Ha creato scompiglio nelle università la notizia di un decreto legge che, insieme ad altre misure, rivede le procedure di reclutamento previste dalla legge Gelmini: un provvedimento il cui destino pare, almeno per questo aspetto, incerto. Da anni si discute del problema e si tentano nuovi sistemi. Risultato di questa disordinata ricerca: tutto si ferma sempre.
Le ultime tornate concorsuali di prima e seconda fascia risalgono al 2008. Il reclutamento è da allora sostanzialmente bloccato: si vanno riducendo gli organici, mettendo a rischio interi corsi di laurea, mentre la totale incertezza scoraggia i giovani migliori dal tentare la carriera accademica.
Nelle università italiane lavorano un gran numero di precari, che premono non senza ragione per avere l’opportunità di concorrere a una posizione accademica stabile e di ricercatori a tempo indeterminato, messi a esaurimento dalla riforma, che sperano di ottenere il passaggio alla fascia superiore dei professori associati. Gli interessi di questi due gruppi sono spesso confliggenti.
Nel frattempo, l’accademia è governata da un numero sempre più esiguo di ordinari, un ruolo falcidiato dai pensionamenti. Il quadro è preoccupante: se, per effetto di politiche scriteriate, la possibilità dei giovani studiosi di entrare nei ruoli universitari dovesse essere ulteriormente compromessa, si creerebbe un irrimediabile danno al sistema della ricerca italiana, che nonostante i tagli tiene, forse ancora per poco, la sua posizione nello scenario internazionale. D’altro canto il meccanismo disegnato dalla riforma stenta a decollare.
La legge prevede abilitazioni nazionali a lista aperta. I candidati ritenuti meritevoli da una commissione nazionale composta da docenti selezionati in base a criteri fissati dal ministero e chiamata a sua volta a valutare secondo criteri stabiliti in apposito decreto, potranno concorrere nelle diverse università per divenire professori associati o ordinari sulla base di ulteriori regole e procedure che la legge lascia definire alle singole sedi. Un meccanismo solo in apparenza capace di garantire il reclutamento dei più meritevoli. Le abilitazioni a lista aperta lasciano immaginare una platea di abilitati troppo vasta, che andrà a sommarsi agli idonei dei precedenti concorsi ancora in attesa di prendere servizio, e che il sistema non potrà assorbire. Infatti, altre disposizioni limitano drasticamente la possibilità degli Atenei di reclutare.
Per quanto riguarda i criteri di abilitazione, benché non ancora resi pubblici, si sa che per alcune discipline prevederebbero il ricorso a indicatori bibliometrici, per altre l’uso di classifiche di riviste compilate in modo opaco sulla base di criteri non accertabili oggettivamente. In entrambi i casi si suppone la disponibilità di banche dati che non esistono e si dovranno costruire in urgenza. Questi criteri, se irragionevoli o mal congegnati perché troppo macchinosi o basati su dati non adeguati potranno produrre effetti distorsivi e condurre alla paralisi del sistema, facendo incagliare la procedura in seguito ai ricorsi sollevati nella aule dei tribunali.
Va ribadito che il sistema universitario necessita di un reclutamento, anche limitato, ma continuo, per evitare che si impoverisca totalmente scoraggiando le migliori risorse. Proprio per questo sarebbe opportuno inserire un vincolo alle abilitazioni, rendendole a numero chiuso: si eviterebbe la concessione di abilitazioni a pioggia e si renderebbe il numero degli abilitati proporzionale alle disponibilità degli atenei. Occorre consentire ai precari della ricerca di concorrere a parità di condizioni con i ricercatori a esaurimento senza che per questi ultimi vengano costruiti percorsi preferenziali destinati a penalizzare i più giovani.
Nessun tipo di promozione ope legis è accettabile, se davvero si vuole perseguire il merito. I criteri di selezione dei commissari e di valutazione dei candidati devono essere sufficientemente robusti nei confronti del contenzioso giuridico, pena il naufragio dell’intera operazione. Il CUN, con il concorso di tutte le società scientifiche, aveva proposto criteri ben più robusti e varrebbe la pena di considerare attentamente il suo contributo. Occorre fissare le regole in base alle quali le Università procederanno ai reclutamenti per garantire che il merito prevalga sul nepotismo e il localismo, anche, e soprattutto, nella fase cruciale: quella che porta gli abilitati a diventare professori.
Da ultimo, è urgente porre rimedio a quanto previsto dalle norme della riforma Gelmini che, modificando il sistema precedente, sottraggono a regole chiare il reclutamento per chiamata diretta di soggetti che, nell’attuale situazione di stallo, possono beneficiare di avanzamenti di carriera fuori sacco aggirando le procedure concorsuali. Cosa che con il “merito” ha davvero poco a che fare.
(Una versione leggermente modificata di questo articolo è apparsa su l’Unità del 4 giugno 2012).
Esauriente punto della situazione!
Tre osservazioni.
Prima.Se si ritiene che il numero degli abilitati sarebbe troppo alto per le risorse economiche del sistema, si potrebbe “alzare l’asticella” per le abilitazioni in proporzioni ad esse.
Seconda. Non è vero che non esistano delle banche-dati affidabili per valutazioni bibliometriche. In molti settori concorsuali, dove da tantissimi anni si pubblica su riviste internazionali, ISI e SCOPUS forniscono i dati per tali valutazioni. Oltretutto, in caso di errori si può chiedere una verifica ed eventuali correzioni.
Terza. Non condivido la tesi che il CUN aveva proposto criteri ben più robusti. Nelle Aree 1-9, il CUN aveva indicato come soglia un numero minimo di pubblicazioni su riviste internazionali esattamente come ha fatto l’ANVUR. Solo che mentre l’ANVUR ha usato, nella scelta del numero, un criterio trasparente, ossia quello della mediana delle pubblicazioni del settore, il CUN ha fornito dei numeri senza fornire spiegazioni su come si fosse arrivati ad essi. Inoltre, l’ANVUR ha in più suggerito di considerare anche il numero delle citazioni e l’h-index, perchè si può essere anche molto produttivi senza riuscire a “impattare” sulla propria comunità scientifica. In conclusione, atteso che i criteri basati sulal bibliometria siano meritocratici (e su questo si può discutere a lungo), mi pare indubbio che, nelle Aree 1-9, i criteri ANVUR siano più trasparenti e completi di quelli CUN.
Caro Gualtieri, grazie per il commento. Una breve replica:
1- se si vuole alzare l’asticella, l’unico modo sensato a me pare un numero chiuso ragionevolmente pensato.
2- il calcolo delle mediane presuppone che tutti i docenti italiani inseriscano i loro dati in CINECA (come ha spiegato anche di recente ANVUR). Lasciamo perdere isi e scopus, chi conosce CINECA sa bene quanti problemi pone in tema di integrità e completezza dei dati.
3- i criteri cun sono stati proposti dalle società disciplinari. I “numeri” vengono da lì. Naturalmente si può discutere anche di quelli, ma se c’è una cosa certa è che non danno spazio a contenzioso, a differenza di quelli ANVUR (liste di riviste fatte “a capocchia”, tanto per fare un esempio).
Evito ora di discutere di indice h, selezioni individuali basate su indice h sarebbero davvero una peculiarità italiana; forse per qualche settore può funzionare, per molti altri no (ad es.: matematica).
Cordialità
AB
Nel sistema francese esiste una sorta di “abilatazione” nazionale (qualification) che serve per filtrare le domande. Dunque non c’e’ un numero chiuso, perche’ se ci fosse bisognerebbe fare una analisi comparativa – altrimenti come si fa a dire chi e’ dentro e chi e’ fuori? criteri basati su qualche numero “assoluto” sono a mio avviso insensati. Invece il filtraggio della qualification serve solo per eleminare i casi che sono ritenuti inadatti a fare un concorso (ad esempio un CV troppo scarso o la non conoscenza del francese che per chi insegna e’ un requisito fondamentale).
questo riporta il pallino sui concorsi “locali”…è un puzzle in effetti.
Quella di alzare l’asticella è una bella metafora, ma al di là del simpatico effetto retorico, cosa vorrebbe indicare precisamente? Come è compatibile l’idea di abilitazione, che deve dichiarare che qualcuno è in grado di svolgere una certa attività, con la nozione di numero chiuso, che predecide che, quali che siano le capacità in questione, superato un certo numero gli altri sono dichiarati inabili d’ufficio? Cosa facciamo, due valutazioni comparative? E poi, se, come pare evidente, i criteri ANVUR sono controversi, una loro applicazione ancora più severa e restrittiva non preventiva un incremento dei casi di contenzioso? E ancora, quanto più criteri che hanno margini di errore vengono applicati in modo restrittivo, tanto più essi producono errori, fatalmente: una crescita dei margini di ingiustizia non pone problemi a nessuno?
Inoltre, nella legge Gelmini a chi conseguiva l’abilitazione si attribuivano alcuni vantaggi (forse marginali e migliorabili) sul piano lavorativo extra-accademico, e la ratio era proprio quella di non rendere l’abilitazione semplicemente un’anticamera necessaria dell’assunzione, ma di renderla spendibile altrove. Arrivati a questo punto la pressione potenziale degli abilitati appare così temibile? Rispetto a quali alternative? E per chi?
Caro Zhok,
trovo l’idea di rendere spendibile nella PA l’abilitazione del tutto aberrante. In ogni caso, è un esperimento che si può fare: vediamo cosa capiterà quando avremo migliaia di abilitati che crescono ogni anno (ogni anno!) con un turnover vicino allo zero. Per me, si chiama carta straccia. E si chiama anche problema sociale. Poi, se si vuol fare che si faccia.
Che l’abilitazione risulti essere carta straccia per tutti coloro che non potranno essere reclutati è altamente plausibile, anche in presenza di una qualche spendibilità extra-accademica (che non capisco però perché debba essere considerata aberrante). Ma il punto non mi pare sia questo.
Quello che mi chiedo è se il problema sociale sarebbe significativamente diverso o inferiore di fronte a una marea di non-strutturati che hanno speso già anni in ambito accademico e che necessariamente rimarranno esclusi dall’incardinamento; oppure di fronte a numerosi esclusi dall’abilitazione grazie all’applicazione draconiana (l’asticella alta) di criteri raffazzonati ed inoltre modificati ‘a metà gara’ rispetto alle aspettative precedentemente vigenti (es.: chi ha accettato carichi didattici non dovuti, a scapito delle pubblicazioni, ecc.). In che senso questo problema sociale sarebbe tollerabile, mentre quello che si verificherebbe ad abilitazione ottenuta non lo sarebbe più?
In ogni caso il nocciolo della questione è che assegnare all’abilitazione il ruolo di una valutazione comparativa (ed un numero chiuso a ciò ammonterebbe) sia del tutto improprio e latore di molti più problemi di quanti intenda risolvere. Almeno così a me pare, in attesa di controargomentazioni convincenti.
Caro Zhock,
mi fa piacere che si preoccupi dei non strutturati. E’ proprio a costoro che pensavo nel proporre un’abilitazione assorbibile dal sistema che consenta ai non strutturati di competere con gli strutturati alla pari. Quanto ai criteri cambiati a metà gara, stento a comprendere cosa intenda; non mi risultano criteri previgenti che prevedessero il carico didattico come un passe partout per le abilitazioni. Poi, ripeto, si può anche abilitare tutti. Vedremo cosa accadrà e il tempo ci dirà chi ha ragione.
p.s. la mancata abilitazione degli strutturati è fastidiosa e seccante, ma non è un problema sociale, visto che parliamo di strutturati, non di precari.
Caro Banfi,
ciò che intendo con mutamento di criteri a metà gara è abbastanza ovvio, mi pare. Nell’esempio cui facevo cenno: fino alla legge 240 per essere promossi all’interno del sistema cooptativo generale giocava un ruolo importante l’assunzione di incarichi didattici. Ciò ha fatto sì, ovviamente, che in alcune realtà alcuni (prevalentemente RTI) abbiano assunto oneri didattici in eccesso (talvolta molto in eccesso) rispetto a quanto richiesto dalla legge, talora a scapito della produttività scientifica, che però ora risulta essere l’unico elemento di valutazione.
Oltre a questo caso, per mia esperienza alquanto diffuso, ci sono poi, nell’ambito della valutazione delle pubblicazioni in senso stretto, svariate preferenze, magari legittime, che i criteri ANVUR segnalano nei confronti di specifici format e specifiche sedi di pubblicazione (es. articoli su riviste internazionali). Ma di nuovo, questi indirizzi, sulla cui bontà o meno non voglio qui entrare, sono comunque specifiche intervenute per così dire a metà gara, ovvero: sarà del tutto accidentale, non potendo nessuno modificare il passato, se qualcuno avrà pubblicato in forme più o meno gradite secondo tali criteri (anche se magari sarebbe stato in grado di farlo), giacché in precedenza non era affatto ovvio che certe forme di pubblicazione fossero chiaramente preferibili ad altre, salvo casi estremi ovviamente (dispense vs. monografia internazionale, ecc.).
Quanto al fatto che strutturati e non strutturati debbano poter partecipare alla pari, di ciò non ha bisogno di convincermi. Ovviamente alla pari significa alla pari, che ciò implichi ‘problemi sociali’ o ‘fastidiose seccature’, secondo la sua definizione, o meno. Perché immagino che lei non voglia dire che, siccome alcuni in quanto non-strutturati siano in una situazione di maggiore precarietà, allora è necessario creare una specifica compensazione a vantaggio di questi ultimi.
Ciò che mi sfugge è perché una partecipazione alla pari sia possibile solo con l’adozione di un’abilitazione fortemente restrittiva. Se la valutazione ex post dell’ANVUR è da considerarsi valida ed affidabile, allora essa sarà sufficiente ad incentivare i dipartimenti a chiamare (più o meno) i migliori tra gli abilitati (pena riduzione fondi). Se invece la valutazione dell’ANVUR è da ritenersi poco affidabile, allora non capisco come si possa chiedere che essa sia implementata in maniera particolarmente vincolante e stretta.
Caro Zhok,
secondo me si può pacatamente discutere di tutto purché a carte scoperte. I non strutturati non sono in “una situazione di maggiore precarietà”, né diversamente precari. Sono non strutturati punto. Gli strutturati non sono precari, hanno stipendio e progressione (anche se per ora bloccata). Né gli uni né gli altri stanno un granché bene, ma non mi pare corretto assimilarli. Ciò significa, dal mio modesto punto di vista, che né gli uni né gli altri (perché più precari o più anziani, a seconda) debbano godere di un vantaggio di partenza.
Quanto all’abilitazione aperta, si può anche fare, bisognerà però gestire le pretese (non del tutto illegittime) degli abilitati esclusi dal sistema. Che ne facciamo?
Le risposte su questo punto possono essere varie e non è detto che su alcune non sia d’accordo, ma per istinto tendo a pormi dal punto di vista dell’istituzione.
Cordialmente
Sarò sincera: io non ho capito il problema sociale legato all’abilitazione a numero aperto.
Si suggerisce che l’abilitazione comporti l’acquisizione di un diritto ad ottenere un posto coerente alla propria qualifica. E che questo possa creare un sentimento comune di ingiustizia sociale.
Sarebbe lo stesso dire che è necessario che tutti corsi di laurea debbano essere a numero chiuso in proporzione alla domanda di lavoro in ogni specifico settore, perchè altrimenti i laureati scenderebbero in piazza reclamando giustamente un posto di lavoro.
La famosa “asticella” è solo un insieme minimo di requisiti finalizzato ad attestare che puoi svolgere un determinato lavoro, come una laurea, una specializzazione o quant’altro. Che poi quel lavoro ci sia oppure no è questione più ampia, che non va risolta limitando la platea di potenziali aspiranti. Fermo restando che uguale accesso all’asticella deve essere garantito agli strutturati e ai non strutturati.
E poi non penso sia tanto risibile l’idea di poter scrivere nel curriculum “abilitato a…”. Non pensiamo solo al ristretto mondo dell’accademia italiana. Non ci sono migliaia di persone abilitate all’insegnamento nelle scuole che non insegnano? Perchè dovremmo limitare numericamente l’accesso ad un titolo? Cosa ci costa?
Una risposta possibile è quella sulla creazione di aspettative insoddisfatte. Che potrebbe essere catalogato come problema sociale. Ma strozzare l’ingresso all’abilitazione è davvero una soluzione?
Un possibile problema dell’abilitazione a numero aperto è la “concorrenza” tra SSD. Infatti, se il mio SSD (ING-INF/XX) fosse più “severo” nell’abilitare rispetto ad ING-INF/YY, quest’ultimo SSD avrebbe più abilitati e maggiori probabilità di assorbire le risorse (sempre che ce ne siano) dei dipartimenti. A livello di SSD, questa “concorrenza” incentiva l’attribuzione dell’abilitazione a tutti coloro che soddisfano i requisiti minimi (la mediana dell’ANVUR o qualsiasi altro criterio).
Un elevato numero di abilitati, a sua volta, mette nelle mani dei poteri locali la vera decisione su chi reclutare/promuovere, rendendo l’abilitazione poco più che un riconoscimento morale per la stragrande maggioranza degli abilitati. Un numero di abilitazioni solo un po’ maggiore delle presumibili esigenze di reclutamento/promozione porrebbe dei vincoli ai poteri locali pur concedendo una parziale libertà di scelta entro la cerchia degli abilitati (libertà di scelta che non esisteva prima del 1999 quando il numero degli idonei era rigorosamente uguale ai posti disponibili rendendo i vecchi “concorsoni” nazionali simili ad un puzzle infernale).
Credo che molti temano che l’abilitazione a numero chiuso sia troppo simile ai vecchi concorsoni, non privi di difetti, anche gravi. In realtà, per recidere molte disfunzionalità tipiche dei concorsoni basterebbe separare il reclutamento dagli avanzamenti di carriera. In un regime di abilitazioni a numero chiuso, a ricercatori e docenti di ruolo che ottenessero l’abilitazione al ruolo superiore dovrebbe essere risparmiato l’ulteriore rito di un concorso nazionale, rimettendo piuttosto la decisione sulla promozione al dipartimento di appartenenza.
Frequenti abilitazioni a numero chiuso potrebbero essere il mezzo per creare un flusso stabile nel tempo di reclutamenti e avanzamenti di carriera commisurati alle esigenze di ricambio generazionale e sottoposti al doppio vaglio della comunità scientifica nazionale (i commissari nazionali rappresentativi del SSD) e delle sedi locali (Dipartimenti che prendono decisioni sul bando di nuovi posti e sulla promozione degli abilitati già in ruolo).
Per evitare di destinare tutte le risorse alle promozioni degli interni, un certo livello di circolazione dovrebbe essere garantito tramite incentivi e/o quote per reclutamenti/trasferimenti dall’esterno (estero, altre sedi,etc), come d’altronde già previsto dalla L. 240,
Forse si dimentica che un RTI prima di essere uno “strutturato” era un “universitario precario”! Abbiamo addosso tutte le problematiche -ante e post- e da anni (troppi anni considerato il blocco dei concorsi) attendiamo una progressione di carriera che molti di noi meritano ampiamente. La parità è per tutti e se un giovane dottore può giustamente pensare di concorrere con un ricercatore più anziano (per attività accademica), a sua volta il RTI può pensare di concorrere all’ordinariato dato che ha talmente tanta ricerca e didattica sulle sue spalle da non avere talora neanche un pari per giudicarlo. Scusate, ma ridurre le deficienze del sistema ad una “guerra di casi umani” mi sembra fuori tempo e fuori luogo.
Caro Banfi,
solo una postilla per precisare che parlavo di ‘maggiore precarietà’ usando il comparativo e non l’assoluto non per giocare a carte coperte, ma perché, così come lei per istinto si pone dal punto di vista dell’istituzione, io per formazione tendo a guardare in ottica storica, e se quanto ci dicono relativamente alle prospettive a medio termine della moneta unica è vero, non è escluso che ci si possa abbastanza presto trovare tutti in una condizione di precarietà. Questa è la sola ragione dell’uso ‘maggiore precarietà’ invece dell’opposizione precarietà vs. assenza di precarietà.
Chiedere un profilo scientifico alto per il conseguimento dell’abilitazione mi sembra doveroso, ma tanto dovrebbe bastare per alzare l’asticella. Il numero chiuso sarebbe difficile da applicare in caso di più candidati a pari merito, che riescano cioè a raggiungere tutti il livello richiesto. L’abilitazione del resto è il riconoscimento da parte della comunità scientifica di riferimento di essere “abilitati a..” e non di “essere assunti entro…”. Così è effettivamente in Francia, dove una mia allieva ha conseguito in febbraio due qualification in settori diversi ma compatibili. Cio non vuol dire ahimè assunzione immediata. La mia allieva ha già fatto un paio di domande e in entrambi i casi le è stato preferito il candidato locale, ugualmente qualificato, ovviamente, ma con una sua “posizione” privilegiata anche in Francia. La differenza è che, a richiesta dei candidati, prima che avvenga la selezione in loco, l’università non fa mistero dell’esistenza di un candidato interno e nessuno se ne scandalizza. Ma la differenza ancor più rilevante è che il meccanismo in Francia è costante, regolare e veloce: non si creano imbuti e grazie a questa fluidità del sistema, nei quattro anni di validità dell’abilitazione, l’assorbimento prima o poi si realizza.
Temo però che con le incongruenze che ben denunciava Banfi circa i criteri ANVUR per stabilire le mediane (a mio avviso arbitrarie nel caso dei settori umanistici) faranno impantanare il tutto ancora per molto.