E’ tutta una lode alle “competenze”, una richiesta coram populo di politici “competenti” con cui rimpiazzare quelli che da un po’ di tempo ci governano e che sono tacciati di incapacità, imperizia, approssimatività e soprattutto di “incompetenza”; è sulle “competenze”, infine, che si vuole riplasmare la formazione scolastica e, fra poco, anche quella universitaria. Nel tripudio di gioia per il futuro governo dei competenti che verrà, traghettato da Mosé-Draghi, pochi hanno abbozzato una riflessione su cosa significa competenza e come essa sia sfuggente e difficile da trovare e praticare.
Chi è infatti “il competente”? Sono forse io competente in storia della filosofia, settore nel quale ho per oltre trent’anni insegnato all’università? Affatto: se mi domandaste un parere su Sant’Anselmo o su Aristotele, vi direi che è meglio rivolgersi a chi ha fatto studi in merito, a chi ne ha letto i testi e riflettuto su di essi con l’aiuto della letteratura critica. Al più sono competente nei quattro, cinque argomenti sui quali ho concentrato il mio interesse di ricerca, e sono un orecchiante o un conoscitore più o meno accurato di altri momenti della storia della filosofia. Insomma, non basta essere uno storico della filosofia per essere un competente su qualsiasi suo argomento; o essere un fisico, per essere un competente in tutti i suoi molteplici settori e campi, o un matematico per essere un competente in tutte le sue ramificazioni. L’ho constatato quando ho interrogato su particolari argomenti dei fisici seri, dei matematici che hanno il senso del proprio limite, degli economisti che non pretendono di dominare l’intero campo, o dei medici che non esitano a ricorrere a specialistici quando si trovano di fronte qualche patologia nella quale ritengono di non essere “competenti”.
Significa ciò che mettere per ministro dell’economia un maniscalco sia lo stesso che mettere un docente di economia all’università? Niente affatto, non è la stessa cosa. Ma, di converso, mettere come ministro dell’economia un economista che sia “puro economista” fa correre pericoli assai elevati perché il problema non è essere “competenti in economia”, ma l’essere degli uomini di cultura, avere unavisione larga e complessiva del mondo e della realtà umana, della storia e degli uomini, affinché l’economista sappia in quale contesto più ampio hanno impatto le proprie decisioni; esse, infatti, non sono opzioni meramente tecniche, per il semplice fatto di coinvolgere le molteplici dimensioni della realtà umana, che è culturale, affettiva, sociale. Solo così egli potrà non commettere gli errori cui la sola competenza potrebbe condurlo; perché, come ben diceva Cicerone, “purus grammaticus, purus asinus”.
È opportuno ricordare in merito l’episodio che vede al suo centro la cosiddetta “domanda della regina”, posta da Elisabetta II agli accademici della London School of Economics nel novembre 2008 (che tra loro hanno molti nobel dell’economia), sul perché nessuno avesse previsto l’arrivo della “orribile” crisi finanziaria globale che ha sconvolto il mondo. Solo il successivo anno, il 22 luglio, la Regina ha ricevuto una lettera dai professori della LSE Tim Besley e Peter Hennessy, in cui si cercava di dare una spiegazione della mancata previsione. Tuttavia, subito dopo, dieci importanti economisti inglesi hanno scritto a loro volta una risposta alla Regina, criticando quella dei loro colleghi. Tra i dieci v’erano accademici delle università più quotate, tre membri dell’Accademia delle Scienze Sociali, un ex membro dell’antitrust inglese e il capo degli economisti della Greater London Authority. Nello spiegare perché gli economisti non hanno previsto la grande crisi essi hanno puntato il dito sulla «carenza nella formazione o nella cultura degli economisti» e sul fatto che «negli ultimi anni l’economia si è trasformata praticamente in una branca della matematica applicata, e si è distaccata dalle istituzioni e dagli eventi del mondo reale», col pericolo – denunziato anche da una Commissione della American Economic Association – di creare, con la formazione fornita attualmente, «troppi sapientoni idioti abili nella tecnica ma inconsapevoli dei veri problemi economici». Insomma,
«la preferenza per la tecnica matematica rispetto alla sostanza del mondo reale ha distolto molti economisti dal guardare alla totalità vitale. [Questa risposta] non riesce a fare una riflessione sulla spinta a specializzarsi in aree ristrette di indagine, a scapito di qualsiasi visione sintetica. Per esempio, non considera la tipica omissione della psicologia, della filosofia o della storia economica nell’attuale formazione degli economisti in istituzioni prestigiose. […] Ciò che è mancata è una saggezza professionale informata da una ricca conoscenza della psicologia, delle strutture istituzionali e dei precedenti storici. […] Crediamo che la formazione ristretta degli economisti – che si concentra sulle tecniche matematiche e sulla costruzione di modelli formali empiricamente incontrollati – sia stata una delle ragioni principali di questo fallimento della nostra professione.».
Tale discorso potrebbe essere fatto per molti altri “competenti”: per gli ingegneri che progettano strade e ponti o autostrade telematiche, per i biologi, per i virologi; ma anche per chi ha una formazione prevalentemente o esclusivamente umanistica. Una volta la necessaria integrazione e la visione complessiva nei vari mondi della conoscenza umana (scientifici e umanistici) era fornita da una dura e approfondita preparazione che veniva fatta nei licei (specie quello classico, dal quale non a caso proveniva gran parte della classe dirigente) e che quindi veniva conservata e mantenuta come un sottofondo costante anche nel corso della formazione universitaria. E non è un caso che la grande scienza che ha trasformato il mondo (quella dei Bohr e degli Einstein, quella non “normale”), era portata avanti da persone che si erano formate in università dove, accanto ai corsi di fisica, era possibile seguire anche quelli di filosofia (come è avvenuto appunto ad Heisenberg). Ma oggi, con il generale abbassamento della qualità degli studi (innanzi tutto superiori), con l’idea che nelle scuole sono da insegnare le “competenze” e non trasmettere cultura, con le università che si sono progressivamente liceizzate e dove ormai la qualità viene tutta messa a carico della didattica e non più dei contenuti trasmessi, siamo di fronte a una classe politica che può ben essere “competente” (c’è qualcuno che ha fatto notare come tra i 5 Stelle ci sia il più alto tasso di laureati di tutti gli altri gruppi politici), ma che è profondamente, radicalmente “ignorante”, perché della cultura conosce solo il proprio ambito specialistico, solo le proprie “competenze”, mentre in altri campi è poco più di un infante che ancora balbetta.
Solo chi è dotato di una solida, maturata cultura nei vari ambiti della conoscenza umana – in storia, letteratura, diritto, filosofia, sociologia, ma anche matematica e scienze applicate – può avere quella elasticità mentale per sapere destreggiarsi, per avere l’intuito di scegliere ove necessario i veri “competenti” del settore interessato e di capire quando ha a che fare con acchiappanuvole: ha infatti esercitato quel necessario discernimento critico, quell’arte del dubbio e dell’analisi, quella “sapienza degli uomini e delle cose”, che lo mettono al riparo dai facili imbonitori. Perché non è necessario essere un Toscanini per capire se un’esecuzione è ben fatta o ci sono delle stonature, né essere De Sanctis per apprezzare una bella poesia.
Un “uomo colto” è dotato dei necessari strumenti critici per approfondire un certo ambito in partenza a lui estraneo, per fornirsi di esso la competenza necessaria per operare meditate scelte politiche (non certo per diventare esso stesso uno specialista) o per scegliersi i competenti che gli sanno dare buoni consigli; il viceversa è più difficile, perché spesso un “competente” non è in grado di uscire dalla ristrettezza del proprio campo ed è tentato ad applicarne le formule e i modelli anche laddove essi sono fuori posto. Purtroppo l’attuale classe politica non difetta (come si sente ripetere a piè spinto da giornalisti e opinionisti, questi sì non solo incompetenti, ma anche ignoranti) per le proprie “competenze”, ma soprattutto per cultura. Ma questo è un danno, causato dagli ultimi decenni di gestione della formazione in Italia, assai difficile da riparare.
Gent.mo prof. Coniglione, penso che uno dei punti più interessanti che abbia sollevato sia quello della confusione tra tecnica e competenza.
Essere tecnicamente preparati è una condizione necessaria ma non sufficiente per essere competenti. Nel casi di un Governo, la conoscenza tecnica (ottima per differenziare gli approcci pratici alla risoluzione dei problemi, perché un linguista, un ingegnere ed un medico approcceranno lo stesso problema in maniera diversa grazie ai loro diversi background) deve essere affiancata a spiccate e comprovate doti manageriali in ambito pubblico (gestire la cosa pubblica non è come gestire una impresa privata) ed una curiosità innata che spinga a crearsi quella cultura umanistica di cui lei faceva cenno (cultura cioè ad ampio spettro, che abbraccia sia materie sociali, economiche e letterarie, sia la matematica e le scienze).
Si grida però ora alla competenza, perché dell’improvvisazione e dell’incompetenza purtroppo ci si è fatti per decenni vanto. Questo anche grazie ad una innata refrattarietà mediterranea nei confronti della persona che mostra doti migliori delle tue. Si vuole arrivare in alto, ma non se ne vuole pagare il prezzo.
D’altro canto proprio dall’Università viene il rischio dei super-tecnici. Come origine provengo per l’appunto da un dipartimento di super tecnici (informatici), che hanno sempre dimostrato una forte chiusura nei confronti del “diverso”. Questo ha portato ad uno svuotamento progressivo anche della parte di ricerca, perché la mancanza della capacità di generale curiosità per la “cosa diversa” li ha bloccati in una verticalizzazione così spinta da non intercettare il cambiamento nel loro stesso dominio.
Quindi ben vengano degli umanisti (veri) al governo, con una solida cultura, ma con capacità tecniche e manageriali adeguate.
Mi sa che lei ha “colto” nel segno. La colpa è nostra … dei prof.
Se oggi non fai la lezioncina tecnica ben fatta sul programmino, se provi a dire il programma lo studiate da soli mentre io vi parlo e discuto con voi degli ultimi progressi della disciplina e di dove va la ricerca rischi di ricevere un rimprovero dal presidente del corso di laurea …
Caro Ernest,
diciamo che non è tutta colpa dei professori, ma gli esempi venivano da uno degli ambienti che meglio conosco.
In realtà si può fare di più della lezioncina. Per anni ho tenuto un corso di Strategie Aziendale e Gestione dell’Innovazione nel quale i ragazzi dovevano cimentarsi con la realizzazione di una vera strategia per una vera azienda. Dal 2016 in particolare i ragazzi erano inseriti nell’Amazon Innovation Award, che permetteva loro non solo di sottoporre una vera strategia, ma di essere valutati da manager di alto livello. Il problema è che fare il corso con lezioncine e crocette o così è sempre la stessa cosa. Nel mio caso significava bloccare per un semestre non solo il sottoscritto, ma anche due miei collaboratori. Ma sempre fatto sempre con gioia.
Altra cosa. Spesso sento che un professore va valutato nel suo complesso e che può esserci un docente bravo a far didattica ma che quindi non ha tempo per far ricerca. Ebbene: mai conosciuto uno (anche tra i colleghi all’estero). Tutti quelli che conosco che fanno didattica innovativa (se gliela fanno fare, ovviamente), fanno anche ricerca di eccellenza ed hanno contratti e ruoli istituzionali (anche fuori Ateneo). Diverse di queste persone, se non membri dei “gruppi forti” rimangono associato per lungo tempo (se ci diventano), mentre persone con curricula se non altro meno impattanti gli passano davanti. Forse perché se li fai passare ad ordinario corri il rischio che si guardino attorno e dicano chi me lo fa fare. Mi direte che basta vincere i concorsi. Magari te li devono anche fare. Nel mio caso non c’è un concorso da ordinario nel mio settore da almeno 15 anni. Stessa cosa per quelli da associato (prima del mio).
Ma “non ragioniam di lor, ma guarda e passa”.
La competenza è necessaria: conoscere e saper fare. Poi è necessari anche la curiositas, l’amore e il coraggio della sperimentazione… Se ci danno modo di essere noi stessi, cioè ricercatori, potremo dare un grande contributo al nostro paese, nel piccolo dei nostri studi, nel grande che sono le nuove tecnologie e media…
@Guido … Le realtà sono tante e i particolari diversi. Una cosa è comune: bisogna essere orgogliosi di essere prof che fanno ricerca e didattica e bisogna farsi carico di difendere la dignità dell’università in tutte le realtà. Il resto viene da sé, se c’è orgoglio e dignità.
@Ernest. La dignità viene anche e soprattutto dal rispetto. Purtroppo nei nostri atenei il rispetto è spesso dipendente dal “colore della pelle” (leggi SSD). Io l’ho provato sulla mia pelle, con una vera e propria ghettizzazione da parte dell’SSD maggioritario del dipartimento. Mi dissero che quella era la volontà della maggioranza, che questa è la democrazia e l’errore era che persone come me (sempre leggi SSD) fossero nel dipartimento. Insomma ringrazia ancora che ti permettiamo di esistere. Esito? Ho deciso che non ne valeva la pena e faccio altro, perché grazie al cielo io posso. Molti altri no. Il Dipartimento “democratico”? Uno dei peggiori dipartimenti per ricerca secondo la VQR in Italia (e la VQR ha tanti difetti, ma una indicazione di chi sei te la da, come gruppo). Mi spiace, ma mi sono arreso alla volontà del popolino universitario, perché ero e sono un servitore dello stato, ma non sono servo di nessuno.
So che non è il tema dell’articolo, ma i 5 stelle non mi sembrano il gruppo con il maggiore tasso di laureati.
Ho dato un’occhiata ai numeri dei Parlamentari, non so se in Senato le cose cambino.
Sul sito del Parlamento: https://www.camera.it/leg18/564?tiposezione=C&sezione=1&tabella=C_1_5 con il loro 23% sembrerebbe… ma questo numero deriva dal fatto che è la percentuale di laureati dei 5 stelle rapportata alla numerosità totale del Parlamento (190 su 629), se guardiamo invece le percentuali all’interno di ogni partito con il suo 76% (144 su 190) i 5 stelle sono al quarto posto, nel mucchio, classifica: LeU, Misto, IV, M5S, FI, PD, FDI, Lega. Poi se vogliamo essere pignoli i 5 stelle sono senza dubbio i più giovani del mucchio (https://www.camera.it/leg18/564?tiposezione=C&sezione=1&tabella=C_1_7) e le nuove generazioni prendono più frequentemente la Laurea rispetto alle vecchie (https://www.istat.it/it/files//2019/03/cap_7.pdf, pag. 349) quindi se correggessimo per l’età nella classifica potremmo avere qualche altro spostamento (con probabile peggioramento dei 5 stelle e miglioramento dei vecchiarelli di FI e PD). Certo anche il fatto che alcuni gruppi sono piccoli dovrebbe poi essere tenuto in considerazione nel pensare alla validità di simili ragionamenti…
Concludendo questa analisi, molto qualitativa, solo la Lega e il Misto spiccano con il loro 56% e 82% rispetto ad una media del Parlamento del 70%. Quindi forse potremmo dire che più studi più scappi dai Partiti e che la Lega preferisce fare invece che studiare… Oppure che a dispetto di tanti luoghi comuni la Laurea sia pur sempre un buon investimento per sperare in un bel lavoro dove guadagnare bene (si raccomanda la Laurea in Giurisprudenza https://www.camera.it/leg18/564?tiposezione=C&sezione=1&tabella=C_1_4 :))))
La Messa è finita andate in pace
Diciamo che si vede che non si applicano troppo. Domanda: perché li paghiamo se quando le cose si fanno difficili dobbiamo chiamare i competenti?
Quando avevo letto il titolo col plurale “le competenze” avevo pensato a un post sulla “nuova S finale” di ROARS (la Scuola, sulla cui inclusione non sono stato troppo d’accordo), dove so che il termine viene usato (in un modo che non ho mai ben capito).
Ma qui si parla di “competenza” al singolare. Che puo’ essere una competenza specifica settoriale (e qui ognuno di noi sa di essere incompente in tante sottodiscipline della propria disciplina), ma anche una competenza generale (nell’esempio del medico che si rivolge a colleghi specialisti piu’ competenti, capira’ la risposta – e sapra’ fare le domande – meglio di un fisico come me, piuttosto meglio di una persona con la quinta elementare come era mia madre, che pero’ leggeva e sapeva informarsi e diceva di essere “incolta non ignorante”, decisamente meglio di un ignorante che si vanta della propria ignoranza). D’accordo poi sulla distinzione tra competenza e cultura, e ci aggiungerei anche “visione di sistema”.
Dopo di che sui politici o meno o sui neo-ministri … mi ha lasciato piu’ perplesso che preoccupato Cingolani (mi avrebbe preoccupato se lo avessero messo al MIUR, e mi ri-preoccupa Brunetta alla PA) ma visto che “conosce la termodinamica” dove lo hanno messo forse va bene (non so se abbia “vested interests”) … o quanto meno meglio di uno che crede alle scie chimiche. Non che tutti i cinquestelle siano necessariamente del tipo … il vicepresidente della commissione cultura della Camera della precedente legislatura aveva fatto un buon lavoro nell’indagine conoscitiva sugli enti di ricerca, materia in cui per la sua provenienza era sicuramente competente (pero’ o se ne e’ andato o l’hanno espulso quasi subito),