In accordo con la Redazione del CISUI ripubblichiamo questo articolo di M. Moretti e I. Porciani apparso negli Annali di Storia delle Università Italiane I/1997. Un testo che rimane attuale e consente di meglio comprendere molte delle dinamiche in corso nell’Accademia italiana.
“Volete che dicano che danno una cattedra per impegno di una Signora o di un Signore? Questo è impossibile per la dignità apparente di un Ministro. Dunque il concorso è una forma delle cose, e non la sostanza”.1Non è un’affermazione di questi ultimi giorni, o mesi. Si tratta del passaggio di una lettera che Marianna Florenzi Waddington scriveva nel 1862 a Francesco Fiorentino, che avrebbe voluto per sé la cattedra in questione 2.Non abbiamo scelto questa citazione perché riteniamo che il concorso sia solo “forma”, né perché vogliamo suggerire, come ha fatto di recente l’opinionista di un importante quotidiano, un rimedio “alla Pietro Micca” con finale di paradosso massmediologico consistente nel “far saltare in aria tutto ed obbligare i componenti delle singole commissioni al gioco delle trasparenze costringendoli a formare le maggioranze con il gioco della morra, dinanzi alla TV di stato a reti collegate come quando parla il Presidente della repubblica” 3.Abbiamo deciso di partire da questa citazione perché essa rinvia immediatamente alla fase fondante e del sistema universitario nazionale e dello Stato unitario. Infatti proprio allora, mentre si riorganizzava la struttura dell’istruzione superiore, che doveva essere lo strumento per la formazione delle nuove élitese il luogo principe della scienza nazionale, prese forma anche il sistema di reclutamento basato, appunto, sui concorsi. Allora fu fissato un criterio di fondo dal quale il sistema universitario italiano non si è, di fatto, discostato, pur se con tensioni e con varianti non indifferenti.Rilevare quasi con sorpresa, come alcuni opinionisti hanno fatto anche di recente, una sorta di curiosa eterogeneità del sistema universitario italiano rispetto al modello americano o anglosassone, presuppone spesso l’ignoranza di una vicenda ormai più che secolare seguita a quella scelta, e l’incapacità di individuare con chiarezza uno dei caratteri originari del sistema.Accennando alle soluzioni di volta in volta proposte (e l’aneddotica sarebbe gustosa, a partire dal primo regolamento generale universitario, che prevedeva per i concorsi di aggregazione il pagamento di una “conveniente indennità” ai commissari sulla base di un contributo versato dai vincitori)4, vorremmo quindi proporre alcuni elementi di riflessione sul modello di reclutamento all’interno dell’università italiana nel lungo periodo. Questo ci sembra importante soprattutto perché la storia dell’istruzione superiore nel nostro paese disegna una campata lunga il cui carattere fondante viene definito nel momento della costruzione dello stato unitario e i cui esiti finali stanno ora di fronte a noi. Oggi qualcosa di sostanziale è però cambiato, non soltanto rispetto all’università nel suo insieme, ma anche rispetto al tema del reclutamento accademico. Ci troviamo a misurarci non più soltanto con una università di massa ma anche con un quadro di riferimento fortemente trasformato dall’autonomia, che, come è noto, trovava le sue premesse nel dettato costituzionale, ma che ha avuto di fatto attuazione – in modo parziale – solo in questi ultimi anni. E – elemento forse più decisivo ancora, guardando alle forme ed alle modalità del reclutamento – assistiamo ad eventi nuovi che denotano qualcosa di profondamente diverso rispetto ad un generale, ricorrente o episodico malessere. Nella nuova situazione determinatasi nella scia di notissime iniziative giudiziarie si è infatti verificato un fenomeno non riscontrabile nel periodo precedente: la vicenda di concorsi annullati non dall’autorità interna all’amministrazione dell’istruzione pubblica o dell’università e della ricerca, ma dai tribunali. Il caso recente di concorsi annullati dal TAR sembra rappresentare in questo senso una visibile cesura. Nel clima attuale, in cui l’università è diventata oggetto di nuova attenzione, soprattutto di taglio scandalistico, sulle pagine dei giornali, e in cui il rapporto opinione pubblica – università sembra assumere connotati più aggressivi, ci sembra necessario, da storici, prendere posizione e offrire qualche elemento di ripensamento e di ancoraggio più solido ad una riflessione che non ci pare sia opportuno condurre a colpi di citazioni. Nella loro frammentarietà, singoli episodi possono soltanto suscitare nell’opinione pubblica l’idea che l’università sia stata in un lungo arco di tempo prevalentemente terreno di scandali e di camarille, di gestione corporativa e clientelare, di baroni e di pedine opportunamente mosse ai concorsi, con il senso complessivo di annullare ogni specificità e ogni prospettiva storica in un unico mare opaco in cui tutto, da sempre, si equivale. Le denunce e le condanne, del resto, non sono mai mancate. Già nel 1876 Corrado Tommasi-Crudeli, elogiando il rigore mostrato dal ministro Bonghi nella conduzione dei concorsi, notava però che in più luoghi la gente si è abituata all’idea che, per arrivare alle cattedre, basti mettersi intorno ai professori officiali ed acquistarne la benevolenza, ovvero far la corte agli studenti (per avere all’occasione dei plebisciti favorevoli), a deputati, a senatori, ad impiegati del ministero, e perfino alle autorità ecclesiastiche e alle donne5. Tra gli interventi di quest’ultimo periodo che hanno cercato di ‘attingere alle fonti’ ne segnaliamo due recentissimi: uno apparso sul “Sole 24 ore” e l’altro sul “Corriere della Sera”, che richiamavano due “scandali” inseriti in contesti ben diversi lasciando però emergere da questo uso piuttosto disinvolto delle fonti alcuni caratteri di analoga ambiguità. Così è avvenuto quando Gerbi ha ricordato la vicenda delle nomine dirette, senza concorso6, o quando l’opinionista del “Sole 24 ore” ha richiamato, estrapolandolo da un preciso contesto, un articolo di Ignazio Brunelli7. Questi rilevava in modo coraggioso, e circostanziato, le vistose incongruenze dei giudizi dati sullo stesso candidato da due commissioni, delle quali avevano fatto parte Santi Romano e Giovanni Vacchelli, solidali – commentava l’autore – “in due giudizi che fanno sostanzialmente a pugni tra loro” dal momento che in uno di essi uno dei candidati era giudicato positivamente proprio per le sue ricerche relative al diritto amministrativo e nell’altro era stato bocciato perché giudicato tale da non presentare “quelle qualità che permettono di designare alcuno per una cattedra di dir. amministrativo“. Chi avesse guardato ai concorsi di diritto pubblico avrebbe potuto chiedersi, rilevava l’autore, “se non sia preferibile giuocare al lotto piuttosto che cimentarsi ai medesimi, tanta è la diversità dei criteri di scelta dei candidati” 8. L’articolo in questione – che peraltro era ispirato da una esplicita polemica contro il “germanesimo di scuola” 9– faceva comunque emergere un dato di fatto: in quell’occasione il concorso in questione era stato annullato dal Consiglio superiore che non emetteva un giudizio di merito, ovviamente, ma un giudizio di conformità. Anche in quel caso, si trattava però di una situazione in cui l’amministrazione trovava la soluzione di una crisi, sia pur circoscritta e parziale, al suo interno, senza pensare ad un intervento dell’autorità giudiziaria. Casistica storica a parte, ci preme qui soprattutto sottolineare il nesso forte esistente tra il sistema di reclutamento e il modello di università, e il rapporto complesso ma nondimeno strettissimo che il sistema di reclutamento ha sia con la politica scientifica sia con la geografia del sistema universitario, e quindi con la sua funzione. Parlare di concorsi e di commissioni non significa infatti soltanto riesporre norme, e proporre ingegnerie più o meno innovative e complesse. Significa anche far riferimento ad un quadro di notevole ampiezza che, in un’ottica di lungo periodo, deve necessariamente comprendere indagini di tipo prosopografico come quelle avviate per la Francia da Christophe Charle10 al fine di individuare i percorsi compiuti dalla maggior parte degli accademici e consolidatisi quasi come gradi successivi in un ‘cursus honorum‘ che pure in Italia aveva alcune tappe se non obbligate almeno frequenti, anche se poi gli esiti non furono mai quelli di una generalizzata aspirazione all’approdo nella capitale. Ma Roma, lo sappiamo, non fu certo mai Parigi né il sistema universitario italiano ebbe quelle spiccate caratteristiche di accentramento che segnarono invece la vicina Francia. In questa occasione non possiamo percorrere questa strada: essa ci porterebbe, tra l’altro, ad affrontare la complessa questione delle varie figure operanti all’interno del sistema universitario italiano, in particolare dei liberi docenti, e dunque ad uscire dal più ristretto ambito di indagine che abbiamo prescelto e che vogliamo mantenere circoscritto al reclutamento dei soli professori ufficiali. Incaricati, dottori aggregati, liberi docenti entravano nell’università seguendo vie diverse; e la loro posizione venne presa in considerazione ogni qualvolta si pose il problema di fissare eventuali requisiti di accesso al ruolo, limitando il reclutamento a coloro che in qualche modo erano già interni al sistema, e mirando a costituire una sorta di carriera strutturata per gradi abbastanza ben definiti. Quantunque qui non sia possibile farlo, un’attenta indagine sul reclutamento dovrebbe dunque sforzarsi di cogliere gli effettivi passaggi nelle carriere accademiche, e di avviare un’analisi non superficiale della politica delle sanatorie e dei pertugi lasciati aperti, tra le pieghe della legge, a forme di selezione non gestite attraverso la prassi ufficiale dei concorsi. Questo aspetto ha toccato solo marginalmente i professori ordinari, ma ha più spesso interessato i gradi inferiori della docenza: si pensi, in questi ultimi anni, al reclutamento sotterraneamente operato attraverso la figura del tecnico laureato, oppure alle situazioni di nuovo precariato venutesi a creare con la forma dei contratti, inizialmente pensati per la didattica integrativa e di recente estesi, ma con una norma compresa nella finanziaria, anche a quella che di fatto costituisce il nucleo degli insegnamenti fondamentali. Di tutto questo non ci sarà possibile parlare in questa sede. Intervenendo sulle pagine di una nuova rivista di storia dell’università appare però difficile non sollevare preliminarmente alcune questioni che meriterebbero di essere approfondite. Ci sembra utile richiamare almeno sommariamente l’utilità di ricerche che affrontino secondo un’ottica comparatistica non soltanto i temi del reclutamento e delle carriere, ma anche il loro nesso in primo luogo con la struttura interna della comunità scientifica entro ciascuno dei settori disciplinari; e in secondo luogo con l’introduzione e il consolidamento dell’innovazione disciplinare. Bisognerebbe provare a spostare lo sguardo anche sulla fase che precede il momento del concorso, per chiedersi quali effetti produca l’allungarsi delle procedure di cooptazione. O ancora, che cosa significhi per il reclutamento l’esistenza – in parallelo rispetto al sistema universitario vero e proprio – di centri di eccellenza, che siano quelli dei quali oggi si torna a parlare o le Grandi scuole francesi. E quali siano infine anche sul piano del reclutamento le ricadute di sistemi universitari come quello francese “centralisée à pole écrasant” – secondo la definizione di Charle – o tedesco, policentrico, anche se con un polo dominante (quello di Berlino). Di contro a questi modelli consolidati, il caso italiano – un caso, appunto, più che un modello vero e proprio, appare comunque decisamente peculiare, fondato come è stato su una struttura policentrica – e non poco polifonica – ma anche su leggi che rinviavano ad una notevole centralizzazione delle norme, oltre che dei cespiti: un sistema che non appare improprio definire caratterizzato da una sorta di accentramento imperfetto. Sono, questi, soltanto alcuni suggerimenti di strade da percorrere, che si affiancano a quelli, ancora una volta indicati da Charle, sui limiti del potere di cooptazione, sullo spirito di corpo, sulle interferenze della politica, e infine sulle donne a lungo indesiderabili nell’accademia. Romanelli scriveva qualche tempo fa: la storia dell’università italiana è fatta di giovani studiosi formatisi in uno dei centri del sistema e che poi un concorso pubblico ha costretto a insegnare per qualche tempo nelle università minori della provincia, dove hanno portato una cultura diversa e nuovi orientamenti, in alcuni casi avviando scuole di ricerca che hanno lasciato il segno, e di altri provenienti dalla periferia che, sempre sospinti dal sistema nazionale di concorso, hanno trovato nelle maggiori città universitarie il terreno più adatto per alimentare un grandissimo talento. Poiché in Italia non c’è né Oxford né Cambridge, è vitale che le istituzioni pubbliche forzino in direzione nazionale unitaria la vocazione inguaribilmente provinciale della periferia11. Una eventuale liberalizzazione totale delle forme di reclutamento che vedesse come esclusive protagoniste le singole sedi non potrebbe non avere forti ricadute sul sistema universitario nel suo insieme, portando in modo quasi naturale alla creazione – nel migliore dei casi – di università di serie A e di serie B. Una scelta problematica e in ultima analisi monca, se non si accompagnasse da una parte ad un’abolizione del valore legale del titolo di studio che costringesse gli atenei ad una reale competitività, e dall’altra ad una notevole libertà nel fissare la retribuzione dei docenti. D’altra parte non si può proporre un più forte controllo dal centro senza prescindere dalla volontà di difendere il sistema dai rischi di scadimento e liceizzazione: rischi che peraltro sono ormai tutt’altro che ipotetici. 2. Il sistema di reclutamento con il quale ci troviamo ancora oggi a fare i conti ha, si è detto, origini lontane. Nasce, nelle grandi linee, con la legge Casati: una legge mai discussa dal parlamento ma che, come è noto, finì per improntare fortemente il nuovo sistema universitario nazionale, dandogli un carattere marcatamente statalista. La secca ripulsa, almeno sul piano teorico, di ogni tipo di università privata; l’avocazione delle università allo Stato; e infine il progetto di razionalizzare il sistema espungendo gli atenei più fragili e non sufficientemente articolati negli insegnamenti e nelle facoltà erano dunque elementi che andavano di pari passo con una forte ipoteca del centro sugli stessi meccanismi di reclutamento. Il sistema universitario italiano appariva quindi fin dalle sue origini ben diverso da quelli francese e tedesco, l’uno caratterizzato dalla compresenza di centri di eccellenza e da un sistema centralizzato con una forte concentrazione nella capitale, nel quale le carriere venivano costruite a partire da Parigi e a Parigi avevano (ed hanno) il loro sbocco ideale, in un rapporto a volte osmotico con gli istituti non direttamente universitari (Grandes Ecoles o, più tardi, CNRS) l’altro policentrico anche se con un polo dominante: quello di Berlino, che la riunificazione ha reso oggi ancora più forte. Fin dall’origine il sistema italiano appariva diverso dall’uno e dall’altro anche sul piano del reclutamento, se è vero che non vi faceva il suo ingresso il concorso nazionale per l’agrégation ma neppure la Berufungspolitik. In Italia si affermò invece la prassi del concorso: ogni cattedra dichiarata vacante doveva essere coperta per concorso, e il concorso, è bene chiarirlo subito, riguardava ogni volta soltanto una cattedra e mai lotti di cattedre bandite contemporaneamente. La prassi del concorso contrapposta a quella della chiamata diretta da parte della singola università fu una scelta fondante del sistema universitario nazionale fin dalla sua origine, e si accompagnò alla scelta statalista, e in qualche modo centralista, almeno nei propositi, in materia di istruzione superiore. Fino dai primi anni dopo l’unità, il sistema universitario italiano si presentò come un campo di tensione tra ipotesi di razionalizzazione, variamente orientate, che avrebbero portato ad eliminare, o almeno a compromettere nei fatti l’esistenza degli atenei più fragili e le spinte centrifughe che venivano da gruppi di pressione locali. A vincere furono, nei fatti, proprio queste, se è vero che a partire dalla sconfitta del progetto sull’autonomia presentato da Baccelli negli anni Ottanta dell’Ottocento, apparve in modo chiaro la tendenza a non risolvere la questione universitaria con un’ ampia legge quadro, lasciando spazio alle cosiddette “leggine”. Si verificò così un processo caratterizzato prima dal mantenimento di atenei che apparivano chiaramente incapaci di organizzare seri percorsi di studi, e poi dall’ulteriore creazione di facoltà e atenei: un processo maturato sotto il fascismo, che promosse le scuole speciali al rango di facoltà e fondò gli atenei di Trieste e di Bari, e proseguito anche nell’Italia repubblicana con la nascita e la successiva statalizzazione, in anni a noi vicini, di diverse università libere ed infine con il decentramento di singole facoltà o di loro spezzoni. Un sistema di reclutamento fortemente controllato dal centro – e all’inizio soprattutto dalla persona del ministro – si inquadrò in una politica universitaria che in realtà, pur essendo basata su un’idea di accentramento di fondo, non fu aliena da concessioni e patteggiamenti. È necessario a questo punto dare qualche elemento di informazione in più. La Casati prevedeva due modi di reclutamento dei professori universitari: la chiamata per chiara fama (che non fu certamente un’invenzione di Bottai!) e il concorso. Le modalità del concorso, almeno fino alla legge Orlando del 1904, sarebbero state definite da successivi regolamenti, emanati dal ministro di concerto con il Consiglio superiore e gli alti funzionari del ministero. Anche per i concorsi vale infatti una caratteristica più generale della storia universitaria italiana di questo periodo: il largo prevalere dell’azione dell’esecutivo, per mezzo di regolamenti e di decreti, rispetto ai contributi legislativi. Le commissioni erano nominate non dalla comunità scientifica in quanto tale, bensì dal ministro, che operava la propria scelta “fra le persone conosciute per la loro perizia in simili materie od in quelle che vi sono affini, o per la loro esperienza nell’insegnamento delle medesime” (art. 62): dunque non solo all’interno di una rosa di universitari. Ampia voce in capitolo aveva comunque il Consiglio superiore (di nomina ministeriale fino al 1881), dal momento che ciascuna commissione avrebbe dovuto essere presieduta da uno dei suoi membri, e che il Consiglio stesso aveva il compito di riesaminare gli atti del concorso, quantunque con facoltà consultiva e non deliberativa. Quanto alla presenza di membri della facoltà presso la quale il posto era vacante, la questione rimase a lungo oggetto di controversia e fu diversamente affrontata, come si vedrà, a seconda della politica dei vari ministri. Di fatto, specialmente negli anni della costruzione dello stato nazionale, le nomine per chiara fama – spesso dettate anche da esigenze di lealtà politica – furono relativamente numerose per le discipline umanistiche, mentre i condizionamenti politici dovettero pesare meno in campo scientifico. Comunque, i concorsi cominciarono a svolgersi con una grande enfasi sulla pubblicità degli atti (pubblicazione del bando sul giornale ufficiale, affissione in tutte le università almeno quattro mesi prima dell’espletamento, ed infine reiterata pubblicazione, per almeno tre volte a cadenze quindicinali). Almeno all’inizio (in base alla Casati ed al regolamento Mamiani), i concorsi si svolsero in forma duplice: per titoli, con una commissione di nomina regia che valutava le pubblicazioni, o per esami, nella forma del contraddittorio tra i vari candidati, quando ve ne fosse più di uno, o tra alcuni membri della commissione e il candidato in caso contrario. La lezione inoltre entrava fin da questa prima fase a far parte del concorso per esami. Si teneva dunque conto anche dell’aspetto propriamente didattico, e nella disputa permanevano echi di un sistema assai più antico. Infine, pur con l’enfasi che le si dava in questa prima fase, la cittadinanza non costituiva un requisito necessario per l’accesso alla docenza: lo sarebbe diventata soltanto in epoca di più accentuato nazionalismo, anche se occorre tener conto del fatto che la Casati, promulgata alla fine del 1859, intendeva mantenere aperta la possibilità di insegnare nelle università del Regno sardo e delle province annesse ad italiani non ancora sudditi di Vittorio Emanuele. 3. Ci sono alcune questioni generali che vanno menzionate in via preliminare, e che forniscono in qualche modo le coordinate all’interno delle quali inquadrare la storia istituzionale del reclutamento universitario nel periodo successivo all’unificazione. A parte la constatazione del fatto che simili tematiche – riferite alla costituzione di un nuovo corpo accademico nazionale – sono tutt’altro che prive di rilievo anche per quel che concerne la storia della cultura, e quella delle élites, nell’Italia unita, sono infatti da considerare le modalità dei successivi interventi normativi riguardanti i concorsi e le nomine dei professori, ed il modificarsi, rispetto all’originario impianto casatiano, dei caratteri di alcune componenti del corpo docente12. Inoltre, è da sottolineare la centralità, in questa vicenda, dei mutamenti relativi alla scelta dei giudici ed alla composizione delle commissioni, fra autorità ministeriale, attribuzioni del Consiglio superiore della pubblica istruzione, rappresentanza e deleghe concesse alle facoltà presso le quali erano vacanti i posti messi a concorso, applicazione del criterio elettivo. Non mancarono poi provvedimenti diversamente orientati anche sul versante opposto, quello della individuazione e della selezione dei candidati, con il problema della istituzione o meno di una soglia di accesso all’insegnamento ufficiale; e si potrà subito osservare, a questo proposito, che mentre la pratica concorsuale rendeva poco rilevante un simile aspetto – e di fatto la normativa postunitaria prevedeva concorsi liberi -, l’affacciarsi di diverse ipotesi di selezione, variamente legate ad una prospettiva autonomistica, finiva con il rivalutarlo. Infine, è necessario notare che il principio stesso del concorso come via ordinaria di accesso all’insegnamento universitario non rimase affatto indiscusso. Non penso solo agli orientamenti autonomistici, in fondo piuttosto prudenti, o non compiutamente formulati su questo punto; anche nei decreti e regolamenti successivi alla legge Casati rimase a lungo visibile la tendenza ad indicare altre soluzioni, in primo luogo quella della nomina per chiara fama13, per la copertura degli insegnamenti nuovi o vacanti. Il regolamento generale universitario promulgato dal ministro Mamiani il 20 Ottobre 1860 non conteneva, si è detto, significative innovazioni sul terreno del reclutamento. Stava ai concorrenti la scelta della forma del concorso, per titoli, per esami o con ambedue le prove; l’eventuale esame avrebbe compreso la composizione di una dissertazione scritta, una pubblica lezione ed una disputa fra i competitori o, nel caso di un solo concorrente, con la commissione; la commissione rimaneva di nomina ministeriale, ed era tenuta a produrre una lista graduata di “eleggibili”, tenendo conto, oltre che dei meriti scientifici, anche dell’attitudine dei candidati all’insegnamento14. Nella normativa Casati-Mamiani – anche se le posizioni di politica universitaria del secondo non erano certo in tutto coincidenti con le prospettive generali della legge – un ruolo particolare era riservato al Consiglio superiore della pubblica istruzione15: come si è accennato, era un suo membro a presiedere le commissioni, ed al Consiglio andavano indirizzate le relazioni finali sui concorsi. Nel successivo regolamento universitario, predisposto dal ministro Matteucci e pubblicato nel Settembre 1862 (RD 14 Settembre 1862, n. 842), si accennava però ad una possibile funzione delle facoltà nelle procedure di selezione dei docenti: all’articolo 22, infatti, si stabiliva che “le Facoltà possono essere invitate dal Rettore a riferire sui titoli dei concorrenti alle cattedre vacanti e ai posti di Professori Straordinari”. Matteucci, come si vedrà, all’interno dei suoi disegni di riorganizzazione del sistema universitario aveva inserito norme per la nomina di parte almeno dei docenti universitari che si allontanavano nettamente da quelle del concorso casatiano. In sede regolamentare, emergeva la questione dei compiti e delle attribuzioni delle singole sedi dotate di posti vacanti all’interno dei processi di reclutamento, questione che si sarebbe continuamente ripresentata, sia sul piano normativo che su quello progettuale e dei dibattiti di opinione. Fra le funzioni del centro – ministro, e Consiglio superiore – esercitate all’ombra del principio costituzionale della responsabilità ministeriale, e la rivendicazione di uno spazio decisionale autonomo da parte della comunità scientifica, conquistato dopo quasi un trentennio grazie al prevalere del criterio elettivo per la composizione delle commissioni, va considerato il peso di quell’elemento locale spesso deprecato e comunque ben presente, in generale, nella storia universitaria italiana. In un quadro frammentato e policentrico, come rimase quello italiano, la geografia accademica non fu rilevante solo nelle discussioni sul numero eccessivo e sulla cattiva distribuzione territoriale degli atenei. Nel primo ventennio postunitario furono i ministri ed il Consiglio superiore, molto più che le facoltà, a controllare in sostanza le varie modalità di reclutamento. Fra il ministero ed il Consiglio si sviluppò una indicativa disputa, durante la quale il Consiglio, pur non contestando in linea di principio il diritto del ministro ad insediare le commissioni di concorso, ebbe a sottolineare l’importanza della propria funzione consultiva “nell’interesse della scienza”16. Il contenzioso era legato al contrasto esistente fra le norme della Casati riguardanti i concorsi, e quanto era stato stabilito dal ministro Coppino nel suo regolamento del 20 Ottobre 1867 sulle attribuzioni del Consiglio. Su varie contraddizioni formali, non sanate, fra leggi e regolamenti, si sarebbero del resto poi incentrati, talora in maniera apertamente strumentale, alcuni episodi importanti nella storia dei concorsi ancora a cavallo fra i due secoli. Nel regolamento dell’Ottobre 1867, comunque, era stato assicurato un ampio riconoscimento alle competenze del Consiglio sul terreno del reclutamento accademico. Al Consiglio dovevano giungere le informazioni circa le cattedre vacanti, ed in prima istanza, sentita la facoltà interessata, lo stesso Consiglio avrebbe valutato l’opportunità di una nomina per chiara fama, indicando il possibile candidato al ministro; in caso di decisione per il concorso, sarebbe toccato al Consiglio proporre la commissione17. In un nuovo regolamento varato nel Dicembre 1874 Ruggero Bonghi ribadiva le competenze del Consiglio per gli “affari riguardanti: a) Proposte per nomina di professori nell’insegnamento superiore, secondario e normale; b) Nomine di Commissioni Esaminatrici per concorsi alle cattedre d’ insegnamento superiore”18. E tornando sulla normativa concorsuale con un decreto del Maggio 1875 Bonghi confermava la funzione propositiva del Consiglio in materia di composizione delle commissioni di concorso e, in accordo con la Casati, il diritto alla presidenza per i membri del Consiglio stesso. Seguiva poi l’indicazione di una precisa gerarchia procedurale. La commissione così insediata avrebbe dovuto in primo luogo esprimersi sulla possibilità di una nomina diretta; altrimenti sarebbe stato bandito un concorso per titoli. Nel caso in cui anche questo fosse rimasto senza effetto, si sarebbe dovuti passare ad un concorso per esame, previa riapertura dei termini per la presentazione delle domande. Le prove d’esame erano ancora una volta minuziosamente prescritte. Ogni concorrente avrebbe dovuto presentare una memoria a stampa su un argomento liberamente scelto, avrebbe dovuto svolgere una lezione su un tema estratto a sorte, e sostenere un esame orale diversamente organizzato a seconda della facoltà di riferimento: per i concorsi legati a Giurisprudenza e Lettere avrebbe avuto luogo una disputa con gli altri concorrenti sui temi trattati nella memoria a stampa; altrimenti era prevista la soluzione di un problema matematico o, per le scienze descrittive e sperimentali, lo svolgimento di un esercizio pratico19. La sistemazione bonghiana non venne espressamente modificata per alcuni anni, anche se è da segnalare l’ambigua menzione della nomina ministeriale delle commissioni contenuta nel regolamento generale Coppino dell’Ottobre 187620. Una prima cesura significativa si ebbe invece all’inizio degli anni Ottanta, con la legge di riforma del Consiglio superiore e l’avvento al ministero della pubblica istruzione di Guido Baccelli, personaggio assai discusso nel quadro dei dibattiti scolastici e universitari del tempo, e massimo fautore, a livello legislativo, di una riforma in senso autonomistico del sistema universitario nazionale. Attorno alla situazione determinatasi in questo primo periodo postunitario vanno proposte alcune ulteriori osservazioni. In primo luogo occorrerà notare come si fosse rapidamente posto il problema della particolare posizione dei professori straordinari. Già nel 1868 il ministro Broglio aveva emanato norme riguardanti l’eventuale applicazione dell’articolo 69 della Casati ai professori straordinari che “invocano” di essere nominati ordinari, rimettendo in sostanza la decisione al Consiglio superiore21. Nel 1875 Bonghi doveva distinguere fra gli straordinari nominati fuori concorso – seguendo quindi alla lettera il dettato casatiano -, e quelli entrati nell’insegnamento per essere stati dichiarati eleggibili in un concorso: i secondi, dopo un triennio di servizio, avrebbero potuto essere promossi, se ragioni di ordine amministrativo non si opponevano alla nomina di un ordinario, in base al giudizio di una commissione insediata seguendo le norme vigenti per i concorsi; per i primi, invece, la commissione avrebbe dovuto esprimersi, caso per caso, sull’applicabilità del criterio della chiara fama, disponendo in caso negativo l’apertura di un concorso ad ordinario per titoli22. Dall’insieme di questi provvedimenti emerge, poi, l’importanza attribuita alla nomina diretta, senza concorso, anche se l’esercizio di un simile potere non si intendeva più come esclusiva prerogativa del ministro, ma vedeva variamente coinvolti il Consiglio superiore, le commissioni ed anche, in minor misura, le facoltà interessate – ulteriore testimonianza del difficile eppur ricercato equilibrio fra la responsabilità ministeriale, il giudizio dei competenti e gli interessi dei singoli atenei. Significative, in questo senso, sono le affermazioni di Bonghi nel corso di una discussione all’interno del Consiglio superiore, nel Marzo 1875: il concorso veniva qualificato come “espediente”, ma per procedere alla nomina diretta occorreva anche controllare e condizionare gli orientamenti delle facoltà, che non avevano “dato prova di vedute corrispondenti all’altezza del mandato” avanzando proposte che erano “espressione di sentimenti speciali e regionali” 23. Quanto alla chiara fama, non sarà inopportuno rammentare i vari possibili usi di un simile strumento. Al di là del suo impiego politico – ma con notevoli risultati anche sul piano scientifico – nella fase costitutiva del sistema universitario, con la necessità di rinnovare e completare gli organici, inserendovi anche qualche noto studioso straniero24, si vide nella nomina diretta una possibile via di reclutamento normale, e la si applicò per sanare le complesse situazioni legate alla trasformazione della figura del professore straordinario. Inoltre all’articolo 69 della Casati si poteva far ricorso per superare i limiti nel numero delle cattedre che la legge stessa prevedeva, all’articolo 70, per gli atenei nei quali essa era vigente25, ed anche i limiti retributivi, per trattenere negli atenei “quelli che sarebbe meno facile di surrogare” – così la legge Casati, all’articolo 73 -. Alla norma si sarebbe guardato, anche in seguito, come via per risolvere casi particolari. Ancora nel 1904, in Senato, Cannizzaro e Colombo avrebbero insistito sull’opportunità di mantenere la nomina per chiara fama anche per gli straordinari, sottolineando la necessità di poter assicurare a certe istituzioni il contributo di competenze maturate in ambito non strettamente scientifico-accademico, evitando passaggi poco graditi e non privi di aleatorietà: Le scuole di ingegneria hanno bisogno, per certe materie, di specialisti che siano professionisti. Ora i professionisti in genere, se si apre il concorso, non si presentano, e si presentano invece delle persone che hanno fatto studi generici, e non quelli speciali di cui si sente il bisogno. In questo caso sarebbe bene di designare l’insegnante in quella persona, che notoriamente ha una pratica superiore specialissima nella materia26. Su questo, come su altri aspetti della questione dei concorsi – penso, solo per fare un esempio, all’effettivo svolgimento di concorsi per esame, che le testimonianze coeve ci indicano come forma di selezione presto caduta in desuetudine -, bisognerebbe svolgere indagini specifiche, per andare al di là della formulazione letterale della regola nelle sue varie possibili applicazioni: uno studio prosopografico che fornisse riscontri precisi sulla composizione e sulle modalità di accesso al corpo accademico potrebbe dar sostanza di nomi e cifre alle precedenti osservazioni, ed attribuire un peso specifico ai variabili impieghi della chiara fama. Il passaggio del compito di comporre le commissioni di concorso dal ministro al Consiglio superiore lasciava comunque aperto il problema delle attribuzioni e della rappresentanza, nella commissione, della facoltà presso la quale era vacante il posto da coprire. Da questo punto di vista Bonghi aveva agito in modo restrittivo, rispetto al regolamento del Consiglio del 1867; ma si trattava evidentemente di un argomento delicato, tanto da render necessario un pronunciamento del Consiglio superiore, il 20 Aprile 1875. L’articolo 61 della Casati stabiliva che i concorsi “saranno intimati nelle sedi delle Università in cui avranno avuto luogo le vacanze alle quali si vorrà provvedere. Non pertanto il Ministro potrà far intimare il concorso anche in altra città”; ed il Consiglio commentava: Per quanto è detto dal capoverso di detto articolo si fece il quesito se fosse necessario e conveniente eleggere fra membri della commissione esaminatrice qualche Professore appartenente alla Facoltà, dove esiste la cattedra da provvedere. – Si è riconosciuto che certamente sarebbe un atto di conveniente rispetto e di giusta deferenza alla facoltà l’invitare a far parte di quelle Commissioni uno almeno dei loro membri per lo che non si disconviene in generale dell’opportunità di nominare qualcuno di essi a componente tali giunte d’esame. Ma l’empirica decisione del caso per caso non si sarebbe rivelata, a questo proposito, risolutiva. La presenza nelle commissioni di giudici non universitari fu prevista nella normativa postunitaria, con la menzione delle “persone conosciute per la loro perizia” – articolo 62 della legge Casati – nelle materie sulle quali era richiesta la valutazione. Le formulazioni dei testi sono ovviamente diverse, e le accentuazioni non prive di significato: nel 1882, ad esempio, il ministro Baccelli avrebbe insistito sul fatto che, nelle commissioni, “ogni qualvolta sia possibile la maggioranza dovrà essere di professori ordinari, docenti in una Università del regno la disciplina stessa alla quale si apre l’arringo”, anche se la partecipazione non era preclusa agli “uomini pervenuti in alta e meritata fama nella scienza alla quale apparterrà la cattedra da conferirsi”28. La ragione principale di questa apertura, più volte allora richiamata, stava nello scarso numero dei docenti, che rendeva necessario il ricorso a forze esterne; ma sarebbe interessante – certo più istruttivo che allineare testi di leggi e regolamenti a questo proposito ed esaminarli dal solo punto di vista formale – verificare nella effettiva composizione delle commissioni, specie durante il primo periodo postunitario, i rapporti fra il corpo accademico e la politica, l’alta amministrazione, altri settori e corpi dell’apparato pubblico, un mondo delle professioni agli inizi della sua strutturazione, rapporti che illustrerebbero in concreto alcuni aspetti della posizione e del ruolo del sistema universitario nella fase costitutiva dello Stato nazionale. 4. Le discussioni ed i diversi tentativi di riforma che infine si concretizzarono, nel Febbraio 1881, in una nuova legge sul Consiglio superiore sono già stati esposti con efficacia da Gabriella Ciampi, che ha anche notato l’importanza, in questo contesto, dei contrasti e delle varie proposte riguardanti le attribuzioni del Consiglio in materia di concorsi29. La legge del 1881, che rendeva il Consiglio stesso per metà elettivo, lo escludeva comunque dalla gestione diretta del reclutamento universitario. Veniva infatti abrogato il passo dell’articolo 62 della Casati relativo alla presidenza della commissione di concorso affidata a un membro del Consiglio, mentre al Consiglio stesso rimaneva il diritto di ricevere le relazioni ed i verbali dei concorsi, e di proporre su di questi le proprie osservazioni. Con apposito provvedimento, poi, nell’Aprile 1881, venivano abrogati i regolamenti Bonghi sui concorsi30. Non è possibile in questa sede soffermarsi sulla funzione che al Consiglio era stata mantenuta in ordine al reclutamento, e che riguardava il controllo sugli atti delle commissioni. Non mancarono a questo proposito le polemiche, suscitate dalle varie interpretazioni e pratiche che potevano legarsi ad un simile compito. Ancora nel 1896 Augusto Graziani, accostando i poteri e le procedure del Consiglio a quelli della Cassazione osservava che di fatto era impossibile escludere la valutazione di merito, costitutivamente connessa al giudizio puramente formale: il Consiglio Superiore ravvisando p. e. la palese ingiustizia delle proposte di una commissione di concorso, perché questa si è ispirata ad esclusivismi di scuola, stabilisce l’annullamento, anche se vizii formali realmente non si presentano. E del resto in questo caso se dal contesto del giudicato della commissione si evince che la simpatia per le teoriche sostenute da taluni concorrenti ha determinato la deliberazione, l’annullamento si impone anche per il motivo di rito, che la commissione partì da criterii estrinseci al valore oggettivo dei lavori presentati dagli aspiranti31. L’annullamento, nel 1881, della normativa elaborata nel primo periodo post-casatiano, implicava direttamente, stando alla lettera della legge fondamentale ancora vigente, una forte ripresa dell’iniziativa ministeriale. Il ministro era Baccelli; e pochi anni dopo Francesco D’Ovidio, in un suo rilevante articolo su La scelta dei professori, avrebbe ricordato le prime commissioni nominate in quella nuova fase: “le compose per un po’ di tempo (3 aprile 1881 – 26 gennaio 1882) il Ministro; e non istaremo a dire il come”32. Ma si trattava di un breve periodo di transizione. In diretta connessione con il disegno di legge di riforma universitaria ispirato alla cosiddetta “triplice autonomia”, e per preparare in qualche misura il terreno in un settore delicatissimo come quello delle modalità di selezione del corpo docente, Baccelli introdusse con due decreti – del 26 Gennaio 1882 e del 27 Maggio 1883 – un mutamento significativo, almeno dal punto di vista dei principi. Le commissioni di concorso, infatti, avrebbero dovuto essere nominate dal ministro su proposta della facoltà nella quale la cattedra era vacante; il numero dei commissari poteva andare da cinque a nove, ed un solo membro, tuttavia, avrebbe potuto essere scelto all’interno della facoltà stessa. Anche Baccelli, come già Bonghi, ipotizzava un concorso per esami qualora quello per titoli fosse rimasto senza esito; e, si è accennato, cercava di assicurare ai professori ordinari della materia messa a concorso una posizione maggioritaria all’interno delle commissioni33. Proprio questa scelta, del resto, dovette contribuire a limitare fortemente, nella pratica, i poteri concessi alla facoltà interessata: visto il numero degli insegnanti ufficiali di molte discipline, infatti, l’indicazione era in sostanza obbligata, e poteva coincidere, si osservò, con la trascrizione di qualche rigo dell’annuario ministeriale34. Ad ampliare il quadro delle possibili opzioni – nonostante l’evidente freddezza del nuovo ministro nei confronti del “principio dell’autonomia” – sarebbe poi giunto, nell’Agosto 1884, un decreto Coppino, che consentiva alla facoltà di tenere in maggior considerazione i docenti di materie affini a quella per la quale si chiedeva il concorso35. Per alcuni anni, dunque, toccò alla sede interessata provvedere alla designazione di una rosa di commissari, con una netta limitazione, nel decreto del 1884, dei poteri ministeriali rispetto alla scelta definitiva. L’innovazione non incontrò largo favore – almeno a stare a varie pubbliche prese di posizione di quegli anni -, ed i critici tesero a sottolineare gli abusi allora commessi da singole facoltà36. Ma quel che interessa mettere in evidenza è il nesso fra questa nuova centralità assegnata alla facoltà – che poteva avere qualche precedente, del resto non particolarmente felice, nelle attribuzioni in materia di reclutamento delle quattro Università libere37 – e le prospettive autonomistiche allora tradotte in un disegno di legge. Nel testo originario del progetto Baccelli, all’articolo 14, il problema del reclutamento era risolto con grande nettezza: “I professori ordinari sono nominati con decreto reale, sulla proposta della rispettiva Facoltà o Istituto, e colle stesse norme i professori straordinari sono nominati e promossi a professori ordinari”. Come soli correttivi si introducevano all’articolo 16 la maggioranza qualificata dei quattro quinti nella votazione di facoltà per la proposta al ministro, e all’articolo 54 una disposizione transitoria secondo la quale per cinque anni dopo l’approvazione della legge sarebbe stato ancora vigente il sistema concorsuale. Ma in seguito al contrastato e faticoso lavoro della commissione parlamentare e poi della Camera – e la documentazione parlamentare a questo proposito è di notevole interesse – la lineare impostazione baccelliana subiva vistose modificazioni. La commissione manteneva il criterio della maggioranza qualificata nel voto di facoltà, introducendo però, in caso di stallo, un voto a maggioranza assoluta da parte del collegio dei professori, organo previsto dallo stesso disegno di legge38; l’articolo poi approvato dalla Camera lasciava alla facoltà il diritto di proporre nomine dirette per trasferimento o per chiara fama, ma vi si reintroduceva esplicitamente anche la nomina per concorso, sulla base del decreto del Gennaio 1882. Inoltre si stabiliva che, a conclusione del concorso, “i docenti privati avranno sempre la preferenza nel caso di parità di voti”. Com’è noto, dopo la sofferta approvazione da parte della Camera, il progetto Baccelli fu arrestato al Senato, grazie soprattutto all’opera di Luigi Cremona, relatore della commissione senatoriale39. La partita, del resto, non si chiuse subito: nel corso degli anni Novanta Baccelli, tornato al ministero, ripropose il suo disegno di legge, e si levarono di nuovo polemiche e proteste, in specie a proposito del reclutamento. Fra i molti documenti di quegli anni, mi sembra esemplare la reazione dei docenti dell’università di Palermo, affidata alla penna di Vittorio Emanuele Orlando: Maggiori e più sostanziali ripugnanze incontrò l’articolo 3 del progetto che concerne la maniera di nomina dei professori ufficiali che si farebbe dipendere dalla indicazione della facoltà interessata. Certo, in questa materia, non esiste sistema scevro d’inconvenienti, per la difficoltà intrinseca che incontra la determinazione comparativa ed obbiettiva del valore intellettuale. Ma se il prudente precetto di buona politica consiglia di attenersi al sistema in cui minori sono gli inconvenienti, l’adunanza espresse unanime e salda la convinzione che l’attuale sistema dei concorsi sia di gran lunga preferibile. Si può anzi dire che esso sia uno dei pochi istituti dell’attuale ordinamento che si son formati non per via di speculazioni arbitrarie, ma di un’evoluzione graduale, lenta, ma ininterrotta. È ancor fresco il ricordo delle proteste che si levavano contro gli ultimi residui dell’ingerenza delle facoltà e del ministro; sicché parve prudente cosa, da tutti lodata, sottrarre all’una ed all’altro la nomina delle commissioni ed abolire, in queste, il rappresentante speciale della facoltà cui il concorso si riferiva. La riforma proposta adunque va in senso opposto ai dettami dell’esperienza; costituisce un regresso e un pernicioso regresso. E di vero, il sistema della proposta della facoltà difetta delle due principalissime condizioni di un giusto giudizio. E, primieramente, della imparzialità: troppe e troppo note sono le pressioni degli elementi locali, di cui indefinite sono le manifestazioni, e che si esercitano a proposito del modo onde provvedere ad una cattedra. (…). Secondariamente poi, il giudizio della facoltà pecca quanto alla competenza specifica. (…). Influirà sul giudizio un’impressione unilaterale o non ben ponderata e sopratutto quella fama, che si forma per sentita dire o per mutua ed interessata adulazione, a base di consorterie scientifiche, la quale fama non sempre è proporzionata al vero merito cui spesso sono compagne la modestia e la ritrosia. (…) è chiaramente detto, nella relazione ministeriale, ragione dell’indugio essere il timore che manchi attualmente nelle facoltà la piena coscienza dell’alta missione. Ebbene, chi dirà che tale coscienza l’avranno fra cinque anni? 40. L'”attuale sistema dei concorsi” difeso da Orlando nel 1895 derivava direttamente dalla radicale revisione operata dalla commissione del Senato del testo approvato dalla Camera, con l’affermazione di un indirizzo diverso rispetto all’idea autonomistica della politica delle chiamate. Cremona, in effetti, aveva mirato a creare una vera e propria carriera interna all’insegnamento ufficiale, “sotto la salvaguardia di norme più sicure e più severe di quelle del vigente Regolamento pe’ concorsi” 41. Il primo grado avrebbe dovuto essere quello del professore straordinario, nominato solo in seguito ad un concorso per titoli, e per un triennio. Trascorso il triennio, su proposta motivata della facoltà approvata dal Consiglio superiore, lo straordinario poteva essere stabilizzato, con la qualifica di professore aggiunto. L’accesso all’ordinariato sarebbe stato invece possibile o grazie all’applicazione dell’articolo 69 della Casati, sentito il Consiglio superiore, oppure con un concorso riservato al quale sarebbero stati ammessi i soli aggiunti, e i professori ordinari delle università secondarie42. Questo articolato disegno non riuscì a trovare attuazione. Passò invece nella normativa il sistema di composizione delle commissioni che Cremona aveva proposto sia per i concorsi da straordinario che per quelli da ordinario: i cinque giudici avrebbero dovuto essere nominati dal ministro su indicazione di tutte le “Facoltà omonime” a quella per la quale era stato bandito il concorso. Ogni facoltà avrebbe avuto il diritto di proporre cinque nomi, e fra i dieci nomi più votati il ministro avrebbe scelto i cinque commissari. Nel Maggio 1887, con alcune varianti non sostanziali, il ministro Coppino traduceva queste indicazioni in un decreto43; con il regolamento generale universitario Boselli del 1890 si introduceva invece una modifica di qualche rilievo, dato che si passava dalla designazione per facoltà al voto individuale dei docenti delle facoltà interessate, con la possibilità per ogni professore di votare cinque nomi. Il regolamento, inoltre, escludeva esplicitamente che i membri del Consiglio superiore potessero far parte delle commissioni44. Il principio elettivo, che nella vita universitaria si andava affermando proprio in quegli anni, dalla composizione del Consiglio superiore alla nomina di rettori e presidi, si applicava alla materia concorsuale come risposta alle prospettive autonomistiche, spostando dalla singola facoltà alla comunità scientifica nazionale – almeno in linea di principio – il compito di orientare e controllare il reclutamento accademico. La sistemazione raggiunta nel 1890 lasciava aperte varie questioni particolari, a proposito delle quali – come per altre già accennate – sarebbe necessario compiere qualche verifica mirata: prima fra tutte quella del rispetto, da parte dei ministri, delle indicazioni del corpo elettorale, dato che al ministro stesso restava il diritto di scegliere in una lista di designati. Si può al proposito ricordare che un lucido e deciso critico di questo sistema concorsuale come Giorgio Pasquali alla vigilia della riforma Gentile avrebbe notato che, nonostante discutibili eccezioni, da parte ministeriale “era invalsa la consuetudine” di nominare in commissione i candidati più votati45. Altri sottolineavano l’eccessiva marginalizzazione della facoltà direttamente interessata al concorso – “Prima la Facoltà era niente, notava Francesco D’ Ovidio, poi divenne tutto, ora è tornata niente o quasi niente: sempre condizioni estreme, che ogni tanto provocano per reazione le condizioni opposte” 46 -, o l’immodificabilità di alcune maggioranze all’interno del corpo accademico, in grado di determinare stabilmente l’accesso a svariate cattedre. Baccelli, tornato al ministero, ripropose la sua riforma, modificandola in alcuni punti. Fra l’altro si intendeva attribuire al ministro un potere di veto, sentito il Consiglio superiore, sulla proposta della facoltà47; e lo stesso Baccelli, per forzare in qualche modo la situazione sfruttando il permanente disordine normativo, si oppose all’apertura di concorsi per straordinario – non contemplati nella Casati – emanando anche un decreto a questo proposito, nel Dicembre 189848. Ma il tentativo di imporre la propria soluzione legislativa conobbe una secca sconfitta politica49; ed a proposito del reclutamento la commissione della Camera, relatore Guido Fusinato, ribadiva il radicato rifiuto dell’idea, pure teoricamente seducente, del primato delle facoltà: È qui che si manifesterebbe il vero pericolo della autonomia; che le Università, cioè, si costituiscano in corporazioni chiuse, dominate da uno spirito esclusivo, e dalle influenze vicine. Non bisogna chiedere agli uomini più di ciò che possono dare; e i professori sono uomini anch’essi, e spesso uomini alieni dalle lotte e dalle resistenze continuate50. Sembrava invece consolidarsi in quegli anni di fine secolo, come soluzione alternativa, quella già abbozzata da Cremona in opposizione al primo progetto Baccelli: una gerarchia di ruoli che vedeva il professore straordinario nominato per concorso, e l’ordinario per promozione o chiara fama; così, in sostanza, si esprimeva la commissione della Camera a proposito del reiterato disegno Baccelli, e in direzione non diversa andava un progetto di legge del ministro Gianturco nel 189751. Un tentativo di profonda modificazione del sistema che era vigente, di fatto, dalla fine degli anni Ottanta fu compiuto con il regolamento generale universitario del 1902, e con integrazioni dell’anno successivo, dal ministro Nunzio Nasi. Appellandosi alla Casati, Nasi rigettava il principio elettivo e tornava alla nomina ministeriale delle commissioni di concorso; ma, prima della convocazione della commissione, il ministro avrebbe chiesto a tutti i titolari della materia messa a concorso la designazione scritta e motivata del concorrente a loro giudizio più meritevole di occupare la cattedra. Un referendum, dunque, estensibile, ad arbitrio ministeriale, ad altri studiosi italiani e stranieri. I pareri risultanti dal referendum sarebbero stati trasmessi dal ministro alla commissione ed allegati agli atti, senza ulteriori specificazioni. Veniva inoltre prevista la possibilità della ricusazione di un commissario da parte di un concorrente. Ad una cattedra vacante di ordinario si sarebbe potuto accedere anche per concorso, oltre che per trasferimento, chiara fama e promozione di uno straordinario con parere favorevole del Consiglio superiore; i concorsi per posti di professore straordinario erano però riservati ai liberi docenti, ai dottori aggregati, agli incaricati ed ai candidati dichiarati eleggibili in altra prova; precedente, questo, in qualche misura, della ben più drastica chiusura gentiliana della partecipazione ai concorsi per professore di ruolo52. 5. Le innovazioni introdotte da Nasi furono immediatamente rimosse. Sospesa l’applicazione del regolamento, il ministro Orlando riusciva a far approvare la legge 12 Luglio 1904 sui concorsi; e dal contesto sommariamente ricostruito credo che appaia evidente l’urgenza, in quel momento, di una sistemazione legislativa della materia. Sui contorni generali della questione lo stesso Orlando nutriva perplessità, non celate durante il dibattito alla Camera: Il metodo del concorso per le nomine produce certo inconvenienti; ma in questa materia più che mai io credo che occorra scegliere il minor male. Il torto è del sistema della scienza ufficiale (vedo il mio amico onorevole De Viti De Marco che sorride, io sono un profondo liberista, ma occorrerebbe un grande coraggio per adottare una riforma in questo senso) il torto è del sistema della scienza ufficiale, in cui è lo Stato che con decreto reale dichiara che Tizio è un uomo di alto valore53. La legge, comunque, ripristinava il concorso “aperto a tutti”, per titoli, con una eventuale prova dell’attitudine didattica a discrezione della commissione; la commissione sarebbe stata nominata dal ministro “a proposta collettiva di tutte le Facoltà a cui appartiene la cattedra”, con norme da definirsi in sede regolamentare, e con la rappresentanza di cultori di materie affini a quella messa a concorso; una significativa modifica riguardava il limite posto alla valutazione dei commissari, ai quali non si chiedeva più la redazione di una lista graduata di eleggibili, ma l’indicazione di una terna, anch’essa graduata per merito. Il secondo e il terzo dei designati avrebbero potuto essere chiamati, entro un anno dalla deliberazione finale del Consiglio superiore sugli atti del concorso, a coprire altri posti eventualmente vacanti per la stessa materia, ma solo con il grado di straordinario. Dopo tre anni di servizio lo straordinario acquistava la stabilità, ed era promuovibile a ordinario su proposta della facoltà, con necessaria approvazione ministeriale, e con un nuovo giudizio sui meriti scientifici del candidato pronunciato da una commissione54. Per il passaggio dal nuovo straordinariato all’ordinariato esistevano poi problemi di ruoli e di organici, che sarebbero stati affrontati in una legge del 1909, che è di un certo rilievo nella storia della condizione docente nell’Italia unita55. Ma nel 1904 si intravedeva già una tendenza al riordinamento ed alla semplificazione della composizione del corpo docente, rispetto alla complessa realtà del periodo postunitario ed alle ipotesi di una articolazione in più livelli pure allora avanzate; tendenza che condusse poi alla netta riduzione del quadro ai soli docenti di ruolo ed incaricati operata da Gentile. Un decreto del Luglio 1905 predisposto dal successore di Orlando, Bianchi, chiariva che il voto dei professori – ordinari e straordinari stabilizzati – per le commissioni andava espresso con quattro preferenze per i commissari della materia messa a concorso ed una, su scheda separata, per i commissari di materie affini; il ministro avrebbe scelto quattro nomi fra gli otto più votati del primo gruppo, ed un nome fra i primi tre del secondo56. Queste norme sarebbero state in seguito riprese con alcune varianti nel testo unico delle leggi sull’istruzione superiore e nel nuovo regolamento generale universitario, pubblicati nel 191057. Con le terne si era introdotto un necessario correttivo, poi radicatosi nella storia accademica italiana, agli abusi spesso denunciati a proposito delle liste di eleggibili; qualifica, questa, utilizzata ad esempio per il conseguimento di incarichi. Ma era anche rilevante la soluzione data al problema della presenza in commissione di docenti o cultori delle materie affini, che da tempo si presentava nella normativa concorsuale. Si trattava, certo, per varie discipline, di allargare il campo dei potenziali giudici; in questa fase, insieme ad una certa discrezionalità lasciata al ministro nella nomina definitiva delle commissioni, l’elezione di questi studiosi in commissione era presentata come possibile freno al prevalere di gruppi, o scuole ben costituite. Personalmente, poi, ho l’impressione che per questa via si intendesse anche reintrodurre la possibilità, sul piano pratico, di una rappresentanza diretta nella commissione della facoltà interessata al concorso, che non potendo far eleggere, data la vacanza, docenti della materia, avrebbe avuto l’opportunità di puntare, per l’appunto, su un interno cultore di materia affine. Un esempio piuttosto noto può contribuire a chiarire questo aspetto. In occasione del concorso che nel 1905 oppose Gaetano Salvemini a Gioacchino Volpe per un posto di straordinario presso l’Accademia scientifico-letteraria di Milano, in una commissione di storia moderna fu eletto Francesco Novati, noto filologo e preside dell’Accademia milanese, che operò con l’intento preciso – e documentato – di evitare l’approdo a Milano di “leoni socialisti”58. Nel 1865, nella sua relazione dedicata all’istruzione superiore all’interno dell’inchiesta Sulle condizioni della pubblica istruzione nel Regno d’Italia, Carlo Matteucci notava che la vita universitaria non sarebbe stata feconda se un sistema adattato ad attirare i migliori ingegni al professorato, a metterli in evidenza, a premiarli convenientemente, non è seguito con quella ferma ed invariabile deliberazione e con quella coscienza del sapere vero che fanno di quegli studj la suprema preoccupazione dei Governi e dei paesi veramente civili59. Ma prima di poter seguire un “sistema” bisognava individuarlo; e per oltre mezzo secolo si lavorò faticosamente in questa direzione, sperimentando una notevole varietà di procedure, ed avanzando inoltre altre proposte non tradotte in pratica, con una mobilità ben distante dalla coerenza postulata da Matteucci. Di queste proposte non si può qui dar conto neanche sommariamente. Lo stesso Matteucci, che nel 1865 aveva formulato un giudizio pieno di riserve, ma non del tutto negativo nei confronti dei concorsi svoltisi fino ad allora60, mostrava di preferire la nomina diretta “di uomini di alta e incontestata fama”, e nei suoi progetti di riforma universitaria aveva affidato la nomina dei docenti degli atenei principali al ministro sulla base di terne formate dalle principali società scientifiche ed Accademie delle scienze del regno61. Il problema del reclutamento riemerse in continuazione nelle discussioni dell’epoca. Così fu per l’inserimento dell’università di Padova – organizzata secondo il modello tedesco – nel sistema nazionale62, come, in generale, per ognuno dei dibattiti sui grandi progetti di riforma. Nel confronto con il quadro accademico internazionale accadeva di scoprire la peculiarità della normativa italiana rispetto a quella delle grandi Kulturnationen, e di segnalarne, in Senato, l’arcaicità, con l’esplicito richiamo alla pratica seicentesca dei concorsi63. Si constatava la freddezza di vari dotti stranieri nei confronti dei metodi nostrani di selezione, come avvenne in una delle discussioni più interessanti a questo proposito, ospitata nel 1887 nei rendiconti dell’Accademia di Scienze morali e politiche di Napoli64. Il rilievo quantitativo, nella letteratura universitaria, di una simile questione non si spiega solo con il suo peso tecnico, né con la morbosa autoreferenzialità del discorso dei professori sull’università. Occorre ancora una volta tener conto del forte segno pubblico, dei compiti di promozione, direzione e tutela assegnati al sistema universitario nella costruzione del nuovo Stato, e del particolare profilo di pubblico funzionario proprio del docente italiano, per cogliere in tutte le sue implicazioni l’enfasi posta sulle regole e sulle garanzie legate al reclutamento. Il confronto politico e di opinione non si svolse del resto solo intorno a linee alternative di selezione, o di nomina dei giudici. Rapidamente emersero deprecazioni e lamentele sul clima intellettuale e morale che caratterizzava un così importante aspetto della vita accademica; e senza voler attribuire ad un simile genere letterario un risalto maggiore di quel che meritava – e merita -, si tratta di testimonianze da registrare. Inoltre ci si pronunciò praticamente su tutti i possibili dettagli tecnici interni ai vari sistemi di reclutamento. Si potrebbe compilare un campionario di osservazioni, obiezioni, denunce, utile se non altro a mostrare l’impossibilità – allora ed oggi – di dar composizione alla questione dei concorsi, della selezione dei docenti, confidando in scelte puramente normative. Ogni procedura era in effetti contestabile. Il concorso per titoli non offriva alcuna garanzia relativa alle capacità didattiche, all’attitudine fisica all’insegnamento, e in fondo neanche alla reale identità dell’autore dei titoli presentati65, e quello per esame era troppo aleatorio. Ai pericoli di localismo legati al primato delle facoltà si opponevano quelli di tirannia di scuola derivanti dal sistema elettivo su base nazionale, che, come scriveva in pagine notevoli Giorgio Pasquali, non dava affidamento nemmeno sul terreno di un reale controllo scientifico da parte di un corpo elettorale diviso per facoltà, e quindi incompetente a giudicare nel merito delle singole designazioni66. Certo, ripercorrendo questi dibattiti occorre tener conto del grado ancora piuttosto basso di articolazione disciplinare all’interno della comunità scientifica nazionale, come della scala, molto diversa rispetto ad oggi, di un’università con mille professori o poco più. Le analisi del tempo sulle competenze in rapporto al principio elettivo, o vari dettagli tecnici e procedurali allora discussi, vanno ricondotti a questa dimensione. Né può essere elusa una questione posta con grande chiarezza da Francesco D’ Ovidio, che pure dei concorsi non era certo un apologeta: i concorsi furono, né hanno in tutto cessato di essere, un metodo consentaneo alle peculiari condizioni della nostra Italia, uscita appena dalla secolare suddivisione in piccoli Stati, gelosamente chiusi da ultimo l’uno all’altro, ed entrata in una violenta crisi intellettuale. C’erano vecchie e vacue celebrità locali da sfatare, celebrità inedite di uomini saliti in fama per le grandi opere che, si diceva, avrebbero saputo scrivere, se avessero avuto voglia di scrivere; e c’erano uomini di vero valore, rimasti oppressi per l’invidia o per l’ignoranza dei corregionarii, da mettere in vista; c’era da mettere in campo giovani promettenti, iniziati ai metodi nuovi, e tenere indietro uomini antiquati ed esausti; c’era da rimescolare il personale insegnante di tutta Italia e cementare anche sotto questo rispetto l’unità della patria; c’era da rifrugare ogni angolo di questa e suscitarne ogni latente energia. A tutto ciò i concorsi servirono spesso mirabilmente67. Non intendo soffermarmi ulteriormente sulla varia letteratura concorsuale di questi decenni. Una sintesi dei suoi motivi più seri è offerta dalle pagine nelle quali il relatore della Commissione reale per il riordinamento degli studi superiori, Luigi Ceci, riesaminava la materia nel 1914, dal suo punto di vista di autonomista, almeno in linea di principio favorevole al reclutamento diretto da parte delle facoltà, anche se su questo terreno l’orientamento della Commissione reale fu diverso. Nei concorsi, scriveva Ceci, veniva considerato con troppa superficialità l’aspetto didattico, che il sistema tedesco della chiamata, di solito di liberi docenti, valorizzava maggiormente; la votazione per le commissioni era preceduta da campagne elettorali a volte scandalose organizzate dagli stessi candidati; il primato assoluto attribuito ai titoli scientifici alimentava una dannosa pseudoproduttività, il cui frutto tipico era la pubblicazione dell’ultim’ora, sulla quale la comunità scientifica non aveva avuto modo di pronunciarsi. I rimedi indicati erano tuttavia piuttosto generici: un maggior peso da attribuire alle prove orali, mai abolite, e l’eventuale reintroduzione di un contraddittorio; nomine per chiara fama, sentito il parere della facoltà interessata e del Consiglio superiore, per bilanciare scelte di maggioranze spesso cristallizzate68. Ed a questo proposito una testimonianza di profondo disagio proveniva dallo stesso Ceci, quando rivelava che solo per un voto la Commissione reale aveva respinto la proposta, fatta proprio per ovviare al problema delle maggioranze precostituite, di un sorteggio integrale della commissione fra tutti i professori della materia; e, avrebbe commentato pochi anni dopo Pasquali, “Se propositi così disperati ispira nei competenti la sfiducia nel sistema presente, esso dev’essere peggiore di quanto non si arrischino a confessare” 69. Il primo periodo postbellico conobbe alcune innovazioni, tutte di breve durata; e la più interessante per novità di procedimento, quella introdotta da Croce nel Febbraio 1921, riguardava proprio la parziale adozione del sorteggio nella composizione delle commissioni, con tre membri scelti direttamente sulla base del risultato elettorale, e due sorteggiati fra gli altri candidati più votati70. Dopo una legge Anile del Luglio 192271, intervenne una prima volta Gentile nel Novembre: i due membri della commissione che nel decreto Croce dovevano risultare dal sorteggio sarebbero ora stati scelti direttamente dal ministro72. 6. Il 26 Ottobre 1923 Luigi Einaudi, in un suo articolo per il “Corriere della Sera”, affrontava l’esame della riforma universitaria “decretata” da Gentile. Contrario, fra l’altro, all’obbligo del giuramento per i docenti, Einaudi si soffermava però soprattutto su quelli che gli apparivano i “punti capitalissimi” non solo della riorganizzazione gentiliana, ma di “ogni ordinamento” universitario, il sistema degli esami, e le modalità di selezione dei docenti. Sulla prima questione, Einaudi in sostanza criticava il nesso che si era mantenuto fra formazione scientifica universitaria ed accertamento delle capacità professionali. Ma si trattava di materia non ancora del tutto codificata, ed il giudizio poteva essere in qualche misura sospeso; mentre, proseguiva Einaudi, non pare dubbio il danno che deriverà dalle norme relative al reclutamento dei professori. Qui, purtroppo, debbo confessare che una buona parte del danno che capiterà addosso all’università sarà dovuto a colpa dei professori universitari. I quali da trent’anni sono stati affaccendati a criticare ed a sparlare di tutti i sistemi di reclutamento fino ad oggi seguiti, ad accusarli di parzialità, di favoritismi, di camorra accademica, di satrapie, da costringere, finalmente, per disperazione, il ministro Gentile ad esclamare: farò tutto io73. E dopo avere illustrato, in sintesi, i poteri riacquistati dal ministro, di grande controllo e di condizionamento dei meccanismi accademici, Einaudi segnalava le implicazioni distruttive di questa svolta rispetto ad un equilibrio raggiunto a fatica, e che sarebbe stato rimpianto, rammentando “l’evoluzione” lenta e difficile grazie alla quale il reclutamento del corpo accademico italiano aveva assunto una fisionomia nettamente oligarchica od aristocratica: nessuno poteva, salvo i maestri saliti in grande fama, entrare a far parte del corpo accademico senza concorso, ossia senza una scelta fatta da giudici nominati dal corpo dei professori in carica (…). In realtà, il sistema italiano di cooptazione, se aveva dato origine a piccole chiacchiere di nessuna importanza sostanziale, aveva dato risultati nel complesso ottimi ed era l’unica garanzia sostanziale di vera indipendenza, epperciò considerata con invidia ed ammirazione da quei paesi stranieri, che si sogliono citare all’imitazione paesana74. Le esigenze della polemica condizionavano certamente queste troppo positive valutazioni di Einaudi; ma la rappresentazione del cammino percorso in materia di concorsi, di fronte alla rottura operata da Gentile, era nell’insieme corretta, anche se molto semplificata. Nella riforma Gentile la questione del reclutamento venne, in effetti, impostata in maniera radicalmente diversa rispetto alla normativa maturata verso la fine del secolo. Raccogliendo, secondo un procedimento tipico di quei decreti, spunti e motivi già discussi, e rielaborandoli in un contesto segnato dall’abbandono completo del principio elettivo e da un grande accentramento di poteri nelle mani del ministro, Gentile riorganizzava anzitutto la struttura della docenza. Due sole categorie di professori, di ruolo e incaricati – i primi a carico del bilancio dello Stato, i secondi degli atenei -, più i liberi docenti, ai quali il titolo veniva rilasciato, a differenza di quanto era accaduto nei decenni precedenti, solo da commissioni centrali nominate dal Consiglio superiore, che era a sua volta tornato di designazione integralmente ministeriale, dopo essere divenuto per metà elettivo, con voto degli universitari, nel 1881, ed aver accolto una componente di provenienza parlamentare nel 1909. Qualora, in caso di vacanza di un posto, la facoltà avesse deciso per una nuova nomina, avrebbe dovuto segnalare al ministro una terna di liberi docenti della materia o di materia affine; una commissione di nomina ministeriale, su indicazione del Consiglio superiore, avrebbe giudicato nel merito e graduato i tre liberi docenti. Le nomine per chiara fama si sarebbero dovute effettuare su proposta della facoltà con maggioranza dei tre quarti, ed approvazione del Consiglio superiore con maggioranza dei due terzi. Gentile riattribuiva così un ruolo alle sedi interessate – in armonia con gli elementi della tradizione autonomistica estrapolati e raccolti nel quadro della sua riforma -, limitava drasticamente l’accesso alle procedure di reclutamento per i professori di ruolo, manteneva un certo potere di controllo alla comunità scientifica – esercitato sia sul conferimento della libera docenza, sia sulla valutazione dei liberi docenti proposti per la cattedra -, ma nel contesto di un netto primato delle competenze e dell’iniziativa ministeriale75. L’analisi del regolamento applicativo della riforma consente ulteriori precisazioni. Prima di indicare al ministro la terna dei liberi docenti la facoltà era tenuta a render nota la vacanza, ed a raccogliere e ad esaminare le domande dei liberi docenti interessati; ma la peculiarità del suo ruolo era ribadita dalla possibilità assegnatale di includere nella terna anche liberi docenti che non avessero presentato domanda. Inoltre, a qualificare il clima politico nel quale si collocavano i provvedimenti gentiliani, il regolamento stabiliva che la presentazione, da parte dei candidati, del certificato del casellario giudiziario e di quello di buona condotta rilasciato dal sindaco del comune di residenza non escludeva la possibilità, da parte dell’amministrazione, di accertare “il requisito della regolare condotta (…) con tutti i mezzi che ritenga opportuni”76. Il complessivo disegno gentiliano fu, in vari punti, manomesso molto rapidamente; e le norme sui concorsi, troppo difformi da una prassi ormai consolidata, anche se spesso criticata, furono fra le prime a cadere. Con un decreto del Settembre 1924 il successore di Gentile, Casati, disponeva che fino al 1925 le nomine per posti vacanti nelle università avrebbero potuto essere fatte valendosi delle graduatorie di concorsi approvati non prima del Giugno 1920, togliendo così di fatto operatività immediata alla riforma Gentile77. Un anno dopo, nel Settembre 1925, il ministro Fedele tornava al concorso aperto, con una commissione di cinque membri indicati in parte dalla facoltà interessata, in parte dalle facoltà alle quali apparteneva la cattedra in questione, in parte dal Consiglio superiore78; norme riprese con ulteriori specificazioni nel testo unico del 31 Agosto 1933. Il concorso, per titoli, ma con eventuale prova didattica, sarebbe stato giudicato da una commissione di cinque membri; alla facoltà che aveva chiesto il concorso spettava la designazione di tre professori o cultori della materia, sei ne toccavano all’insieme delle facoltà omologhe ed altrettanti al Consiglio superiore; il ministro avrebbe scelto un commissario nel primo gruppo, due nel secondo e due nel terzo79. Si riproponeva una già nota ricerca di equilibrio; una versione autoritaria della vecchia procedura liberale, e assai meno radicale delle innovazioni gentiliane. E, quanto all’apertura dei concorsi, l’articolo 75 del testo unico stabiliva che coloro i quali, a insindacabile giudizio dell’amministrazione, non possedessero il requisito della regolare condotta morale e politica non avrebbero potuto essere ammessi ai concorsi, e, se ammessi, non avrebbero potuto essere nominati professori. Un ulteriore irrigidimento, con la totale concentrazione del potere decisionale nelle mani del ministro, si ebbe poi con il decreto De Vecchi del Giugno 1935. Le commissioni tornavano ad essere di nomina ministeriale, ed il ministro stesso aveva facoltà di annullare gli atti di una commissione con decisione insindacabile; la nomina per chiara fama, che il testo unico del 1933 aveva mantenuto immodificata rispetto al decreto Gentile, spettava ora al ministro su proposta della facoltà, ma sarebbe potuta derivare anche da una semplice iniziativa ministeriale; e larghissime competenze erano affidate al ministro in materia di incarichi e di trasferimenti80. Rimaste in vigore dieci anni, queste norme furono abrogate, prima ancora della conclusione della guerra, con un decreto legislativo luogotenenziale del 5 Aprile 1945 dal ministro Arangio Ruiz. Non si interveniva, com’è ovvio, solo per cancellare l’arbitrio ministeriale sancito da De Vecchi; si intendeva, almeno formalmente, abrogare l’apparato di discriminazione a base politico-razziale81, fatta salva l’applicazione del decreto del Luglio 1944 sulle sanzioni contro il fascismo, con la possibilità di rivedere concorsi e nomine successivi al 1932, anche se in un quadro di garanzie piuttosto marcate per i docenti comunque in servizio. Quanto alle nomine dei professori, ci si rifaceva ancora in parte al testo unico del 1933 per quelle senza concorso; e per i concorsi si adottava un sistema elettivo semplice, senza rappresentanze particolari. Il corpo elettorale era ancora raggruppato per facoltà, ed ogni docente disponeva di tre voti per giungere ad eleggere una commissione di cinque ordinari della materia o di materie strettamente affini; il ministro, in assenza di particolari impedimenti, avrebbe nominato nella commissione i cinque più votati82. Si affermava così, nella sostanza, un criterio elettivo puro, su base nazionale, che dati i suoi meccanismi si sarebbe prestato a critiche non troppo diverse da quelle già circolanti a cavallo fra i due secoli. 7. A guerra ancora in corso, si riprodusse – anche se in un’area circoscritta – una situazione di sommarie nomine politiche che potrebbe in parte ricordare quella caotica avviata dai governi provvisori nel 1859-60. Poco nota, la vicenda può avere qualche interesse non solo per l’inquietante rapidità con la quale alcuni atenei colsero l’occasione per numerose nuove nomine di docenti, ma soprattutto per l’esito che essa ebbe: la sanatoria. Si allude alla storia degli Am professori, che “sono assai meno noti delle Am-lire, perché, a differenza di queste ultime, essi non hanno avuto circolazione fuori dalla Sicilia” 83. Così Bruno Lavagnini, che descriveva a poca distanza di tempo le decisioni prese dal governo militare alleato, immediatamente seguite alla soppressione di insegnamenti come quello di storia e dottrina del fascismo, avvenuta l’8 Novembre 1943. Una mattina del Novembre 1943, sotto il Governo dell’AMGOT, al pilastro di sinistra del portale della Università di Palermo fu affisso un foglietto dattiloscritto che attirò la curiosità dei passanti. Per la storia il foglio diceva testualmente: “Avviso: Coloro che desiderano conseguire la nomina a professore di ruolo nelle Università Siciliane possono presentare, non più tardi del 28 Novembre corrente, regolare domanda al Rettore di questa Università corredata da un curriculum vitae e da quegli altri titoli che essi riterranno utili per il giudizio che dovrà essere formulato da apposite commissioni esaminatrici. Il Rettore“. (…) Non era uno scherzo, come alcuno credette. Anzi, qualche nomina aveva avuto già luogo. E la prima fu di un tale che, per avere moglie americana, e perché ricopriva presso il Consigliere mansioni di segretario, fu nominato su due piedi professore … ordinario di non so qual diritto comparato. Poi seguirono altre nomine, tutte con una procedura piuttosto sbrigativa. Il Signor Consigliere non amava la burocrazia e desiderava che anche nel campo della cultura le avanzate si effettuassero alla maniera militare, e cioè d’assalto. Lo stesso Lavagnini aveva fatto parte di una commissione giudicatrice convocata “a tamburo battente”, ma non era riuscito ad avere tempo neppure per esaminare i titoli. Il colonnello, un inglese dilettante di antropologia, era convinto di fare gli interessi degli alleati nella lotta contro il fascismo, e invece faceva “gli interessi dei suoi consiglieri indigeni, i quali riuscirono a persuaderlo che proprio col nominare i loro amici avrebbe fatto la guerra al … fascismo. E il bello fu che fra i neo eletti non tutti erano vittime del regime, e qualcuno ne aveva profittato”. Il risultato fu comunque la nomina di 39 professori di ruolo distribuiti variamente tra le università siciliane. La più beneficata fu Messina, seguita a ruota da Palermo, sede del Governo militare, quantunque il rettore di quest’ultimo ateneo tentasse di limitare gli effetti del provvedimento facendo sì che i nuovi docenti non diventassero immediatamente ordinari, ma dovessero passare almeno per lo straordinariato84. A liberazione compiuta, nel Giugno del 1946, fu tentata una revisione di queste nomine, che apparivano evidentemente davvero troppo improvvisate. Di fatto però i docenti interessati, grazie ad una sorta di resistenza passiva, riuscirono ad evitare ogni ulteriore giudizio finché, il 7 Maggio 1948, il decreto n. 86 ratificato poi nella legge 26 Aprile 1950, n. 278 avrebbe sistemato la questione, creando il ruolo dei “professori incaricati delle funzioni di straordinario”. Né straordinari né incaricati dunque, ma in qualche modo parcheggiati in un ruolo che è rimasto tale per molti di essi: Santoni Rugiu ci ricorda, ad esempio, che tale è stata la posizione dell’onorevole Restivo85. In parallelo con questa vicenda, si restituiva la cattedra ai professori che non avevano giurato o che erano stati espulsi per motivi razziali, e al tempo stesso si reintroduceva l’elettività di rettori e presidi, conservando pure al ministro l’atto formale della ratifica delle nomine. Restava inoltre in vigore la norma che concedeva al ministro la possibilità di non ratificare – e quindi di far decadere – la nomina di un vincitore (decreto luogotenenziale 7 Settembre 1944, n. 264). Il reinserimento nei ruoli dei professori che non avevano giurato, e la possibilità di richiamare quanti – come Salvemini – avevano dovuto esulare e insegnavano fuori d’Italia si accompagnarono ad una versione assai morbida ed assolutoria dell’epurazione86; questione di rilievo su un piano generale, ma tutto sommato marginale nello specifico contesto di questa analisi. Più significativo è ribadire il fatto che, a guerra non ancora finita, il riferimento normativo per quel che riguardava i concorsi e le modalità del loro svolgimento continuasse ad essere – con le modifiche relative all’elezione delle commissioni – l’articolo 70 del già citato testo unico del 1933. 8. La legislazione repubblicana non ha recuperato, sul terreno del reclutamento accademico, gli elementi autonomistici che Gentile aveva cercato di introdurre, mantenendosi tutto sommato fedele agli indirizzi maturati nell’Italia liberale. La base elettiva per facoltà faceva sì che potenti gruppi di pressione fossero in grado di condizionare l’elezione delle commissioni anche al di fuori di uno specifico ambito disciplinare. Qualche proposta correttiva – sorteggio, limiti più precisi, in senso disciplinare, all’elettorato attivo – emergeva dalle risposte ai quesiti formulati dal ministro Gonella ed inviati alle facoltà87. In questo contesto si capisce perché Luigi Einaudi, nel Gennaio 1952, appoggiasse la proposta di Segni di modificare la composizione delle commissioni introducendo il sorteggio: Il concetto di considerare eletti i due commissari i quali abbiano riportato il massimo numero di voti e di estrarre a sorte gli altri tre tra quelli dei successivi sei i quali abbiano riportato il maggior numero di voti dopo i primi due, pare assai commendevole allo scopo di eliminare, nei limiti del possibile, cricche accademiche, brighe di candidati, ecc.88. Di fatto, la legge 13 Luglio 1954, n. 439, Disposizioni sui concorsi a cattedre universitarie lasciava praticamente immutato il criterio delle commissioni composte dai primi cinque votati dalle facoltà alle quali la materia messa a concorso apparteneva (oltre a consentire il voto a docenti della materia eventualmente insegnanti in altre facoltà, e ad affermare l’incompatibilità per coloro che avessero fatto parte delle commissioni nei due concorsi precedenti). Dopo la sospensione dei concorsi a cattedra stabilita dalla legge 924 del 23 Novembre 1970, il criterio opposto del sorteggio puro sarebbe stato invece introdotto dalla legge 30 Novembre 1973, n. 766 – nell’ambito, quindi, dei famosi provvedimenti urgenti -, che proponeva però un importante correttivo, determinato dalla necessità di non dotare una commissione sorteggiata di poteri troppo ampi. Ogni commissione nominata per sorteggio non avrebbe potuto giudicare per la copertura di un numero di posti superiore a dieci: un maggior numero di posti a concorso avrebbe richiesto lo sdoppiamento della commissione. Il sistema dell’elezione mista al sorteggio, già indicato da Einaudi e fatto proprio dalla legge 7 Febbraio 1979 n. 31, veniva, come è noto, ripreso dal DPR 382 del 1980. Esso dunque costituisce ancora, con modifiche ed integrazioni, la base dell’ordinamento concorsuale vigente. L’adozione di una simile procedura di nomina delle commissioni era stata comunque accompagnata da più di un dubbio. Il 30 Aprile 1979, nel suo discorso per l’insediamento del Consiglio universitario nazionale, il ministro Spadolini, notando che il metodo del sorteggio non aveva funzionato come si credeva, aggiungeva, a proposito delle nuove norme, che “neanche è detto che reggano del tutto alla prova che noi ci accingiamo a compiere” 89. Come si è detto, abbiamo scelto di limitare l’analisi al sistema dei concorsi e alle figure dei docenti di ruolo. Non potremo quindi analizzare due vicende parallele, quella degli incarichi che hanno consentito di far fronte in tempi rapidissimi all’imponente crescita quantitativa dell’università italiana dalla fine degli anni Sessanta agli anni Settanta90 e quella dei professori aggregati 91. La libera docenza, esperienza da ripensare sul piano storiografico come su quello della politica universitaria, fu di fatto abolita dalla già ricordata legge 924 del Novembre 1970. D’altra parte, si tratta di vicende vicine e ben note. Per concludere il nostro discorso converrà se mai soffermarsi sui tratti complessivi del decreto 11 Luglio 1980, n. 382. Il criterio che vi presiedeva era essenzialmente quello che l’università dovesse funzionare a regime solo con mansioni fisse, in assenza totale di precariato. Unica dissonanza rispetto a questo schema è quella costituita dai contratti di insegnamento inizialmente previsti “per l’attivazione di corsi integrativi di quelli ufficiali impartiti nelle facoltà, finalizzati all’acquisizione di significative esperienze teorico-pratiche di tipo specialistico provenienti dal mondo extrauniversitario ovvero di risultati di particolari ricerche, o studi di alta qualificazione scientifica e professionale”. Quella dei professori a contratto è un’esperienza ancora tutta da valutare nei suoi risultati complessivi, e non è questa la sede per farlo. Resta però la curiosità di capire in quale misura i contratti siano stati affidati davvero a personalità dotate delle qualifiche predette e non siano stati invece utilizzati talvolta come nuovo canale di reclutamento. Così come rimane aperto l’interrogativo sullo strumento legislativo – l’articolo 32 dell’ultima finanziaria pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 29 Dicembre 1995 – con il quale l’uso dei contratti è stato esteso anche alla “attivazione di corsi ufficiali non fondamentali o caratterizzanti” nei limiti delle disponibilità di bilancio delle università e per sopperire a particolari e motivate esigenze didattiche. La molteplicità di norme e di figure alle quali la 382 fa riferimento ne mostra il carattere conclusivo, di sistemazione di una serie di situazioni di fatto legate in gran parte alla brusca espansione quantitativa del sistema universitario italiano. Le previsioni di sviluppo sono state comunque del tutto disattese, forse anche perché non erano stati valutati fino in fondo gli effetti di quel processo di stabilizzazione. Come è noto i concorsi previsti a cadenza biennale non hanno avuto luogo92. Sono stati surrettiziamente ripristinati gli incarichi sotto forma di affidamenti, ancorché limitati al personale di ruolo, ed è ormai comune la consapevolezza di una necessaria modificazione del sistema dei concorsi che quella legge manteneva come strumento di selezione. Fin qui, la storia delle leggi. Ancora una volta sarebbe tuttavia opportuno ricordare che la storia delle leggi si fa non guardando soltanto alla lettera della norma, ma verificando puntualmente le modalità e le conseguenze della sua applicazione. Ma questa sarebbe un’altra storia, e richiederebbe uno spazio ben maggiore di quello che ci è stato concesso e l’apertura di un fronte più largo. Così come lo richiederebbe una considerazione complessiva delle modificazioni apportate da un’autonomia che da una parte impone agli atenei il reperimento di una percentuale di risorse, ma dall’altra viene sottoposta – nei fatti – a controlli molto forti sui curricula, che non possono non avere forti ripercussioni sulla distribuzione degli insegnamenti e quindi, in prospettiva, sul reclutamento accademico. Mauro Moretti (Scuola Normale di Pisa) |
1 Questo articolo riprende il testo di un intervento svolto nell’ambito del seminario organizzato dalla SISSCO – Società italiana per lo studio della storia contemporanea -, e tenutosi a Roma il 24 Novembre 1995. Un resoconto dei lavori del seminario è stato pubblicato nel “Bollettino SISSCO”, 16 (Luglio 1996), p. 18-25. Nella rielaborazione non si è tenuto conto di scritti di attualità accademica, prese di posizione e disegni di legge successivi a questa data. Nell’ambito di una comune impostazione, i paragrafi 1, 2, 7, 8 sono stati redatti da Ilaria Porciani, ed i paragrafi 3, 4, 5, 6 da Mauro Moretti.2 La lettera è edita nell’interessante saggio di Paolo Macry, Breve storia di un concorso a cattedra, “Quaderni storici”, XXI (1986), n. 62, p. 629-639; la cit. è a p. 634. Sulla normativa concorsuale si rinvengono varie informazioni in alcuni studi recenti sull’università italiana fra Otto e Novecento, anche se la questione non vi è tematizzata e trattata in maniera autonoma; sono comunque da vedere almeno Simonetta Polenghi, La politica universitaria italiana nell’età della Destra storica (1848-1876), Brescia, La Scuola, 1993; L’Università tra Otto e Novecento: i modelli europei e il caso italiano, a cura di Ilaria Porciani, Napoli, Jovene, 1994; Floriana Colao, La libertà di insegnamento e l’autonomia nell’Università liberale. Norme e progetti per l’istruzione superiore in Italia (1848-1923), Milano, Giuffrè, 1995. Per quel che riguarda il periodo più recente, cfr. Giunio Luzzato, L’Università, in La scuola italiana dall’unità ai nostri giorni, a cura di Giacomo Cives, Firenze, La Nuova Italia, 1990, p. 153-198; e la ricostruzione, piuttosto cronachistica, contenuta nella seconda e nella terza parte del volume di Umberto M. Miozzi, Lo sviluppo storico dell’università italiana, Firenze, Le Monnier, 1993. Sul corpo docente, e su alcuni aspetti generali della vita accademica italiana contemporanea cfr. Burton R. Clark, Academic Power in Italy. Bureaucracy and Oligarchy in a National University System, Chicago-London, University of Chicago Press, 1977; Pier Paolo Giglioli, Baroni e burocrati. Il ceto accademico italiano, Bologna, il Mulino, 1979. Per quel che riguarda più specificamente la dimensione storica del problema del reclutamento accademico, non poche notizie – ma nel contesto di una trattazione disordinata e farraginosa, migliore comunque per il periodo che va dal secondo dopoguerra ad oggi – sono contenute nel volume di Antonio Santoni Rugiu, Chiarissimi e Magnifici. Il professore nell’università italiana (dal 1700 al 2000), Firenze, La Nuova Italia, 1991. Un serio ed articolato confronto sui problemi legati alla selezione accademica fu promosso fra il 1987 ed il 1989 dalla rivista “Società e storia”: gli interventi sono poi stati raccolti nel volume La professione universitaria. Una discussione sul reclutamento dei docenti, a cura di Mario Mirri, Milano, Franco Angeli, 1990. Dato l’originario carattere di questo contributo, comunque, i riferimenti bibliografici saranno ridotti al minimo indispensabile.3 Merit, Una morra per la cattedra, “Il Sole 24 ore”, 5 Novembre 1995.4 Così l’art. 154 del RD n. 4373 del 20 Ottobre 1860, regolamento universitario promulgato dal ministro della pubblica istruzione, Mamiani. E idee non troppo dissimili circolarono piuttosto a lungo. Il RDl n. 1071 del 20 Giugno 1935 prevedeva, ad esempio, che le spese per le commissioni di concorso per i posti di aiuto e assistente ordinario fossero a carico degli istituti che bandivano questi concorsi.5 Cfr. Le Università in Italia. Lettere del deputato Corrado Tommasi-Crudeli all’onorevole deputato Dina, Roma, Tipografia dell’Opinione, 1876, p. 16.6 Sandro Gerbi, E Bottai inventò le cattedre “per chiara fama”, “Corriere della Sera”, 18 Novembre 1995.7 Merit, Una morra per la cattedra; Ignazio Brunelli, A proposito di recenti concorsi universitari annullati. (Divagazioni di uno scettico dedicate alla “Reale commissione per lo studio della riforma dell’istruzione superiore”), “Rivista popolare di politica lettere e scienze sociali”, 18 (1912), p. 241-247. 8 Ivi, p. 243-244, per le citazioni nel testo. 9 Ivi, p. 245. 10 Cfr., da ultimo, Christophe Charle, La République des universitaires. 1870-1940, Paris, Seuil, 1994. 11 Raffaele Romanelli, Operazione università pulite, “Liberal”, 1, Ottobre 1995, p. 33-35; e si veda anche Id., Verso una selezione per merito? Problemi della transizione, “Bollettino SISSCO”, 16 (Luglio 1996), p. 20-22. 12 In particolare la figura del professore straordinario, che per la Casati dipendeva dalla diretta nomina ministeriale, e rimaneva in carica per un solo anno con possibilità di rinnovo, si era mutata nella prassi in quella di un docente nominato per concorso, e poi stabilizzato e promuovibile ad ordinario. Come affermava in Parlamento il ministro Vittorio Emanuele Orlando nel 1904, “la ragione della trasformazione consuetudinaria dello straordinariato della legge Casati, che è l’attuale incarico, in un professorato stabile quanto l’ordinariato ma pagato meno, è una ragione puramente finanziaria” (Atti parlamentari, Camera dei Deputati, Discussioni, XXI legislatura, II sess. 1902-04, 26 Febbraio 1904, p. 11122). La legge Casati, infatti, all’art. 92, stabiliva che “Lo stipendio dei Professori straordinari non potrà eccedere i sette decimi di quello che è assegnato per le stesse funzioni ai Professori ordinari”. L’estensione delle procedure concorsuali alla nomina dei professori straordinari, regolata per legge solo nel 1904, ma affermatasi ben prima nella pratica, contribuì senza dubbio a radicare la selezione per via di concorso nel sistema universitario, ed a far sentire il bisogno di una diversa organizzazione dei concorsi stessi, rispetto al primato della funzione ministeriale fissato dalla Casati. 13 Si è già accennato all’importanza pratica delle nomine politiche nel periodo dell’unificazione, specie per alcuni settori disciplinari. Qui non interessa tanto abbozzare un bilancio culturale legato a simili scelte; se per questa via passarono alcuni fra i protagonisti della vita intellettuale italiana dopo l’unità, da Carducci a D’Ancona, da Villari a Comparetti, andranno anche registrate le retrospettive osservazioni di Salvemini sul periodo nel quale “le università italiane portavano ancora il peso di tutti i patrioti più o meno autentici, a cui lo stipendio, anzi l’‘onorario’ universitario (direbbero i retori) teneva le veci di pensione” (Gaetano Salvemini, Abbasso le università! A Leonida Bissolati – 1908 -, in Id., Scritti sulla scuola, a cura di Lamberto Borghi e Beniamino Finocchiaro, Milano, Feltrinelli, 1966, p. 769-774, p. 770). Conviene invece insistere sul fatto che in queste pratiche non si vide solo un espediente legato ad una fase di emergenza, ma semmai uno strumento da regolamentare. 14 Così agli articoli 112-141 del RD del 20 Ottobre 1860, n. 4373. 15 Un esame accurato delle attribuzioni del Consiglio superiore in materia concorsuale è svolto nel ricco studio di Gabriella Ciampi, Il governo della scuola nello Stato postunitario. Il Consiglio superiore della pubblica istruzione dalle origini all’ultimo governo Depretis (1847-1887), Milano, Edizioni di Comunità, 1983. 16 Ivi, p. 176 (dai verbali del Consiglio superiore, 28 Maggio 1873). 17 RD 20 Ottobre 1867, n. 4008, che approva il regolamento del Consiglio superiore della pubblica istruzione, art. 2 del regolamento. 18 Ciampi, Il governo della scuola, p. 247 (regolamento interno pel Consiglio superiore di pubblica istruzione del 13 Dicembre 1874, p. 246-249, art. 4). 19 RD 13 Maggio 1875, n. 2469, regolamento per la nomina dei professori ordinari e straordinari. Si veda anche Polenghi, La politica universitaria, p. 449-450; Colao, La libertà di insegnamento, p. 188-189. 20 RD 8 Ottobre 1876, n. 3434, art. 63. 21 DM 7 Luglio 1868, n. 4469; la domanda di promozione del professore straordinario avrebbe dovuto essere accompagnata da un parere della facoltà, ma il Consiglio superiore aveva comunque la possibilità di tener conto di altre domande eventualmente presentate e, nel caso in cui si ritenesse di non poter procedere ad una nomina per chiara fama, di far aprire un concorso. 22 RD 23 Maggio 1875, n. 2506. Altro atto rilevante del ministro Bonghi, a proposito del reclutamento accademico, fu la circolare del 3 Ottobre 1875, n. 456, mirante a regolamentare il conferimento degli incarichi, ed a ridurne il numero. 23 Ciampi, Il governo della scuola, p. 178 (dai verbali del Consiglio superiore, 18 Marzo 1875). 24 Tale fu il caso, ad esempio, della nomina a Torino di Jakob Moleschott; episodio per il quale si veda almeno Ciampi, Il governo della scuola, p. 159-161. 25 Com’è noto, la legge Casati, in quanto tale, non fu mai vigente a Bologna, o nelle università toscane; e la questione degli organici universitari rimase a lungo aperta. Con RD del 1º Febbraio 1874, n. 1819, ad opera del ministro Scialoja, era stata approvata la tabella del personale insegnante nelle università del regno, che fissava, sede per sede, il numero dei professori ordinari, straordinari ed incaricati (i totali erano rispettivamente di 483, 148, 181); ma il provvedimento fu abrogato con il RD 3 Maggio 1883, n. 1345, dal ministro Baccelli, fautore di una riforma in senso autonomistico evidentemente in contrasto con la logica di un decreto come quello del 1874 (e difatti l’articolo 19 della legge Baccelli, approvata dopo lunga discussione dalla Camera nel Febbraio 1884, stabiliva che il numero dei professori ordinari e straordinari non sarebbe stato limitato: Atti parlamentari, Senato, Atti interni, XV legislatura, sess. unica 1882-86, documento n. 100). La riforma Baccelli non fu poi convertita in legge; la tabella Scialoja non tornò però in vigore, e la determinazione del numero degli insegnanti fu di fatto affidata alla legge annuale di bilancio. 26 Atti parlamentari, Senato, Discussioni, XXI legislatura, II sess. 1902-04, 18 Maggio 1904, p. 3811 (intervento del sen. Giuseppe Colombo). 27 Parere del Consiglio superiore della pubblica istruzione, adunanza del 20 Aprile 1875, in Bruto Amante, Nuove illustrazioni e commenti alle leggi e discipline sulla P. Istruzione, Roma, B. Amante Editore, 1887, p. 170-171. 28 RD 26 Gennaio 1882, n. 629, regolamento pei concorsi a cattedre universitarie, art. 3. 29 Ciampi, Il governo della scuola, p. 54-71; e si veda anche Ead., Introduzione, ad Archivio Centrale dello Stato – Fonti per la storia della scuola, II, Il Consiglio superiore della pubblica istruzione 1847-1928, a cura di Gabriella Ciampi e Claudio Santangeli, Roma, Ministero per i beni culturali e ambientali – Ufficio centrale per i beni archivistici, 1994, p. 11-36. 30 RD 3 Aprile 1881, n. 159. 31 Augusto Graziani, Per il Consiglio superiore della pubblica istruzione. Appunti, “L’Unione Universitaria”, 3 (1896), p. 462-465, p. 463-464; e si veda anche Id., Ordinamento dell’Istruzione Superiore, in Primo trattato completo di diritto amministrativo italiano, VIII, a cura di Vittorio Emanuele Orlando, Milano, Società Editrice Libraria, 1905, p. 845-1047, p. 933: “Qualche volta parve che il Consiglio entrasse nel merito dei giudizi, qualche volta parve traesse partito dall’inosservanza di qualche formalità d’ordine secondario e non essenziale, per proporre al Ministro l’annullamento di pronunziati corretti (…). Il ministro può del resto attenersi alle proposte della Commissione, anche quando non siano approvate dal Consiglio; solo la sua responsabilità politica ed amministrativa si accresce”. Questo particolare problema, del resto, aveva avuto un certo rilievo nelle discussioni attorno ai poteri ed alla riforma del Consiglio, dalla metà degli anni Settanta alla legge del 1881. E sarebbe naturalmente utile raccogliere informazioni sui concorsi che furono oggetto di effettivo intervento da parte del Consiglio. 32 Francesco D’Ovidio, Questioni universitarie. La scelta dei professori e le Commissioni pei concorsi, “Nuova Antologia”, 95 (1887), p. 30-47, p. 35. Fra le critiche, assai dure, rivolte allora all’operato di Baccelli, si ricordino quelle di Silvio Spaventa, L’amministrazione della pubblica istruzione (1881), in Id., La politica della Destra, scritti e discorsi raccolti da Benedetto Croce, Bari, Laterza, 1910, p. 301-338, e di Pasquale Villari, Il Ministro dell’Istruzione pubblica e i concorsi universitarii, “La Rassegna settimanale”, 8 (1881), p. 210-211. 33 RRDD 26 Gennaio 1882, n. 629, e 27 Maggio 1883, n. 1364. 34 D’Ovidio, Questioni universitarie, p. 35. 35 RD 11 Agosto 1884, n. 2621. 36 Si vedano, riassuntivamente, le considerazioni di Graziani, Ordinamento, p. 924-925: “Ma pure il metodo di attribuire alla sola Facoltà cui era vacante la cattedra la proposta della Commissione apparve pericoloso, perché le relazioni locali, le simpatie od antipatie di scuola, avrebbero potuto esercitare, e non è negare che abbiano in qualche caso esercitato influenza sulle proposte della Facoltà stessa, le quali sembrarono talora predeterminate a far decidere il concorso in un certo senso”. 37 Ivi, p. 1032. 38 Per il progetto Baccelli e la rielaborazione in sede di commissione alla Camera si vedano i testi e le relazioni in Atti parlamentari, Camera dei Deputati, Documenti, XV legislatura, I sess. 1882, documenti n. 26 e 26A. 39 Nella versione approvata dalla Camera il 28 Febbraio 1884, l’articolo sul reclutamento ricordato nel testo era il n. 18. Sul passaggio al Senato del disegno di legge va vista la relazione Cremona in Atti parlamentari, Senato, Atti interni, XV legislatura, sess. unica 1882-86, documento n. 100A (alle p. 135-152 la pubblicazione sinottica del disegno di legge del ministero e di quello dell’ufficio centrale del Senato). Attorno a questo importante momento della politica universitaria in Italia manca, a mia conoscenza, uno studio sufficientemente articolato; alcune notizie ed osservazioni in Colao, La libertà di insegnamento, p. 214-216, p. 260-280. 40 Memoriale dei professori ordinari della R. Università di Palermo, Sul disegno di legge intorno all’autonomia delle Università, “L’Unione Universitaria”, 2 (1895), p. 276-285, p. 279-280. 41 Atti parlamentari, Senato, Atti interni, XV legislatura, sess. unica 1882-86, documento n. 100A, p. 3. 42 Ivi, p. 46-52; e gli articoli 5-8 del disegno di legge conclusivamente elaborato dalla commissione senatoriale. 43 RD 8 Maggio 1887, n. 4487. 44 RD 26 Ottobre 1890, n. 7337, art. 106. Sugli inconvenienti del voto per facoltà si vedano le osservazioni di Pietro Albertoni, Sul nuovo regolamento per la nomina delle commissioni esaminatrici, “L’Università”, 1 (1887), p. 297-298. Il passaggio dal voto per facoltà al voto individuale rafforzava la posizione delle “facoltà numerose per professori ordinari”, che “hanno oggi una notevole preponderanza nelle nomine delle commissioni”: Dante Pantanelli, La scelta dei professori universitari, “L’Unione Universitaria”, 1 (1894), p. 86-90, p. 87. 45 Giorgio Pasquali – Piero Calamandrei, L’Università di domani (1923), in Giorgio Pasquali, Scritti sull’università e sulla scuola, con due appendici di Piero Calamandrei, introduzione di Marino Raicich, Firenze, Sansoni, 1978, p. 3-296, p. 134. 46 D’Ovidio, Questioni universitarie, p. 41; e si veda anche Antonio Fais, Modificazioni al regolamento sui concorsi universitari, “L’Università”, 1 (1887), p. 292-294. 47 Il disegno di legge Baccelli, e la relazione della commissione della Camera sono in Atti parlamentari, Camera dei Deputati, Atti stampati, XIX legislatura, I sess. 1895, documenti n. 67 e 67A. Per le reazioni a questa ripresentazione si veda almeno Giuseppe Ricca Salerno, La riforma universitaria. A proposito dell’ultima relazione parlamentare, “Nuova Antologia”, 146 (1896), p. 236-267; Memoriale dei professori ordinari della R. Università di Palermo, Sul disegno di legge, p. 281: “Dato il sistema della nomina affidata alle facoltà, l’ingerenza ministeriale annulla il solo vantaggio di quello, cioè la responsabilità che l’ente locale viene a contrarre, responsabilità che non è possibile senza vera e completa libertà”. 48 RD 4 Dicembre 1898, n. 548. Baccelli in precedenza aveva effettuato numerose nomine dirette di straordinari, suscitando opposizioni e polemiche: a questo proposito si tenga conto almeno di Domenico Zanichelli, I professori straordinari, “L’Unione Universitaria”, 3 (1896), p. 474-479; Graziani, Ordinamento, p. 912-913. 49 Con il RD del 12 Luglio 1900, n. 273, il ministro Gallo abrogava le disposizioni di Baccelli del 1898. 50 Atti parlamentari, Camera dei Deputati, Atti stampati, XX legislatura, II sess. 1898-99, documento n. 20A, p. 7 51 Ivi, p. 7-9 (dove peraltro si accennava alla rappresentanza in commissione della facoltà interessata al concorso); Colao, La libertà di insegnamento, p. 311-316. 52 RRDD 13 Aprile 1902, n. 127 – regolamento generale universitario -, e 26 Ottobre 1903, n. 465 – modifiche al regolamento generale universitario -, in specie gli articoli 15-46 del regolamento, e gli articoli 17, 29 e 32 delle modifiche. In precedenza Nasi, con ordinanza ministeriale dell’Ottobre 1901, aveva tentato di introdurre un sistema misto, con elezione e sorteggio, per la nomina delle commissioni: Graziani, Ordinamento, p. 926. 53 Atti parlamentari, Camera dei Deputati, Discussioni, XXI legislatura, II sess. 1902-04, 26 Febbraio 1904, p. 11123-11124 (intervento del ministro Orlando). 54 Legge 12 Giugno 1904, n. 253, per la nomina dei professori ordinari e straordinari. 55 Sulla legge 19 Luglio 1909, n. 496, si veda Mauro Moretti, La questione universitaria a cinquant’anni dall’unificazione. La Commissione reale per il riordinamento degli studi superiori e la relazione Ceci, in L’Università tra Otto e Novecento, p. 209-309, p. 233-239. 56 RD 7 Luglio 1905, n. 427. Le norme passarono poi nel RD 21 Agosto 1905, n. 638 – regolamento generale universitario -, all’articolo 107. L’articolo 109 prevedeva la possibilità, per i concorrenti, di presentare delle dichiarazioni motivate di ricusazione verso dei componenti della commissione; ascoltato il commissario eventualmente ricusato, il ministro avrebbe deciso in merito. 57 RRDD 9 Agosto 1910, n. 795 e 796, che approvano il testo unico delle leggi sull’istruzione superiore e il regolamento generale universitario. Il regolamento, all’articolo 18, faceva obbligo al ministro di udire il parere del Consiglio superiore a proposito delle nomine per chiara fama; per l’insediamento delle commissioni – articolo 22 – il ministro avrebbe scelto quattro nomi fra i dieci più votati fra gli insegnanti e i cultori della materia messa a concorso, ed un nome fra i quattro più votati fra i professori e cultori di materia affine; e l’articolo 24 prescriveva che “se da qualche concorrente sia presentata dichiarazione motivata di ricusazione di un commissario, il ministro la comunica in copia al commissario medesimo, assegnandogli un breve termine per presentare le proprie osservazioni; ed esaminate queste in rapporto ai fatti ed alle argomentazioni esposte dal concorrente, prende le sue risoluzioni motivate, dandone comunicazione agli interessati. Non sono valide le dichiarazioni di ricusazione presentate dopo che la Commissione abbia tenuta la prima adunanza”. 58 F. Novati ad A. D’ Ancona, 16 Dicembre 1904, e 29 Novembre 1905, Carteggio D’Ancona. 10. D’Ancona-Novati, IV, a cura di Lida Maria Gonelli, Pisa, Scuola Normale Superiore, 1990, p. 363, 377. Considerazioni molto negative sulla presenza nelle commissioni di un membro della facoltà interessata svolgeva Francesco Bertolini, Modificazioni al regolamento sui concorsi universitari, “L’Università”, 1 (1887), p. 294-297. 59 Sulle condizioni della pubblica istruzione nel Regno d’Italia. Relazione generale presentata al Ministro dal Consiglio Superiore di Torino, Milano, Stamperia Reale, 1865, parte I – Università, Scuole speciali pratiche e Scuole normali superiori, Istituti di perfezionamento, ecc., relatore Carlo Matteucci, p. 9-227, p. 21. 60 Ivi, p. 26-27. 61 Relazione e progetto di legge per il riordinamento dell’istruzione superiore, presentato dal senatore Matteucci nella tornata del 15 Giugno 1861, in Carlo Matteucci, Raccolta di scritti varii intorno all’istruzione pubblica. I – Istruzione superiore, Prato, Alberghetti, 1867, p. 51-87, p. 55-56. 62 Riferimenti alle prese di posizione dei contemporanei su questo punto in Graziani, Ordinamento, p. 904-905. 63 Atti parlamentari, Senato, Discussioni, XXI legislatura, II sess. 1902-04, 18 Maggio 1904, p. 3809 (intervento del sen. Todaro). 64 Società Reale di Napoli, “Rendiconto delle tornate e dei lavori dell’Accademia di Scienze morali e politiche”, 26 (1887), passim (tornate del 3 Gennaio, 5 Febbraio, 5 Marzo, 2 Aprile, 27 Giugno). Introducendo la discussione, Bonghi aveva sottolineato la particolarità del modo italiano di nomina dei professori universitari; ma le conclusioni non furono sfavorevoli al mantenimento del concorso, anche se fortemente corretto dalla pratica di una più controllata nomina diretta. Il problema della presenza dei modelli organizzativi ed istituzionali stranieri nel confronto di idee e proposte sull’università italiana è stato di recente oggetto di alcuni studi: si veda, ad esempio, Antonio La Penna, Modello tedesco e modello francese nel dibattito sull’università italiana nella seconda metà dell’Ottocento, “Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia”, s. II, 22, n. 1 (1992), p. 227-301. 65 Concorsi universitari, articolo siglato X, “L’Unione Universitaria”, 3 (1896), p. 435-439; Nicola Fornelli, Valore scientifico e didattico del professore nei concorsi universitari, “L’Università”, 4 (1890), p. 222-228. 66 Pasquali, L’Università di domani, p. 130-136. 67 D’Ovidio, Questioni universitarie, p. 44. 68 Ministero della Pubblica istruzione, Commissione Reale per il riordinamento degli studi superiori, Relazioni e proposte. Parte I. Relazione generale (rel. prof. L. Ceci) e schema delle proposte, Roma, Tipografia operaia romana cooperativa, 1914, p. 171-183. 69 Ivi, p. 179; e Pasquali, L’Università di domani, p. 141. 70 RD 13 Febbraio 1921, n. 197; e sull’opera ministeriale di Croce si veda Giuseppe Tognon, Benedetto Croce alla Minerva. La politica scolastica italiana tra Caporetto e la marcia su Roma, Brescia, La Scuola, 1990, p. 556-589, p. 571 per il decreto sui concorsi. 71 Legge 25 Luglio 1922, n. 1147, variazioni al testo unico 1910, con marginali mutamenti negli articoli sui concorsi, nuove tabelle per i posti di professore ordinario e straordinario, e l’autorizzazione alla redazione di un nuovo testo unico. 72 RD 10 Novembre 1922, n. 1561. Commentava Pasquali: “la nomina di due su cinque commissari sarà d’or in poi affidata al Ministro: io ho molta fiducia nella rettitudine del Ministro Gentile e di chi lo circonda; ma neppure il Gentile durerà eterno, e camorra di gabinetto, cioè politica, può essere ancora peggiore che camorra universitaria” (Pasquali, L’Università di domani, p. 142). 73 Luigi Einaudi, L’Università italiana e la riforma Gentile (1923), in Id., Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925). VII (1923-24), Torino, Einaudi, 1965, p. 419-424, p. 423. 74 Ivi, p. 424. 75 RD 30 Settembre 1923, n. 2102, ordinamento dell’istruzione superiore; sulla nomina dei docenti, in particolare l’articolo 17. Sulla riforma Gentile si tengano presenti almeno, nell’insieme, le considerazioni di Gabriele Turi, Giovanni Gentile. Una biografia, Firenze, Giunti, 1995, p. 304-337; Jürgen Charnitzky, Die Schulpolitik des faschistischen Regimes in Italien (1922-1943), Tübingen, Niemeyer, 1994, p. 103-110 (sull’università); Colao, La libertà di insegnamento, p. 425-485 (ma su alcuni punti poco chiara). Per un quadro complessivo delle resistenze alla riforma si veda Opposizioni alla riforma Gentile, Torino, Quaderni del Centro studi “Carlo Trabucco”, 1985. Un profilo della politica universitaria durante il fascismo è in Giuseppe Ricuperati, Per una storia dell’università italiana da Gentile a Bottai: appunti e discussioni, in L’Università tra Otto e Novecento, p. 313-377. 76 RD 6 Aprile 1924, n. 674, in particolare gli articoli 25-31, anche per la formula del primo giuramento universitario introdotto durante il fascismo. 77 RDl 25 Settembre 1924, n. 1585, articoli 23 e 24. 78 RDl 4 Settembre 1925, n. 1604. 79 RD 31 Agosto 1933, n. 1592; per i concorsi, articoli 70-73. 80 RDl 20 Giugno 1935, n. 1071, in particolare gli articoli 5-10. 81 Sull’esclusione dei docenti ebrei dalle università italiane in seguito alle leggi razziali del 1938 si vedano ora i saggi di Roberto Finzi, Le leggi “razziali” e l’università italiana, e di Angelo Ventura, Le leggi razziali all’università di Padova, in L’Università dalle leggi razziali alla Resistenza, a cura di Angelo Ventura, Padova, CLEUP, 1996, p. 59-129, 131-204. 82 DL luogotenenziale 5 Aprile 1945, n. 238, in particolare gli articoli 3-6, 16-19. 83 Bruno Lavagnini, Vera istoria degli Am-professori, “Belfagor”, 2 (1947), p. 624-625, p. 624. 84 Ivi, p. 624-625. 85 Santoni Rugiu, Chiarissimi e Magnifici, p. 231-232. 86 Ivi, p. 230-234. La legge 22 Novembre 1954, n. 1121, ad integrazione del decreto legislativo del 7 Febbraio 1948, n. 48, consentiva ai professori ordinari prosciolti nel giudizio di epurazione di essere “incaricati di studi speciali dal ministro della pubblica istruzione con l’esonero dall’insegnamento”, o di rientrare in servizio come soprannumerari. 87 Santoni Rugiu, Chiarissimi e Magnifici, p. 235-236. 88 Luigi Einaudi, Sulle elezioni a commissari nei concorsi universitari (1952), in Id., Lo scrittoio del presidente (1948-1955), Torino, Einaudi, 1956, p. 606-607. 89 Giovanni Spadolini, Perché l’università viva, “Nuova Antologia”, 538, fasc. 2131 (1979), p. 35-45, p. 40. 90 La legge 24 Febbraio 1967, n. 62, oltre ad istituire tra il 1966-67 ed il 1970-71 1100 nuovi posti di professore universitario di ruolo riservati per nuove facoltà ed istituti di istruzione universitaria istituiti dopo il 1965, prevedeva il raddoppio dei corsi con più di 250 iscritti, ed infine abrogava l’articolo 9 del decreto legge 20 Giugno 1935, n. 1071, fissando nuovi criteri per il conferimento degli incarichi. Quanto agli incarichi gratuiti, la questione fu affrontata dalla commissione d’indagine sullo stato e sullo sviluppo della pubblica istruzione in Italia, insediata nel 1963 e composta per metà di parlamentari e per metà di esperti, e presieduta dall’onorevole Ermini, rettore dell’università di Perugia. 91 Al ruolo, che fu istituito con la legge 25 Luglio 1966 n. 585, si accedeva per concorso per titoli ed esami cui erano ammessi coloro che fossero stati ternati in concorsi a posto universitario di ruolo; i professori incaricati; i liberi docenti; gli assistenti ordinari e straordinari; i presidi e i professori ordinari di scuola secondaria di secondo grado; i ricercatori in servizio presso istituti statali o liberi o presso università e istituzioni scientifiche straniere e coloro che indipendentemente dal titolo di studio presentassero titoli scientifici sufficienti; il concorso consisteva in un esame dei titoli scientifici, in una discussione sulle pubblicazioni e in una lezione. La commissione era nominata con decreto del ministro della pubblica istruzione ed era composta di 5 o 7 membri, con criterio misto di elezione e sorteggio. L’art. 3 della legge 30 Novembre 1973 avrebbe poi consentito agli aggregati, ed ai ternati in precedenti concorsi a cattedra e non ancora assunti in servizio, di essere collocati a domanda nel ruolo dei professori universitari con la qualifica di straordinario. Nell’università italiana recente non sembrano esistere categorie immuni dall’ope legis. Del resto anche chi scrive ne ha beneficiato. 92 La testimonianza forse più evidente dell’impasse del sistema concorsuale, nella forma consolidatasi dei grandi concorsi nazionali, sta nella distanza fra le prescrizioni di legge relative alla periodicità delle prove, e la clamorosa rarefazione dei bandi. Concorsi ogni due anni, o addirittura banditi ogni anno, come avrebbe voluto la legge del 10 Febbraio 1979, per le cattedre risultate vacanti all’inizio dell’anno accademico: patetiche grida di manzoniana memoria, a coprire una realtà divenuta di fatto quasi ingovernabile. |
si tratta di uno scritto fondamentale per comprendere le dinamiche e le questioni di potere relative al sistema universitario. Segnalo a tutti il passaggio relativo al periodo precedente alla 382 del 1980. Avvenne l’introduzione del sorteggio puro per la formazione delle commissioni di concorso. Ma, superato un determinato numero di posti a concorso, la legge prevedeva il sorteggio di ulteriori commissioni. Ciò allo scopo di evitare che l’unica commissione sorteggiata avesse poteri troppo estesi. Lascio in sospeso ogni comparazione con la situazione attuale.
Stiamo quindi continuamente peggiorando