Viviamo in un mondo in cui prevale un’ideologia che spinge ad avere sempre il meglio di quanto si possa desiderare, non certo ad accontentarsi di quello che passa casa: si vuole l’eccellenza. Non è pensabile che il fruttivendolo venda mele che hanno una macchia, una forma fuori standard, un’ammaccatura, come quelle che ci fornisce la natura. Dunque i contadini sono costretti a dare in pasto ai maiali i frutti non perfetti, anche se sono gustosi e genuini. Peggio, sono costretti ad abbattere gli alberi che danno frutti “impuri” per il mercato ed innaffiare di prodotti chimici quelli che generano le “biglie” che vediamo ben allineate sugli scaffali. Insomma, si punta al vertice e si getta al macero quello che non è glamour.
Lo stesso tipo di paradigma viene ormai diffusamente applicato nel campo della ricerca scientifica, che si pretende che sia rigorosamente “di eccellenza”. Quella che Thomas Kuhn chiamava “normal science” non ha più cittadinanza. La ricerca è un’attività incerta, imprevedibile, intrinsecamente incommensurabile. Non ci sono due ricerche che possano essere messe a confronto per poi definirne una eccellente e l’altra no. Si potrà affermare che una ricerca è promettente, originale, assurda, geniale, od attribuirle qualsiasi altro aggettivo, in base ad un giudizio espresso dai pari, ma non si potrà etichettarla come eccellente. Sono i risultati della ricerca che possono avere carattere di grande valore, produrre un grande impatto nell’ambiente scientifico, ed al di fuori di esso, fino a ricevere riconoscimenti di grande prestigio. A livello definitorio disponiamo di una definizione di ricerca scientifica accettata da decenni, quella del Manuale di Frascati dell’OCSE ma, non a caso, non esiste una definizione di ricerca di eccellenza.
Eccellere significa essere superiore, sovrastare. L’appellativo “eccellenza” veniva (e viene ancora, ahimé) usato per alcuni alti funzionari statali o per i membri dell’alta gerarchia del clero cattolico. In cosa eccella un prefetto o un vescovo sarebbe interessante saperlo. In realtà è un modo, ormai compreso dai più, per affermare il proprio potere rispetto a chi ne ha di meno, niente di più – ed in questo caso ha senso parlare di eccellenza.
Nella ricerca scientifica, se si vuole l’eccellenza, non ci si può accontentare, per definizione, del “second best” e che quindi, rimanendo nella metafora delle mele, tutti i laboratori ed i ricercatori non eccellenti debbono essere tolti di mezzo, gettati al macero. Lo stesso vale per le università non eccellenti, che dovrebbero essere chiuse.
Ma prendiamo un caso, il CERN di Ginevra. Certamente si tratta di una struttura di ricerca di primo livello dove sono state fatte scoperte di gradissimo valore che hanno prodotto risultati che in alcuni casi possono essere definiti eccellenti. E’ ipotizzabile che tutte le migliaia di scienziati e ingegneri che vi lavorano siano eccellenti? Qualcuno è bravissimo ed ha ricevuto il Premio Nobel, ma tutti gli altri contribuiscono al lavoro comune, ciascuno con le proprie capacità. Certamente molti non sono menti eccelse e quindi, secondo il criterio ideologico dell’eccellenza, dovrebbero essere licenziati. Ma se vengono licenziati, come fanno gli “eccellenti” a vincere il premio Nobel?
Insomma, sembra che la categoria dell’eccellenza della ricerca sia più il frutto di un’ideologia darwiniana delle selezione che “uccide” i “perdenti”, che mira ad un mitico Eden, ad escludere e a punire, piuttosto che a migliorare le attività tenendo conto della situazione in cui si muovono le persone e le organizzazioni. Sembra dunque una scorciatoia per trovare una soluzione a problemi complessi con intento punitivo, invece di entrare nel merito di una realtà dalle mille facce (scientifiche, sociali, economiche, politiche, ecc.).
E’ un peccato che anche il CNR sia caduto nella “trappola dell’eccellenza”. Nello Statuto adottato nel 2011 si legge che “Il CNR svolge, promuove e coordina attività di ricerca fondamentale ed applicata di eccellenza”. Attualmente è in discussione la sua revisione, ma tale comma è rimasto invariato. C’è da ritenere che la Corte dei conti avrà ben seri problemi a stabilire, nella sua relazione annuale, se la ricerca del CNR è eccellente o meno (abbiamo detto che la ricerca, per sua natura, è incommensurabile). Nel caso in cui superasse l’insormontabile problema metodologico, e visto che, come dimostrato dalla valutazione svolta dal CIVR nel 2007 , non tutta la ricerca degli oltre 100 istituti del CNR è eccellente, si troverà inevitabilmente a dover esprimere un giudizio negativo sull’operato dell’ente – con tutte le conseguenze che ciò può avere in termini finanziari.
La Fata Morgana dell’eccellenza sta mettendo i responsabili della ricerca pubblica su una cattiva strada, come la Fata Morgana della mitologia celtica,” che induceva nei marinai visioni di fantastici castelli in aria o in terra per attirarli e quindi condurli a morte” .
Trascrivo un decreto che ha forza di legge ed è tuttora vigente.
Decreto Legislativo Luogotenenziale 28 giugno 1945, n.406.
In virtù dell’autorità a Noi delegata;
Visti il R. decreto 16 dicembre 1927, n. 2210, sull’ordine delle
precedenze a Corte e nelle pubbliche funzioni e le successive
modificazioni ed integrazioni;
Visto l’art. 4 del decreto-legge Luogotenenziale 25 giugno 1944, n.
151;
Visto il decreto legislativo Luogotenenziale 1° febbraio 1945, n. 58;
Vista la deliberazione del Consiglio dei Ministri;
Sulla proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, Primo Ministro
Segretario di Stato;
Abbiamo sanzionato e promulghiamo quanto segue:
Articolo 1
Il titolo di eccellenza, attribuito dal R. decreto 16 dicembre 1927, n.
2210, e successive modificazioni ed integrazioni, è abolito.
Articolo 2
Il presente decreto entra in vigore il giorno successivo a quello della
sua pubblicazione nella «Gazzetta Ufficiale» del Regno.
La retorica dell’eccellenza ha rappresentato il cavallo di troia per fare passare, nel discorso pubblico, l’idea darwiniana che esistono solo la ricerca di serie A e l’università di serie A. E con ciò l’idea che l’alta istruzione deve essere riservata alle elité e non il più diffusa possibile, come invece dovrebbe essere in una società della conoscenza che cerca di competere in un’economia della conoscenza. L’uso distorto del concetto di eccellenza è stato altresì funzionale ai tentativi dei governi di centrodestra nello spingere gli “schizzinosi” giovani italiani a smettere di studiare e a dedicarsi ai lavori manuali e tornare a fare, come i loro padri, gli agricoltori, i mandriani, i braccianti, i muratori. Abbiamo assistito ad una straordinaria operazione di lavaggio del cervello di stampo orwelliano. Mi permetto, però, di segnalare che il titolo di “eccellenza” è giuridicamente ancora utilizzabile, ma in modo circoscritto. Non va sicuramente usato nei confronti dei prefetti e dei magistrati. Chi volesse saperne di più si vada a leggere la voce “eccellenza” del digesto IV edizione, discipline pubblicistiche.
Grazie, Sandro. Preciso come al solito.
Purtroppo, se non ricordo male, qualche tempo fa il prefetto di Napoli abbe una questione con un sacerdote che non lo aveva indirizzato con il titolo di eccellenza – e se l’era presa a male, salvo poi scusarsi.
Giorgio Sirilli
Se fa riferimento all’episodio di Don Maurizio Patriciello, ricorda male. Il prete si era rivolto al prefetto di Caserta chiamandolo “signora” ripetutamente, senza far riferimento al suo titolo, nonostante l’occasione fosse formale. Si possono dare varie chiavi di lettura all’accaduto. Una è che il prefetto di Napoli sia giustamente intervenuto a fronte di un atteggiamento sessista (abbastanza frequente negli ambienti ecclesiastici) che prevede che la donna debba essere solo “signora”, anche quando ha un incarico ufficiale.
In effetti la mia memoria mi ha tradito, e ringrazio Marc per la correzione.
Giorgio Sirilli
A proposito di eccellenza mi piace citare un passaggio de “Il Conte di Montecristo” di A. Dumas (Capitolo 33). Non ho qui la versione originale (che ho regalato ad uno dei miei figli), e lo cito nella traduzione di Giovanni Ferrero, pubblicata qualche anno fa da Il Corriere della Sera:
Eccellenza – gridò il cicerone vedendo Franz sporgere il capo dalla finestra – volete che faccia avvicinare la carrozza al palazzo?
Benché Franz fosse abituato all’enfasi degli italiani, il suo primo movimento fu di guardarsi attorno, ma quelle parole erano rivolte proprio a lui. Franz era l’Eccellenza, quel biroccio era la carrozza e il modesto Albergo di Londra era il “palazzo”. Quella frase rispecchiava tutto il genio adulatorio della nazione.
A proposito del CERN. Anni fa un tecnologo INFN che lavorava la CERN mi disse:
“Io lavoro nel gruppo 1, il gruppo dei numeri uno”.
Da allora ho avuto sempre avuto una forte repulsione per i “gruppi di ricerca” che superano le 100 unita’.
Saluto con grandissimo piacere la critica ad uno dei più perniciosi idola fori della retorica sull’università. Mi permetto di segnalare, per chi non lo conoscesse, il cap. 2 (“The Idea of Excellence”) del libro di B. Readings, The University in Ruins, Harvard UP, 1996) – che sostiene che l’eccellenza è diventato “il principio unificatore dell’Università contemporanea” proprio grazie al fatto di essere “a non-referential unit of value”, ossia qualcosa che letteralmente non vuol dire niente, al servizio però (o per questo) di “the maximum of uninterrupted internal administration”.
Un’osservazione a margine di quanto scrive Claudio La Rocca. La nozione di “eccellenza” ha un senso quando c’è uno standard di bontà condiviso che consente di affermare che qualcosa, ad esempio una performance individuale, realizzi un certo ideale. Nella riflessione morale classica tali standard sono accessibili attraverso la conoscenza del bene, o dei beni, cui tende l’azione. Nella modernità la fiducia nell’idea che il bene – o i beni – siano conoscibili e indipendenti dal punto di vista si è considerevolmente affievolita. Tuttavia, quella che potremmo chiamare “l’ideologia dell’eccellenza” è stata recuperata in un diverso contesto, che misura l’eccellenza in base al successo. Ciò spiega perché personaggi che Aristotele avrebbe – a mio avviso giustamente – additato al publico ludibrio, vengano considerati esempi di eccellenza. Fino a quando il discorso pubblico non si sarà emancipato dalla propria subalternità nei confronti di questa ideologia – che ha molto a che fare con il dominio del management nella cultura della pubblica amministrazione – non usciremo dalla situazione attuale.
Criticare una cosiddetta “ideologia dell’eccellenza” perché, per molteplici ragioni, difficilmente neutralizzabili, di ecosistema accademico, non la si riesce a fondare su una valutazione obiettiva ed universalmente condivisibile mi sembra un po’ come criticare l’idea di “galassia” perché non si riesce – e magari non si riuscirà mai – a costruire un buon telescopio.
“La ricerca è un’attività incerta, imprevedibile, intrinsecamente incommensurabile.” Certo. Quando giudico un ricercatore migliore di un altro potrò sempre commettere un errore. Certo. Ma la morale di questo articolo sembra essere che davvero i ricercatori sono tutti uguali. Il che è falso per la semplice ragione che sono tutti diversi come persone, ma lo è a maggior ragione se si considera la scarsa meritocrazia presente in tanti ambienti accademici. Questa affermazione per me è così poco ideologica che mi vergogno a farla, perché è banalmente vera e non così politicamente corretta.
Giusto ricordarsi che anche un ricercatore che ha avuto risultati mediocri può essere un eccellente ricercatore ma avere avuto sfortuna, mentre un ricercatore che ha avuto un risultato eccellente può avere avuto una gran fortuna (ma quando comincia ad averne sistematicamente è più difficile essere politically correct). Meno giusto lamentarsi del fatto che la qualità della ricerca sia, in parte, un bene posizionale. Non perché sia più o meno bello così, ma perché è, in parte, così da sempre, a prescindere da qualsiasi ideologia contemporanea. Anche quando i ricercatori al mondo erano molti meno ed era meno sentita la necessità di smarcarsi, esistevano già i premi per la ricerca. Non c’è bene più posizionale di un premio Nobel.
Non si può valutare la qualità della ricerca solo dai risultati perché includono una componente di fortuna?! Di nuovo, mi sembra come dire che non si può studiare la struttura della galassia da terra perché ci sono le aberrazioni dell’atmosfera. Se si riesce ad uscirne, meglio, certo. Sono certo che Giorgio Sirilli abbia in mente una proposta alternativa, ma non la vedo nell’articolo.
Ciò detto, ogni ideologia, in quanto ideologia, dovrebbe starsene fuori dall’ambito accademico. Quindi vorrei poter concordare con chi critica l’ossessione per l’eccellenza. Sono certo che l’autore di questo articolo mentre scrive ha in mente moltissimi casi in cui ha causato danni. Ma l’articolo di 3 giorni fa di Sylos Labini “L’economia è un biosistema” mi sembra partire da una analoga volontà di giudicare dal “livello medio” della ricerca, e non solo dai suoi picchi, la qualità un sistema, ma mi sembra farlo con i piedi più per terra.
Va bene, è una Fata morgana. Ma un certo significato potrebbe averlo: ci rendiamo conto tutti di quando una ricerca, proposta o più raramente già realizzata, non è eccellente nei modi e nei metodi. “Sloppiness”, riferimenti scarsi obsoleti e peggio se mal scritti, altri indicatori di scarsa qualità, o di non-eccellenza. Quindi direi l’eccellenza dei metodi, non dei risultati o peggio degli obiettivi ex-ante. Certo, è un problema di definizioni di che cos’e’ qualità (vedi Pirsig e lo Zen della manutenzione…). Del resto, se a scuola qualcuno prende 10, quelli che prendono 6 o 7 o 8 non si suicidano, né vengono “uccisi” in senso Darwiniano. Se possono e vogliono fare di più lo faranno, se no si vedrà, ma dovrebbe esserci posto per tutto, a vari livelli. O no?