«A qualcuno è occorsa tutta una vita per mettere sulla carta una parte dei suoi pensieri, per guardarsi intorno e descrivere il mondo e la vita come li vedeva lui, e poi salto fuori io e in due minuti… bum! è tutto finito».

Bradbury, Fahrenheit 451 (1951), tr. di G. Monicelli, Milano, 1978, rist. 2010, p. 61.

 

«Lo stato, che definisce la scienza, è già una chiesa. Per definire occorre ci sia il domma e il catechismo».Labriola, L’università e la libertà della scienza (1897, discorso inaugurale dell’anno accademico, Roma, 14 novembre 1896), a cura di S. Miccolis, Torino, 2007, p. 32.

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C’era una volta, quando il ricercatore universitario non era un eterno valutando, eternamente esposto alle anonimamente trasparenti valutazioni del valutatore seriale, quando il ricercatore poteva concedersi il lusso di leggere qualcosa, naturalmente senza esagerare, per il gusto di leggere, per mera curiosità, quando non leggeva solo per scrivere e citare, scrivere e citarsi, scrivere e farsi citare, c’era una volta, si diceva, un ricercatore che aveva letto, come tanti in tutto il mondo, il romanzo da cui la prima citazione in epigrafe.

Oggi, riprendendo nostalgicamente tra le mani quel volume, il ricercatore — il quale sa fin troppo bene che questa divagazione antiproduttiva lo penalizzerà in sede di valutazione: tutto tempo sottratto alla produzione di sapere indicizzabile — ritrova sottolineature che gli danno da pensare. Gli danno da pensare che, tutto sommato, non sarebbe impossibile, con un po’ di immaginazione, intravedere qualche punto di contatto tra le aspirazioni del valutatore seriale e quelle incarnate dalla prima versione di Guy Montag, il protagonista della celebre distopia ‘bibliopirica’.

Il romanzo è universalmente noto: non è il caso di riassumerlo e i riferimenti non andranno al di là di quanto indispensabile per lo svolgimento di un’estemporanea riflessione.

Montag è un vigile del fuoco in un mondo in cui non esiste più un edificio che non sia costruito a prova di fuoco. È un mondo drogato di velocità fine a se stessa: «Non ci sono più poltrone a dondolo. […] La gente deve stare in piedi, deve correre tutto il santo giorno» (p. 76). Un mondo drogato di svaghi pieni di vuoto, in cui quasi tutti credono di essere felici, aiutati dalla circostanza che la lettura, la riflessione, il dialogo sono stati aboliti: «Non ci sono più verande. […] non si voleva la gente seduta sotto le sue verande […]. In quelle condizioni, la gente parlava troppo; aveva il tempo di pensare; e così s’è fatta la festa alle verande. […] Non ci sono più panchine, non ci sono più giardini, dove sedere a perdere il tempo» (pp. 75-76). Un mondo in cui «l’ultima università di studi umanistici era stata chiusa per mancanza di fondi» (p. 87). In questo mondo, in cui essere è nulla, qualcuno si ostina, sovversivamente, a nascondere libri in casa.

A rischio della vita. Perché in tale mondo i pompieri appiccano incendi per bruciare i non molti libri superstiti e, se necessario, i loro improduttivi proprietari, trasgressori dei costumi e delle leggi.

Ma Montag è un incendiario che, misteriosamente, conserva un barlume di coscienza, risvegliata dalla «fanciulla che sapeva conoscere le stagioni» (p. 168). A un certo punto lo sfiora il dubbio che il libro possa non essere un’entità demoniaca, che leggerlo possa quindi non essere un’azione moralmente e giuridicamente censurabile. Si «accor[ge] che dietro ogni libro c’è un uomo. Un uomo che ha dovuto pensar[e]. Un uomo a cui è occorso molto tempo per scriver[e]» (p. 61). Capisce di non aver mai capito nulla di veramente importante, e inizia a capire: «Ci dev’essere qualcosa di speciale nei libri, delle cose che non possiamo immaginare, per convincere una donna a restare in una casa che brucia. È evidente!» (p. 60).

La crisi di coscienza, giunta improvvisa, culmina rapidamente nell’osservazione che guiderà il resto dei suoi giorni: «A qualcuno è occorsa tutta una vita per mettere sulla carta una parte dei suoi pensieri, per guardarsi intorno e descrivere il mondo e la vita come li vedeva lui, e poi salto fuori io e in due minuti… bum! È tutto finito».

Invece, quasi tutti coloro che vivono intorno a Montag, a cominciare dai colleghi, «gli Happiness Boys, i militi della gioia» (p. 74), non conservano il minimo ricordo di quella vita in cui i libri aprivano orizzonti, in cui avere libri, e orizzonti, non era proibito. Così tra Montag e quasi tutti gli altri non può esserci dialogo. Il protagonista si tormenta e cerca di trasmettere un po’ del tormento alla moglie: «Lasciarti in pace! Non è difficile, ma come potrò io lasciare in pace me stesso? A noi occorre non essere lasciati in pace! Abbiamo bisogno d’essere veramente tormentati una volta ogni tanto! Da quanto tempo non c’è più nulla che ti tormenti? che ti tormenti sul serio, per qualcosa che conti realmente?» (pp. 61-62). Tutto inutile: per la moglie la donna «arsa viva» perché non voleva separarsi dai propri libri è… «acqua passata» (p. 60).

Al ricercatore che sfoglia il romanzo e rilegge i passi che aveva sottolineato, quando ancora aveva tempo persino di sottolineare, viene da pensare al valutatore seriale, all’esperto valutatore — gli dei non vogliano che ne circolino di inesperti, come qualche giudice amministrativo un po’ troppo pignolo va sentenziando —, poi all’incendiario di Bradbury, poi nuovamente al valutatore seriale: «A qualcuno è occorsa tutta una vita per mettere sulla carta una parte dei suoi pensieri, per guardarsi intorno e descrivere il mondo e la vita come li vedeva lui, e poi salto fuori io e in due minuti… bum! È tutto finito».

Il ricercatore pensa all’allegoria intorno a cui ruota tutto il romanzo: quella del pompiere che versa sui libri non acqua ma cherosene. Il ricercatore pensa e, tutto sommato, non gli sembra sostanzialmente diverso versare cherosene sui libri e separare, come suol dirsi, con l’accetta le riviste in non scientifiche e scientifiche, e le seconde, come non bastasse, in eccellenti e non. Operazione discutibile non solo quanto agli esiti, quali che siano, ma prima di tutto quanto al fondamento, al postulato — tale appare al valutatore seriale, più cartesiano di Cartesio — secondo cui la qualità della scatola sarebbe indice della qualità dei cioccolatini. Mentre anche i bimbi — valutatori meno cartesiani, più prudentemente postulanti — sanno che i cioccolatini fatti in casa sono spesso altrettanto buoni, se non migliori, di quelli sfornati industrialmente ma raffinatamente inscatolati, infiocchettati e pubblicizzati.

Al ricercatore non sembra sostanzialmente diverso versare cherosene sui libri e separare i ricercatori, con l’accetta statistica denominata mediana, in abili(tati) e inabili(tati), sulla base del tipo e del numero delle pubblicazioni, non del loro contenuto, della loro qualità, del loro valore, del loro significato. E pensare che il Novecento è stato il secolo dell’ermeneutica, della filosofia del significato: del testo e della vita! Chi avrebbe mai pensato che ci si sarebbe dimenticati così rapidamente di Hans-Georg Gadamer e di tutti gli altri! Che sarebbero state ‘scientificamente’ confuse misurazioni e valutazioni! Che si sarebbe divenuti volontariamente servi di una metonimia: il contenitore per il contenuto, appunto, vale a dire l’accidente per la sostanza!

Naturalmente la cultura della mediana tende a trascurare come statisticamente irrilevanti i ricercatori ‘sfortunati’, che hanno pubblicato in riviste valutate retroattivamente come non eccellenti. Come se l’eccellenza, le sue sedi, i suoi indicatori non si possano non conoscere da sempre. Come se le valutazioni, le esperte valutazioni si possano seriamente reputare «constative», anziché «performative»: anziché «illocutive» — dire l’eccellenza è crearla — e «perlocutive» — creata l’eccellenza, il ricercatore che non voglia essere marginalizzato non può non mirare all’eccellenza, stringendo sempre più, volente o nolente, il cappio che ne soffoca la libertà, consolidando sempre più il dispositivo che lo rende volontariamente servo —, dunque gravemente perturbative, a dir poco, della libertà di scegliere un tema d’indagine e un approccio a quel tema (sia Werner Heisenberg che John L. Austin sembrerebbero proprio passati invano).

Né al ricercatore sembra sostanzialmente diverso versare cherosene sui libri e separare con l’accetta i ricercatori, ai fini della distribuzione di cosiddetti incentivi, in attivi e inattivi, sulla base di criteri anche qui meramente quantitativi e anche qui definiti ex post. L’eterno valutando, di nuovo, non poteva non sapere. E invano protesta che l’ignoranza del diritto inconoscibile o difficilmente conoscibile scusa. Per il valutatore seriale non si è scusati nemmeno dall’ignoranza del diritto… inesistente.

Nel mondo accademico dell’era anvuriana al valutatore seriale quasi tutto appare assiomatico, cristallino, solare, mentre all’eterno valutando quasi tutto appare enigmatico, aleatorio, nebbioso.

Il valutatore seriale ha sempre sotto mano dei dati, completi o completabili, certi o certificabili. Ha sempre sotto mano una griglia onnicomprensiva, una mediana capace di separare senza esitazione i buoni dai cattivi, una classifica internazionalmente riconosciuta. Incasella la vita, qualunque aspetto della vita, con disinvoltura. Ha sempre sotto mano parametri, indici, indicatori, standard, grafici, di così palese scientificità che non prova imbarazzo ad applicarli retroattivamente, ad applicarli a condotte che ingenuamente, quei parametri non essendo stati ancora formulati, ne hanno seguiti altri, o magari non ne hanno seguito alcuno (quali parametri seguiva Paul Feyerabend se non i propri?).

L’eterno valutando era convinto che l’università fosse un luogo di pensiero libero, critico, originale, creativo, divergente, dissenziente, eterodosso. Gli pareva di ricordare che qualcosa in tal senso si leggesse nella Costituzione italiana, in quella Costituzione che, a furia di attendere di essere «attuata», sarebbe divenuta «inattuale».

Leggendo e ascoltando le acrobazie metodologiche del valutatore seriale, il quale vorrebbe far credere che contino solo gli aggregati e non anche i singoli, e tende a confondere leggiadramente intersoggettività e oggettività, l’eterno valutando non può non sentirsi perplesso, spaesato, «gettato». Per anni agisce in un certo modo, credendo di agire onestamente, persino meritevolmente. Poi, quando il valutatore seriale, un bel giorno, decide di valutarlo, l’eterno valutando scopre che avrebbe dovuto fare altro: pubblicare in altre riviste; occuparsi di argomenti citazionalmente redditizi; preoccuparsi non della qualità — che si valuta, non si misura —, ma dell’impatto; non del merito, inteso come contenuto, ma della risonanza; non del senso — che si discute e si condivide o meno, non si pesa e non si conta —, ma della diffusione. Scopre, in definitiva, che avrebbe dovuto preoccuparsi non che qualcuno lo leggesse, lo recensisse, lo criticasse — non è tra le mode di questa stagione —, ma che qualcuno — avendolo letto o meno —lo citasse (magari per denigrarlo: tutto fa brodo).

È ora di concludere. L’eterno valutando deve tornare al suo lavoro: produrre-per-farsi-valutare. Vorrebbe concludere citando dal secondo libro ricordato in epigrafe, che aveva letto quando aveva tempo per leggere, quando ancora il valutatore seriale (non lo si cita per non incrementarne gli indici citazionali) non aveva evocato nero su bianco — magari reputandosi in grado di fare una spiritosa caricatura — «la macchietta del professore di Lettere e Filosofia, saccente e petulante, avulso dalla realtà, refrattario alle tecnologie digitali, innamorato dell’odore di carta […]. Questo tipo di professore rifiuta di essere valutato. […] Costui condanna la propria disciplina all’aleatorietà dell’inutile, alla stregua di un passatempo raffinato che proprio non si capisce per quale ragione il denaro pubblico dovrebbe sostenere. Caparbi raccoglitori di farfalle [tali erano apparsi, per fare nomi a caso, Niccolò Copernico, Galileo Galilei, Charles Darwin, Sigmund Freud], inesausti giocatori di bridge, boriosi nella loro follia [sic!]». Insomma, argomenti da processo a Socrate, oppure — se si preferisce evitare di scomodare proprio il filosofo che non volle scrivere nulla (ma quanti grandi hanno scritto un solo libro, magari pubblicato postumo?) — da processo scientistico alla scienza. A proposito, chiede a Montag il capitano dei vigili del fuoco — ma sembra di leggere il valutatore seriale —: «Perché imparare altra cosa che non sia premere bottoni, girar manopole, abbassar leve, applicar dadi e viti?» (p. 66).

L’eterno valutando, che sa di dover chiudere quanto prima, rinuncia a far comprendere al valutatore seriale cosa siano i classici e perché ci si chiuda nel polveroso silenzio delle biblioteche per studiarli e tentare di reinterpretarli: se non ce l’ha fatta Calvino… Rinuncia anche a far comprendere che le scienze dello spirito, lavorando lo spirito con lo spirito, avendo lo spirito come materia prima, come metodo produttivo e come prodotto, non riusciranno mai, proprio mai a produrre «bottoni», «manopole», «leve», «dadi» e «viti». Rinuncia senz’altro: se non ci è riuscito Hegel…

Dice a Montag il professore di lettere mandato a spasso alla chiusura dell’ultima università di studi umanistici: «Capite ora perché i libri sono odiati e temuti? Perché rivelano i pori sulla faccia della vita». La «professione/vocazione» del ricercatore, infatti, sarebbe niente meno che quella di comprendere la vita, di educare a pensare autonomamente (nel senso etimologico di seguire proprie leggi), a pensare per valori morali, oltre e prima che per valori numerici. E la vita, checché ne dica il valutatore seriale — onnivalutante ma non autovalutante — non si lascia facilmente ‘grigliare’, classificare, gerarchizzare, standardizzare, sistematizzare, anvurizzare.

Conviene davvero chiudere: urge passare alla confezione del prossimo prodotto. Inaugurando l’anno accademico romano quasi centoventi anni fa, Antonio Labriola pronuncia queste parole: «Ricordiamo tutti la generale ilarità con la quale alcuni anni fa venne accolta una lettera ministeriale contenente un monito a un professore, di liceo del resto, colpevole di insegnare una filosofia, che sarebbe stata difforme dalla coscienza della maggioranza dei contribuenti!» (p. 30, secondo corsivo aggiunto).

Bene, ciò che nel 1896 si ricorda essere stato accolto qualche anno prima da «generale ilarità» è ormai divenuto realtà istituzionale: leggi, regolamenti, decreti, delibere, pareri, raccomandazioni, linee-guida, proclami, bandi, agenzie, commissioni, comitati, osservatori, nuclei, unità, gruppi, esperti valutatori, produttori e combinatori di indicatori, ideatori e manutentori di banche-dati citazionali, scale, classifiche, fasce, tetti, soglie, diagrammi i più fantasiosi e variopinti. Esperti, naturalmente, più esperti degli esperti, specialisti più specialisti degli specialisti, sapienti decretati dai potenti più sapienti dei sapienti.

Il Labriola del 1896 si rivela un pessimo profeta. Se ai suoi tempi la «lettera ministeriale» diffidante un professore a non «insegnare una filosofia […] difforme dalla coscienza della maggioranza dei contribuenti» può far ridere di cuore, oggi quella «lettera ministeriale» è non solo legge dello Stato, ma anche modo diffuso di concepire e vivere l’università. Oggi quella «lettera ministeriale» è il progetto, anzi, molto peggio, la mappa dell’università in cui lavoriamo, costretti a produrre senza avere più tempo da ‘perdere’ per studiare o per insegnare: marginalizzati i libri, le biblioteche, la lettura; bandita l’oralità non rendicontata, non registrata, non schedata.

Spesso in Italia non ci si accontenta di essere provinciali. Si cerca di esserlo in maniera creativa. Si preferisce quella forma raffinata di provincialismo che si potrebbe etichettare come esterofilo. Ciò che si fa all’estero, meglio se in inglese, è buono per definizione, comunque migliore della stessa cosa, esattamente la stessa, fatta in Italia. Come se si trattasse di ortaggi, si espiantano e trapiantano istituti e istituzioni, teorie e pratiche a prescindere da contesti, culture, ideali, ideologie, tradizioni, precomprensioni, precedenti, mentalità, storie e biografie.

Il problema principale non è che si emula al contrario, ossia facendo quello che fanno gli altri ma, spesso, decisamente peggio. Il problema principale è che, nonostante Montesquieu, si è ancora lontanissimi dal capire che la cultura non è un titolo di credito al portatore, non si espianta e trapianta come si trattasse, appunto, di ortaggi, i quali pure, a dire la verità, non sono coltivabili sotto qualunque cielo.

Occorrerebbe, certo, osservare ciò che si fa all’estero e tenerne seriamente conto. Ma occorrerebbe anche, altrettanto seriamente, tener conto dei propri orizzonti culturali, tradizionali, ideali, ideologici, intellettivi, emotivi, storici, giacché, come direbbe Gadamer, «Nessuno può disfarsi della propria ombra». E, tenendo conto dei propri orizzonti, occorrerebbe aprirsi, ovviamente per tentativi ed errori, un proprio sentiero, magari da proporre all’emulazione altrui. Insomma, si tratterebbe, qualche volta, di non seguire e inseguire, ma di progettare, magari anticipando altri, magari attuando la Costituzione (la propria!) in tema di libertà di scienza, magari dandosi, se non una prospettiva lunga, una prospettiva, possibilmente di educazione libera al pensiero libero, non di semplice scalata di classifiche di produttività.

Ma sarebbe molto, molto faticoso, richiederebbe tempo e discussione, discussione sui fini prima che sui mezzi. E, soprattutto, costringerebbe a fare i conti con la politica del giorno per giorno, del consenso facile, delle slide riassunte via tweet, del divide et impera, del tutti contro tutti: «non lavorano [assioma pseudodescrittivo], ergo [deduzioni prescrittive] definanziamoli, deretribuiamoli, destituiamoli [“perish”]».

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Apparso in Palaver (http://siba-ese.unisalento.it), 2/2015, p. 265 ss.

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36 Commenti

  1. Complimenti, bellissimo articolo! Giorni fa ho mostrato a due colleghe più giovani i miei appunti, i miei libri e le mie sottolineature dei primi anni ’90. Gli ho fatto leggere i miei primi scritti, in italiano, e gli ho detto che tutto il mio sapere di oggi poggia su quegli anni sereni in cui potevo passare giornate intere in biblioteca. Ricordo quella della Sapienza e del CNR dove per consultare un volume bisognava fare richiesta e attendere che l’inserviente lo portasse giù. Alla fine, dopo mesi di frequentazione, per compassione o perché ormai ero diventato uno di loro, mi permisero di andare da solo: i piani, per far posto ai volumi erano stati smezzati e mi ritrovai a camminare a carponi in dei suggestivi mezzanini!
    Potevo sottolinerare, scrivere a penna, classificare gli articoli i cartelle di carta e soprattutto leggerli.
    Secondo il valutatore seriale quegli anni non contano nulla! In quegli anni, secondo lui, io non ho combinato nulla di buono perché pubblicavo soprattutto in italiano e leggevo piuttosto che scrivere!
    All’ASN mi è andata bene lo stesso e nonostante tutto resto ottimista: continuo a leggere e a comprare matite colorate e quaderni e anche se EndNote e le banche dati mi hanno facilitato alcuni compiti, sono convinto che quelle lunghe giornate passate nei mezzanini delle biblioteche sono state determinanti per la mia formazione.
    Le mie colleghe usano i quaderni e stampano i PDF più utili, ma solo dopo complete ricerche e metaanalisi, leggono i libri, ma non disdegnano google e pubmed, insomma, best of both worlds, come direbbero gli anglofoni che tanto vogliamo imitare.
    Valutatore seriale che ci leggi senza commentare (un lurker): noi non ci arrendiamo, abbiamo i Kindle, ma anche la carta, usiamo EndNote, ma sottolineiamo con le matite colorate e continueremo a perdere tempo sotto le verande!

    • Onestamente, non trovo nulla di particolarmente stimabile, nè emozionante, nell’usare la carta anziché il pc, e nell’usare matite colorate.

    • Onestamente, trovo che certe volte i colleghi dovrebbero fare qualche sforzo dialettico in più. Altrimenti faticheremmo a distinguere un accademico (magari anche di Harvard) da un brontolone da tramvia.

    • Un illuminante commento che da solo vale l’omaggio di una divisa da pompiere con la sigla 451°F.

    • Caro Banfi sono d’accordo: ciò che lei ha scritto è perfettamente valido per il suo commento. Peraltro, il brontolone da tramvia ha tutta la mia simpatia.

    • Onestamente, non trovo nulla di particolarmente stimabile, nè emozionante, nel sedersi sotto una veranda invece che davanti a una scrivania ;-)

  2. Caro Enrico Mauro
    grazie con tutto il cuore. Da qualche anno avevo creduto che fosse stato perso il senso della vita per un ricercatore. Mi hai ridato speranza: c’è qualcuno che, come te, descrive in maniera magistrale il delirio ossessivo di chi oggi voglia misurare con i numeri la qualità, solo perché è più comodo, senza assunzioni di responsabilità. Mi viene in mente l’incapacità umana di comprendere a fondo l’infinito e se ne usano modelli imperfetti. Ma a tutto c’è un limite, anche all’imperfezione. E in questo campo ne ho vista scorrere a fiumi.

  3. Oggi i libri non si bruciano (va contro le norme antiincendio), si lasciano marcire.
    Si prevedono per esempio traslochi di dipartimenti in nuove sedi dove NON c’è più posto per le biblioteche storiche, che quindi vengono svendute, smaltite e persino mandate al macero. Ho già assistito a due “fenomeni” di questo tipo. A nulla sono valse le proteste. Tutti danno risposte standard del tipo: non abbiamo soldi o tanto c’è internet. Dei libri non gliene importa niente e credo anzi che non vedano l’ora di farli fuori.

  4. „Nei primi anni del XXI secolo, scoppiò una terza guerra mondiale.
    Quelli di noi che sopravvissero, capirono che l’umanità non ne avrebbe potuto sopportare una quarta. Che la nostra natura mutevole, semplicemente non poteva esser più messa a rischio.
    Così abbiamo creato un nuovo braccio della legge:
    il Cleric Grammaton, il cui unico compito consiste nel cercare e nello sradicare la vera fonte della crudeltà dell’uomo nei confronti dell’uomo stesso.
    La sua capacità di provare emozioni.“
    (Proemio dal film Equilibrium)
    Nell’anno 2072 una città-stato chiamata Libria vive sotto il regime di un carismatico e misterioso dittatore, Il Padre. Dopo uno spaventoso conflitto nucleare che ha quasi spazzato via la specie umana dal pianeta, i pochi superstiti hanno deciso di creare un nuovo ordine e sradicare la guerra riconducendo la sua origine alle capacità di provare emozioni: l’eliminazione delle emozioni dall’animo dell’uomo avrebbe cancellato anche l’aggressività e gli istinti a essa collegati. Così ogni cittadino è tenuto per legge ad assumere quotidianamente una droga, il Prozium, che inibisce le emozioni. Insieme ai sentimenti, viene eliminato qualsiasi tipo di oggetto che possa ricondurre l’uomo a ricordare la civiltà del passato: sono vietati – per la loro capacità di suscitare o far ricordare le emozioni – i libri, la musica, i giocattoli. Chi viene scoperto in possesso di questi oggetti o contesta il sistema può andare incontro alla pena capitale.
    Al fine di sorvegliare l’ordine costituito è stato posto il Tetragrammaton, un’organizzazione a metà tra polizia segreta e ordine monastico, con i suoi micidiali Cleric (chierici) addestrati alle discipline di combattimento più raffinate, come il letale kata della pistola (Gun Kata).[1] John Preston è il migliore tra i Cleric, ma anch’egli si mette in discussione dopo aver ucciso il proprio collega per averlo sorpreso a leggere un libro di poesie di Yeats…..
    https://it.wikipedia.org/wiki/Equilibrium_(film)
    ——————–
    Egli desidera i vestiti del cielo
    „Se avessi il drappo ricamato del cielo,
    Intessuto della luce dell’oro e dell’argento,
    I drappi dai colori chiari e scuri del giorno e della notte
    Dai mezzi colori dell’alba e del tramonto,
    Stenderei quei drappi sotto i tuoi piedi:
    Ma io, essendo povero, ho soltanto sogni;
    Ed i miei sogni ho steso sotto i tuoi piedi;
    Cammina leggera, perché cammini sui miei sogni.“ William Butler Yeats
    ———————-
    https://www.youtube.com/watch?v=os2Z_Ekg-dM

    • Credo che un antesignano degli esperti di valutazione Anvur, Jonathan Evans Pritchard (professore emerito), si sarebbe prima di tutto domandato dove si collocherebbe questa poesia di Yeats nel “quadrato magico” che ha come assi “perfezione” e “importanza” (vuoi vedere che abbiamo scoperto la fonte ispiratrice dei quadrati bibliometrici Anvur?). A me sembra che questa poesia sia debole sul secondo asse, che ricollegherei alla nozione di “impatto” che il nuovo DM “criteri e parametri” pone a fondamento della definizione di “pubblicazione di qualità elevata”. Per dire se questa poesia di Yeats sia di qualità elevata, bisognerebbe capire se ha conseguito o è presumibile che consegua un impatto significativo nella comunità letteraria di riferimento a livello anche internazionale. E fatico a credere che un testo che parla di improbabili drappi ricamati del cielo per poi ridursi a un tessuto fatto della materia dei sogni possa mai avere impatto significativo su chicchessia. A meno che non sia stata pubblicata su una rivista di classe A, il che cambierebbe completamente la prospettiva.

  5. Tutti coloro che hanno un minimo di senno e non sono in malafede concordano che valutare un ricercatore solo con parametri bibliometrici sia follia.

    E vai con bei poemi e discorsi e tutti a sparare alle mediane, come se il vero problema fossero quelle.

    Tuttavia, e lo sappiamo tutti altrettanto bene:

    1.
    Le mediane non erano vincolanti, e non lo sono state.
    2.
    Le mediane nei settori non bibliometrici non hanno davvero senso ma erano ridicolmente basse e, potendo non essere raggiunte, di fatto non sono servite a eliminare nessuno.
    3.
    Le mediane nei settori bibliometrici avevano invece un loro senso, potendo e dovendo rappresentare una micro-diga di minima per evitare che persone del tutto ignoranti ma iper-raccomandate fossero messe in cattedra, a volte direttamente da ordinari. Cosa che è successa un numero infinito di volte. Poi, è chiaro che le mediane possono essere sbagliate, ma si cambiano, e che le mediane si possono fregare, ma un pò di tempo ci vuole, e occorre comunque avere qualcuno che pubblica, a cui dare almeno qualcosa in cambio. Per cui, a me le mediane, come concetto, non dispiacciono per nulla. Vanno cambiate nei valori, nei settori bilbiometrici, quando richiedono che uno abbia pubblicato 60 articoli negli ultimi 10 anni. Questo si, non ha senso. Vanno migliorate, ma non vanno abolite.

    • In uno qualsiasi dei nostri settori scientifici, ciascuno di noi esigerebbe che prima di parlare ci si documentasse sullo stato dell’arte. Questo è quello che si legge nella comunità scientifica che si occupa di scientometria a proposito dell’uso automatico di soglie per la selezione del persone:
      ______________________
      “Don’t apply (hidden) “bibliometric filters” for selection”
      ______________________
      W. Glänzel e P. Wouters, “Dos and don’ts in individual level bibliometrics”, 14th Int. Society of Scientometrics and Informetrics Conference (Vienna 2013)
      https://www.youtube.com/watch?v=1rm63gsc3oI
      _____________________
      Riguardo alle considerazioni sui settori bibliometrici, flashrandom non tiene conto delll’eterogeneità delle prassi editoriali all’interno dei settori concorsuali (con alcuni clamorosi casi come quello della Storia delle Matematiche: https://www.roars.it/a-proposito-dellanvur/, https://www.roars.it/pro-veritate/) e digerisce l’incentivazione di comportamenti opportunistici con superficialità degna di questioni meno serie.
      Trovo molto curioso che per garantire la qualità del reclutamento degli scienziati ci si affidi a ricette fai-da-te rigettate dalla comunità scientifica.

  6. «Ci sono due giovani pesci che nuotano e a un certo punto incontrano un pesce anziano che va nella direzione opposta, fa un cenno di saluto e dice: — Salve, ragazzi. Com’è l’acqua? — I due pesci giovani nuotano un altro po’, poi uno guarda l’altro e fa: — Che cavolo è l’acqua?» (D. Foster Wallace, Questa è l’acqua).
    I giovani pesci danno l’acqua per scontata, nemmeno si accorgono che esiste: conoscono l’università anvurizzata, angloamericaneggiante, e non vedono alternative.
    Il pesce anziano, invece, vede l’acqua e sa che è stata diversa, che potrebbe essere diversa, ha letto Humboldt, recita ogni mattina l’art 33, c. 1, Cost.(“L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”) ecc.

  7. Tutto bello, tutto giusto. Estetica pura, passa il messaggio non solo attraverso le parole. Complimenti Enrico. Ho un problema però. E se tutto questo andasse in mano ai restauratori? Su Roars si parla quasi sempre di fatti e misfatti a partire ASN 1.0. Ma il 2012 non è l’anno 0. Eppure eravamo tutti lì. Le valutazioni comparative: altro che GEV, criteri, parametri e bibliometria. Erano anarchia (apparente) allo stato puro. Era possibile tutto e il contrario di tutto. Si pubblicava a più nomi e, se eri il candidato giusto, era una capacità da promuovere perchè risultato della capacità di crearsi una rete. Se non lo eri, ti dicevano fra le righe (spesso anche nelle righe) che il tuo contributo era minimo. Mi chiedo (senza pregiudizio, spero si legga): e se diventassimo inconsapevolmente il mezzo che possa giustificare prima o poi un congresso di Vienna dell’Università italiana? Una rivoluzione c’è stata: fatta male, guidata male soprattutto. Gestita come peggio non si poteva fare dalla Stato attraverso il suo ministero. Ma sento che promotori dell’Ancien Regime ci ascoltano, ci leggono: sono contenti insomma. Paranoie mie…

    • Di queste paranoie e del loro uso per giustificare riforme draconiane (sgangherate, oltre che tossiche) ha già scritto Baccini:
      ________________
      https://www.roars.it/la-rivoluzione-dallalto-nelluniversita-italiana/
      ________________
      Mentre sull’argomento emergenziale sono io ad avere già replicato decine di volte. Senza negare i problemi anche gravi, non ha senso curare un paziente con le pozioni magiche, adducendo la scusa che sarebbe moribondo e che ha bisogno di cure al di fuori di ogni standard medico. Se il paziente fosse davvero reduce da anarchia assoluta in cui “Era possibile tutto e il contrario di tutto”, risulterebbe difficile giustificare questi dati.


    • Esatto, il punto è questo.
      Caro De Nicolao, non è questione di superficialità, quei report e gli articoli li ho letti da tempo, e ho la massima stima per quanto fate per contrastare riforme “draconiane e sgangherate”. Concordo su quasi tutto.
      Il quasi è riferito proprio alle mediane.
      Probabilmente le ha la fortuna e il merito di lavorare in un settore dove le cose funzionano meglio, ma nel mio settore, bibliometrico, prima delle mediane ho visto cose che noi umani non dovremmo vedere. Persone che hanno vinto concorsi con una pubblicazione impattata, contro altri che ne avevano 110 ed erano riferimenti internazionali. Non pochi casi.
      Con le mediane, ho continuato a vedere ingiustizie, ma mi creda, di minore entità.
      Le mediane servono anche come riferimento in alto. E’ chiaro che ci sono problemi e che le cose vanno pesate bene, ma se io so che un tal parametro è in media 10, con tutti gli errori del caso, faccio fatica a giustificare di preferire uno che ha 3, contro uno che ha 30. Se il parametro non c’è proprio, posso prendere chi ha 3, o 0, giustificarlo con bei giudizioni ampi e pretestuosi, e preoccuparmi ancora meno.
      Questa non è superficialità, è esperienza.
      Sono d’accordo su tanto, non sulle mediane. Secondo me non solo non sono un problema, ma anzi, se usate con buon senso, nei soli settori bibliometrici, dovrebbero essere benvenute.

  8. Le mie Paranoie non giustificano proprio niente. L’articolo di Baccini non capisco cosa c’entri. Pongo un problema. Credevo di essere stato chiaro, evidentemente no. Inserire la bibliometria in un sistema di valutazione complesso, quello che tutti ci auspichiamo mi sembra, non rischia di diventare un alibi per chi gestiva i concorsi locali in maniera autarchica? Un modo insomma per ritornare a fare valutazioni “bizzarre”. Io ho esperienza di concorsi locali in cui sono state fatte cose che oggi sarebbero impensabili. Anzi, di più: alle stesse condizioni per cui cui avremmo assistito ad ingiustizie palesi (candidato locale scarso), l’esito è stato differente (non ha partecipato il candidato locale perchè palesemente indietro e soprattutto privo di abilitazione). Questa è la mia esperienza, senza grafico. E’ un single case. Infine, ritengo il mio dubbio non trattato nè da Baccini nè da lei, De Nicolao, una o decine di volte in passato (ma che c’entra l’emergenza poi?). Parlo di un pericolo che si corre ADESSO. Non mi fido ADESSO della libertà data a valutatori che hanno gestito vent’anni i concorsi locali.

    • Non stiamo parlando di concorsi locali (le cui falle strutturali mi sono state sempre chiare). Stiamo parlando di Abilitazione scientifica nazionale.

  9. Ci sono due ospedali. Uno ha fatto un concorso per scegliere il suo chirurgo fra 10 chirurghi che avevano fatto almeno 100 interventi l’uno. Il secondo ha scelto il suo chirurgo fra dieci che avevano le mani più belle, anzi no, meno brutte, anzi no, ampiamente mature, anzi no, pienamente mature, anzi no, in via di piena maturazione, anzi no, capace di tessere reti, anzi no …. insomma su un giudizio insindacabile ed estetico di un commissione ….. Dove porteresti un tuo caro congiunto a farsi operare? ….
    Qualche numero ci vuole, un numero un po’ meno sgangherato delle mediane e dell’età accademica, ma qualche numero ci vuole …

    • Beh io concordo. A patto che i numeri siano indicatori di qualcosa. Come nell’esempio del chirurgo.
      Purtroppo c’è un po’ di differenza tra il numero di operazioni (indicatore di “esperienza” nel lavoro credibile ed autoselettivo (a meno di reati)). E il meccanismo delle mediane o la somma degli IF, o il numero di articoli in riviste di “classe A”…

    • L’esempio è ottimo perché esiste una vasta letteratura sui trabocchetti in cui si cade quando si fa un uso ingenuo di indicatori e classifiche in ambito sanitario. Per rintracciare diversi lavori interessanti basta cercare Spiegelhalter + health in Google Scholar. Ne cito solo uno:
      _____________________
      “Problems in assessing rates of infection with methicillin resistant Staphylococcus aureus”
      Short abstract: Chance variability makes it impossible to assess reliably whether individual trusts are meeting annual targets for reduction in the risk of MRSA infection
      http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC1273460/
      __________________
      I profani (e buona parte degli accademici si comportano da profani) ripongono una fede religiosa nei “poteri del numero”, senza purtroppo avere gli strumenti culturali per comprendere i problemi di affidabilità statistica e di fattori di disturbo. Valutazioni come quelle della mortalità operatoria sono enormemente favorite rispetto alla valutazione della ricerca (l’esito – numero di morti – è decisamente più misurabile di un’evanescente “qualità della ricerca” che, anche epistemologicamente, qualche problema lo pone). Ciò nonostante la letteratura scientifica mostra che persino in quel caso bisogna tenersi alla larga da valutazioni naive ed è necessario servirsi di strumenti statistici avanzati (talvolta ancora oggetto di ricerca). I colleghi che ripongono fiducia nelle valutazioni bibliometriche automatiche mi sembrano vivere in una dimensione prescientifica, fiduciosi come sono negli sciamani bibliometrici anvuriani. Il grado di approssimazione e incertezza di questi numeri non ne esclude del tutto l’uso (io stesso li esamino e cerco di interpretarli), ma evidenzia l’esigenza di un ricorso sostanziale a valutazioni nel merito. Niente di rivoluzionario: basta leggere la letteratura scientifica, ma – stranamente – c’è una parte di accademia italiana che preferisce il pensiero magico.
      Lettura consigliata:
      https://www.roars.it/we-dont-want-to-set-up-a-bibliometric-police/

    • “…. bisogna tenersi alla larga da valutazioni naive ed è necessario servirsi di strumenti statistici avanzati…. ”

      “… un numero un po’ meno sgangherato delle mediane e dell’età accademica, ma qualche numero ci vuole …”

      due modi per esprimere lo stesso concetto … uno un po’ meno sgangherato dell’altro ;-)

  10. Di quali mediane si parla?
    Di quelle che non si sa come sono state calcolate?
    Di quelle che si dice siano state calcolate non tenendo conto dei professori “inattivi”?
    Roba che se fosse vera sarebbe materia da procura della Repubblica.
    Oppure
    di quelle che devi esser meglio della “metà” nella fascia di arrivo e non nella tua fascia di appartenenza?
    Di quelle che favoriscono platealmente e scientemente quelli che pubblicano con tanti coautori, o pubblicano serialmente sullo stesso argomento.
    Adesso si sono fatti furbi, hanno messo “soglie” non meglio definite. Belin (espressione vernacolare che vuole significare una certa indignazione), ci prendono davvero per i fondelli (non ho trovato il coraggio per il turpiloquio)! Bisognerà vigilare su questa storia delle soglie.
    Comunque, torniamo al bell’articolo. Grazie. E’ vero. Tutti, chi più chi meno siamo finiti in un ingranaggio tecno-meritocratico disumanizzante. Ci stanno rubando un bene preziosissimo, il tempo per i “pensieri lunghi” che sono necessari, anche nelle discipline bibliometriche, come si dice ora nel neo-linguaggio anvuriano. E anche il tempo per preparare una lezione che sia qualcosa di più che decente. Non arrendiamoci.

  11. Ci stanno rubando? O ci hanno rubato?
    Ci hanno già rubato! Ma scientificamente, con i numeri, con classe (A)…
    Solo che noi ancora non ce ne siamo accorti del tutto.
    Le magagne locali restano, ma doppiate da quelle centrali, di massa. Ora abbiamo magagne su due livelli. Bella risultato!

  12. Dimenticavo.
    Ci sono due chirurghi.
    Uno fa 10 operazioni in un mese. Nessuna riesce perfettamente, ma i 10 pazienti sono a casa e vanno in giro con le proprie gambe.
    L’altro fa 20 operazioni. Riescono tutte perfettamente, ma 15 pazienti sono deceduti. Gli altri 5 sono in rianimazione.
    Il secondo chirurgo ha ricevuto un premio di produttività.

    • Ok, giochiamo a questo gioco (i chirurghi li valuto per lavoro, son ben felice):
      1. Il primo chirurgo ha operato 10 appendiciti non complicate in pazienti di 40 anni.
      2. Il secondo chirurgo ha operato 20 pazienti con tumore del pancreas metastatizzato, semi-terminali, di 82 anni e con scompenso cardiaco in edema polmonare.

      So bene che non è facile capire qual’è il migliore. So anche che sono 35 anni che si riunisce in un convegno mondiale la società di sistemi di classificazione del case-mix, ospedaliero e non. Che ci sono migliaia di indicatori, intelligenti e stupidi, affidabili (pochi) e non (tanti), ma ci sono. E vengono usati, eccome, fuori dall’università. Con buon senso e capacità di discernimento, a volte, a volte no.
      Ma sono esattamente come le mediane.
      E infatti, anche al di fuori dalle università, nei concorsi per i primari, i bandi richiedono caterve di numeri, che poi possono essere usati bene o male, ma intanto li richiedono.
      Ma noi universitari no, noi siamo romantici e nostalgici di quei bei concorsi che furono, dove tutto era così bello e vincevano i migliori. In tutti i settori bibliometrici usiamo i numeri per dimostrare la bontà del nostro lavoro, ma non possiamo usarli per essere valutati?

      E sulle mediane, Maurizio chiede quali mediane?
      Giusto, bene, miglioriamole, pesiamole, aggiungiamo qualche correttivo (ad esempio per i primi/ultimi nomi), ma non aboliamole.
      E comunque, nei settori medici, due mediane su tre erano venute fuori ben centrate (anzi, spesso conservative). L’unica mediana folle era quella sul numero di articoli richiesti in 10 anni, che davvero è indicatore troppo grezzo e, in alcuni settori, arrivava a numeri surreali (detto, tanto per chiarire, da uno che le mediane le ha superate tutte al 200%, ma che avrebbe preferito fare meno articoli ma tutti).

      Benissimo la polemica sulla qualità degli indicatori, ma proponiamone anche di migliori, perché senza indicatori è certamente peggio.
      Ripeto un’ultima volta, parlo dei settori bibliometrici, ovviamente.

    • Ripeto: non è il caso di reinventare la ruota (magari costruendola esagonale invece che tonda). Basta fare un po’ di ricerca bibliografica e documentarsi sullo stato dell’arte. Riguardo alla bibliometria individuale, un buon sunto della situazione corrente è reperibile qui:
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      https://www.roars.it/we-dont-want-to-set-up-a-bibliometric-police/
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      E se c’è qualcosa su cui il consenso è ormai ampio, è l’inutilizzabilità di valutazioni automatiche.

  13. Caro collega,
    preferisco essere operato da un chirurgo placido ma scrupoloso piuttosto che da uno iperproduttivo e destinato a far carriera, così come preferisco il pigro Manzoni al prolifico e pur bravissimo Camilleri o Carofiglio o come si chiama.
    Nonostante le mille letture, ancora non intravedo, limitatezza mia, uno straccio di legame tra quantità e qualità, tra produttività e merito o bravura o come si chiama.
    Se proprio, vedo una proporzionalità inversa: mi fido di quello che scrive meno, tendendo a pensare che abbia letto qualcosa, o persino riflettuto un attimo, non troppo, sotto una veranda baciata dal crepuscolo e accarezzata dalla brezza marina, prima di scrivere.

  14. Scusate, De Nicolao e Mauro, ma veramente non ricordate in che condizioni eravamo. Io ho perso un concorso di ricercatore (eravamo due) con un candidato con 0 (dico 0!) pubblicazioni, mentre io ne presentavo 5, il numero richiesto (vi ricordate? era previsto il Tema!!!! E il mio non è piaciuto!). Ho visto concorsi di Professore con vincitori con pubblicazioni su libri locali e nessun altro titolo, vincere in faccia a candidati con 25 pubblicazioni indicizzate e anni di ricerca passati all’estero. Altro che navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione. Ne avete contezza? Quelli che gestivano quei concorsi locali, oggi leggono con interesse le vostre battaglie. Le fanno loro, nascondendosi dietro la guerra santa agli indicatori per ritornare a cooptare alla faccia dei più elementari criteri di qualità. Sveglia! O volete tornare al tema!

    • Questo è quello che io chiamo “argomento emergenziale”. Nella sostanza, simile a chi, a fronte di episodi di criminalità, invoca lo stato di eccezione. Un commento classico a difesa della bibliometria automatica, che presuppone che l’emergenza sia tale da giustificare, anzi richiedere, l’adozione di pozioni al posto delle medicine. Un po’ come quando si curava il colera immergendo in una vasca di acqua bollente l’ammalato che il più delle volte moriva atrocemente ustionato (Ken Russel immagina che Čajkovskij sia morto così). Il problema è che, senza nulla togliere ai misfatti di cui up dice di essere stato testimone, nessun dato bibliometrico evidenzia quel generalizzato degrado scientifico che sarebbe la necessaria conseguenza di un reclutamento che privilegia sistematicamente candidati con zero pubblicazioni. E quindi, ammesso che abbia mai senso, nel nostro caso il bagno nell’acqua bollente sembra una misura alquanto ingiustificata.
      https://youtu.be/YiN7dvw0JoU?t=10m15s

  15. Grazie Prof. Mauro,
    bellissimo articolo, che sottoscrivo totalmente.
    Una domanda: se l’ANVUR avesse scoperto che la penicillina è nata per un errore, avrebbe spedito Fleming in un campo di rieducazione? Avrebbero buttato via la medicina?

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