Nella legge di stabilità del 2019 la Provincia autonoma di Trento a guida leghista aveva previsto, inserendo la norma nella legge che disciplina l’attuazione della delega in materia di Università degli studi di Trento, che:
Con riferimento ai test di ingresso ai corsi universitari la Provincia, nell’ambito dell’intesa di cui al comma 1, può promuovere: (…) una riserva di un numero di posti non interiore al 10 per cento per candidati residenti in provincia di Trento, nell’ipotesi di parità di merito con candidati non residenti.
Con la recente sentenza del 19 marzo 2021, n. 42, i Giudici delle leggi hanno dichiarato incostituzionale l’idea che al criterio del merito possa essere sovrapposta la volontà politica di favorire l’accesso all’istruzione universitaria degli studenti italiani ed europei sulla base  della residenza dei candidati.

E’ di estremo interesse leggere l’argomentazione che ha condotto alla pronuncia di incostituzionalità perché, fra le pieghe dl un ragionamento fondato sulla lettura dell’art. 34 Cost., la Consulta svolge alcune considerazioni di principio che assumono rilievo ben più ampio del pur importante profilo su cui la Corte era chiamata a soffermarsi. Così la Corte Costituzionale:
Nel caso di specie, non può intravedersi alcuna ragionevole correlazione tra il requisito della residenza nel territorio provinciale e l’accesso ai corsi universitari.
Questa Corte ha già chiarito che il diritto allo studio «comporta non solo il diritto di tutti di accedere gratuitamente alla istruzione inferiore, ma altresì quello – in un sistema in cui “la scuola è aperta a tutti” (art. 34, primo comma, della Costituzione) – di accedere, in base alle proprie capacità e ai propri meriti, ai “gradi più alti degli studi” (art. 34, terzo comma): espressione, quest’ultima, in cui deve ritenersi incluso ogni livello e ogni ambito di formazione previsti dall’ordinamento» (sentenza n. 219 del 2002). Al godimento del diritto allo studio si correla funzionalmente la stessa autonomia attribuita dall’art. 33, sesto comma, Cost., alle università, che infatti non assume rilievo unicamente per i profili organizzativi interni, ma anche per il «rapporto di necessaria reciproca implicazione» con i diritti costituzionalmente garantiti di accesso all’istruzione universitaria (sentenze n. 42 del 2017 e n. 383 del 1998).
Assumere che il requisito della residenza possa operare come criterio di favore nelle circostanze indicate, pertanto, non solo non trova giustificazione nelle finalità che il diritto ad accedere ai corsi universitari persegue, che sono legate al rafforzamento della capacità e del merito individuali, ma contraddice anche la naturale vocazione dell’istituzione universitaria a favorire la mobilità, oltre che dei docenti, anche degli studenti, al fine di incentivare e valorizzare le attività sue proprie e la loro tendenziale universalità. Proprio al perseguimento di tale obiettivo, del resto, è vincolata la stessa Università degli studi di Trento, il cui statuto, secondo quanto prescrive l’art. 3, comma 1, lettera g), del d.lgs. n. 142 del 2011, è tenuto al rispetto del principio del «perseguimento dell’attrazione di studenti meritevoli e di risorse umane altamente qualificate, come elemento base per il perseguimento dell’alta qualità di cui alla lettera a)».
L’assenza di una ragionevole correlazione, nel senso richiesto dall’art. 3 Cost., tra il requisito della residenza nel territorio provinciale e l’accesso ai corsi universitari è inoltre comprovata dalla circostanza che la discriminazione operata a danno degli aspiranti studenti universitari non residenti, contrariamente a quanto asserisce la difesa provinciale, non può ritenersi necessariamente ristretta ad ipotesi meramente residuali. L’operatività della riserva di posti introdotta dalla disposizione impugnata, peraltro fissata nella sola misura minima del 10 per cento, si presta ad assumere infatti una portata lesiva del principio di uguaglianza, potenzialmente ben più ampia di quella prospettata dalla Provincia alla luce di quanto prevede la lettera a) del nuovo comma 4-bis dell’art. 2 della legge prov. Trento n. 29 del 1993, anch’esso introdotto dall’art. 15, comma 1, della legge prov. Trento n. 13 del 2019.
Con tale previsione, alla Provincia autonoma è attribuita, come detto, la facoltà di promuovere, in sede di predisposizione del già menzionato atto di indirizzo per l’università e la ricerca, «l’eliminazione della media dei voti dell’esame di stato relativo al secondo ciclo». La sua pur potenziale eliminazione di tale requisito di merito rende, dunque, ulteriormente evidente l’irragionevolezza della disposizione impugnata, che non trova alcuna giustificazione alla luce delle richiamate finalità che il diritto di accedere agli studi universitari persegue.
Deve, pertanto, essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 15, comma 1, della legge prov. Trento n. 13 del 2019, nella parte in cui introduce il comma 4-bis, lettera b), nell’art. 2 della legge prov. Trento n. 29 del 1993.
Il ragionamento con il quale la Consulta travolge la tesi difensiva svolta dalla Provincia in ordine alla asserita marginalità dell’ipotesi che i legislatori trentini avevano voluto ritagliare a vantaggio dei soli studenti trentini è lineare e, si direbbe, a rime obbligate. Ma, come detto, quel che merita una sottolineatura sono due principi assai importanti che la Consulta richiama con forza nello svolgimento della sua motivazione.
il primo è la conferma di un principio non nuovo ai cultori della giurisprudenza costituzionale, ma è assai importante – specie di questi tempi – che la Consulta lo abbia inteso ribadire e attualizzare.
Ci si riferisce all’idea che l’autonomia accademica riconosciuta e protetta dal sesto comma dell’art. 33 Cost. non sia funzionalmente legata solo al modo con il quale le Università organizzano la propria attività interna, ma sia direttamente correlata all’esercizio e all’effettivo godimento da parte di tutti i cittadini del diritti costituzionali che garantiscono l’accesso all’istruzione universitaria.
Il secondo principio attiene alla valorizzazione e al riconoscimento esplicito di una caratteristica che si direbbe propria dell’idea stessa di Università, certamente preesistente ad ogni declamazione costituzionale, scolpita com’è in un paradigma costitutivo della scienza e del progresso della comunità scientifica. La parole della Consulta non avrebbero potuto descriverla meglio:
“la naturale vocazione dell’istituzione universitaria a favorire la mobilità, oltre che dei docenti, anche degli studenti, al fine di incentivare e valorizzare le attività sue proprie e la loro tendenziale universalità”.
Merita un plauso convinto l’idea che le istituzioni universitarie debbano favorire la mobilità degli studenti, che va sostenuta e appoggiata con ogni mezzo.
Ma solo i docenti e i ricercatori che animano la comunità universitaria italiana, costretti a vivere le proprie prospettive di carriera nel recinto di un intollerabile e strutturale localismo, sanno quanto distante sia il sistema lasciatoci in eredità dalla legge Gelmini dalla possibilità di dare concreta attuazione dell’importantissimo principio che la Consulta ha avuto il merito di scandire a chiare lettere e ricordare, auspicabilmente all’attenzione di un legislatore illuminato di cui, però, si continua a non intravedere traccia.
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