la sua assenza non contribuiva al superamento dei confini comunicativi esistenti tra le discipline da coinvolgere, si dovrebbe ottenere quella chiarezza che un Antropologo ritiene irrinunciabile per potersi aspettare una vera primavera dell’università.
Sembra allora legittimo, a un semplice cittadino “in pensione ma informato dei fatti”, chiedere:
quale settore disciplinare, per non vanificare l’auspicio antropologico, si sta occupando di vangare e concimare un terreno adeguato a una vera fioritura primaverile dell’università, che non sia solo simulata con fiori di plastica?
… da continuare … [somewhere over the rainbow]