Sono ormai passati oltre 10 anni dalla riforma dell’università italiana nota come legge Gelmini (L. 240/2010). Essa ha dispiegato pienamente i suoi effetti, modificando in modo profondo il funzionamento del sistema universitario italiano. Ci sono ormai diversi elementi fattuali e analisi che permettono di tentare un bilancio degli effetti della riforma. In particolare ci sono ormai dati ed analisi che permettono di mettere nella giusta luce critica la ‘storia’ ufficiale della riforma Gelmini e dei suoi effetti.

La preparazione.

La riforma Gelmini fu preceduta da una campagna di stampa che preparò il terreno all’accoglimento della legge. Almeno a partire dal 2005 iniziarono a susseguirsi nei maggiori quotidiani italiani articoli che dipingevano l’università italiana come ostaggio di una corporazione di baroni schierati a difesa di professori assenteisti (Petrovich, 2022). Nel 2006, l’allora ministro dell’università e della ricerca Fabio Mussi (Partito Democratico della Sinistra) dichiarava in una intervista che “l’università è un bordello” (QN, 20/09/2006) annunciando prossimi provvedimenti per modificare la governance delle università e introdurre la “valutazione del merito”. Due anni dopo, su il Tempo Silvio Berlusconi si scagliava contro i privilegi e gli sprechi annunciando: “basta baroni all’università” (06/11/2008). A fare da background alla discussione pubblica c’era un fiorente filone di letteratura, dedicata in gran parte agli scandali nei concorsi (Carlucci & Castaldo, 2009). In questa letteratura l’università italiana veniva variamente aggettivata: “università dei tre tradimenti” (Simone, 2000), era “malata e denigrata” (Regini, 2009), “truccata” (Perotti, 2008), “in declino” (Monti, 2007), “irriformabile” (Gagliarducci et al., 2005). Il libro di Andrea Graziosi L’università per tutti sintetizza in modo esemplare lo stato della discussione dell’epoca, adottando in maniera del tutto acritica l’apparato retorico, ideologico e “fattuale” a disposizione dei ‘riformatori’ (Graziosi, 2010).

L’asse portante della discussione è sintetizzato esemplarmente da una frase di Perotti: “l’Università italiana non ha un ruolo significativo nel panorama della ricerca mondiale”. Questa affermazione veniva giustificata  in prima battuta con il fatto che nei ranking mondiali le università italiane non avevano mai posizioni preminenti. L’affermazione si scontrava però con un problema di evidenze empiriche: i dati sulle pubblicazioni da sempre mettevano l’Italia al settimo/ottavo posto al mondo per produzione scientifica. Assolombarda nel 2008 trovò la soluzione, creando un nuovo indicatore che per qualche anno fu utilizzato spesso nella discussione pubblica italiana: il numero di pubblicazioni per abitante. Con questo indicatore l’Italia scivolava molto indietro nelle classifiche mondiali. Seguendo il suggerimento di Assolombarda si iniziarono a commentare indicatori citazionali variamente modificati per mostrare che la produzione scientifica italiana, pur consistente quantitativamente, fosse poco autorevole, perché poco citata. Cominciò a farsi strada l’idea che l’università italiana fosse in declino e che ci fossero “numeri da cambiare”, come intitolava un volumetto la Fondazione Treelle.

In realtà molte voci si levarono a sostenere che il problema principale dell’università e della ricerca italiana fosse la mancanza di finanziamenti adeguati (Bertini et al., 2008): i dati per i paesi OCSE vedevano infatti l’Italia agli ultimi posti per ammontare complessivo dei finanziamenti alle università. A chi chiedeva più fondi, si rispose con la metafora del “secchio bucato”: era inutile aumentare i finanziamenti ad un sistema universitario inefficiente e impregnato di malaffare e nepotismo. Ignazio Marino, all’epoca senatore del Partito Democratico, scriveva in una lettera a Nature che la soluzione ai problemi dell’università non era aumentare i fondi, ma “riformare i criteri per la distribuzione dei finanziamenti” introducendo elementi di “meritocrazia” (Marino, 2008). Ancora una volta la posizione più netta fu quella di Perotti che sostenne che non era vero che l’Università fosse sottofinanziata. Per farlo modificò un grafico OCSE, introducendo una correzione per il dato italiano e lasciando inalterati i dati di tutti gli altri paese, che gli servì per affermare che l’Italia era uno dei paesi con la più elevata spesa per studente universitario.

La legge Gelmini era state preceduta da tre interventi che tracciavano chiaramente una linea di politica universitaria condivisa dalle maggioranze e dalle opposizioni che si susseguirono alla guida del paese. Il primo fu la L. 4 novembre 2005 n. 2003, Ministro dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca Letizia Moratti (governo Berlusconi II) che metteva ad esaurimento il ruolo dei ricercatori universitari a tempo indeterminato. Il secondo intervento nel 2006 fu la costituzione l’ANVUR (Agenzia Nazionale di Valutazione del sistema Universitario e della Ricerca), voluta dal ministro Fabio Mussi (Governo Prodi). Il regolamento di funzionamento dell’agenzia ebbe una storia travagliata e ANVUR fu pronta a diventare operativa soltanto nel giugno 2010, con la ministra Gelmini. Il terzo intervento fu il DL 10/11/2008 recante “Disposizioni urgenti per il diritto allo studio, la valorizzazione del merito e la qualita’ del sistema universitario e della ricerca” firmato dal ministro Giulio Tremonti (Governo Berlusconi IV), dove si introduceva la “quota premiale del Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO)” e si legavano gli scatti stipendiali dei docenti alle loro pubblicazioni scientifiche. Si trattava del primo provvedimento che introduceva un meccanismo di finanziamento basato sulle prestazioni (performance based funding) nella legislazione italiana. Questo provvedimento era il punto qualificante del programma elettorale del Partito Democratico guidato da Walter Veltroni nelle elezioni del 2008, vinte dalla coalizione guidata da Silvio Berlusconi.

In questo clima, complessivamente favorevole ad una riforma dell’ordinamento universitario in grado di sottrarre alla “autoreferenziale” casta degli accademici il governo degli atenei, si inserisce la legge Gelmini ed i regolamenti attuativi successivi.

La riforma Gelmini e i provvedimenti successivi.

Quota premiale del Fondo di Finanziamento Ordinario, ANVUR e revisione profonda del meccanismo di reclutamento e progressione di carriera dei professori universitari sono gli elementi chiave della Riforma Gelmini. A questi si accompagnò una revisione della governance degli Atenei che ha accresciuto la centralità del Rettore e dei consigli di amministrazione (Battini, 2011).

Con l’introduzione della quota premiale una parte, crescente nel tempo, del FFO per le università italiane viene ripartita sulla base di indicatori di performance nella ricerca e, parzialmente, nella didattica. La logica è che le università debbano competere per assicurarsi fette più grandi della torta del FFO. Dal 2009 il FFO comincia progressivamente a restringersi: tra il 2008 e il 2019 il FFO passa infatti da 8 a 6,2 miliardi di € (a prezzi costanti), con una riduzione di oltre il 20%. Nel frattempo, la parte premiale sale dal 7% al 30%.  Buona parte della quota premiale verrà distribuita agli atenei sulla base dei risultati degli esercizi periodici VQR (Valutazione della Qualità della Ricerca) realizzati da ANVUR che rappresentano una “fotografia” dello stato di salute dell’università italiana. La competizione tra atenei, da questo punto di vista, significa miglioramento della quantità e della qualità della ricerca prodotta, misurate sulla base degli algoritmi bibliometrici sviluppati da ANVUR.

La legge Gelmini istituisce l’Abilitazione Scientifica Nazionale che inserisce un “filtro oggettivo” per verificare la qualificazione degli aspiranti professori universitari. Non sarà più possibile diventare professori o fare carriera solo in virtù della fedeltà dimostrata al proprio “maestro”, perché per avere l’abilitazione si dovranno superare alcune soglie quantitative “oggettive” che indicano la produttività e la qualità scientifica del lavoro di ricerca degli aspiranti professori. Queste soglie sono fissate da ANVUR sulla base di “freddi” algoritmi e dati bibliometrici per ogni settore concorsuale.  Non basta essere abilitati: per essere assunti gli abilitati dovranno vincere un concorso bandito dai singoli atenei; analogamente per passare dal ruolo di professore associato a quello di ordinario non basta l’abilitazione, ma si dovrà anche in questo caso vincere un concorso.

I giovani che aspirino ad entrare nel mondo dell’università devono passare attraverso lunghi anni di prova, occupando posizioni a tempo determinato, cui si accede per concorso, caratterizzate da diversi gradi di flessibilità e diversi stipendi: assegno di ricerca (durata 1 anno rinnovabile, senza orari, malattie, ferie, etc.), ricercatore a tempo determinato di tipo A (3+2 anni), e ricercatore a tempo determinato di tipo B. Solo per il ricercatore di tipo B è previsto, dopo un periodo di 3 anni, il passaggio al ruolo a tempo indeterminato dei professori associati, previa acquisizione dell’abilitazione scientifica nazionale.

ANVUR assume una posizione centrale nel disegno della legge Gelmini, ma la sua configurazione non è sostanzialmente diversa da quella disegnata a suo tempo dal Ministro Mussi. Si tratta di una agenzia “indipendente”, governata da un consiglio direttivo di 7 membri di nomina ministeriale, scelti con un processo di selezione con una presenza robusta della supervisione del ministro. Ad ANVUR sono assegnate competenze non solo sulla valutazione della ricerca, ma anche sulla assicurazione di qualità nei percorsi universitari, sulla definizione delle soglie per poter accedere alla abilitazione scientifica nazionale.

Nel 2011 ANVUR iniziò il primo esercizio di Valutazione della Qualità della ricerca (2004-2010) che sarà seguito da un secondo esercizio (2011-2014) nel 2015 e da un terzo (2015-2019) nel 2019. Ispirati al modello inglese, gli esercizi italiani se ne discostano per il ruolo preponderante che vi assumono gli indicatori quantitativi. I risultati della valutazione della ricerca sono utilizzati per la distribuzione della quota premiale del FFO.

Con la Legge n. 232 dell’11 dicembre 2016, il governo guidato da Matteo Renzi, ministra del MIUR Valeria Fedeli, rafforzò il maccanismo di finanziamento basato sui risultati con la creazione della “gara” per i dipartimenti di eccellenza. A partire dai dati della VQR un algoritmo selezionò i 350 migliori dipartimenti d’Italia che furono chiamati a scrivere un progetto di sviluppo. Sulla base dei risultati dell’algoritmo e di un giudizio sul progetto di sviluppo da parte di una commissione di nomina ministeriale, vennero selezionati i migliori 180 dipartimenti che si divisero una fetta consistente di finanziamento pari a € 1,3 miliardi per 5 anni. Con la stessa legge venne istituito altresì un “Fondo di finanziamento della attività di ricerca di base” rivolto ai ricercatori di tipo A e di tipo B e ai professori associati. Tale fondo prevedeva l’assegnazione individuale di 3.000€ ai migliori 15.000 ricercatori, classificati sulla base di un indicatore di produzione scientifica calcolato da ANVUR.

Gli effetti della riforma: il miracolo italiano.

Il ruolo centrale della valutazione nel processo di riforma dell’università italiana è sintetizzato da Graziosi, all’epoca presidente del consiglio direttivo di ANVUR, in una intervista a Il Sole24ore (9 maggio 2016). Secondo Graziosi, con la legge Gelmini “la valutazione della ricerca è entrata nella vita ordinaria delle università italiane. Come spesso accade nel nostro paese, l’innovazione arriva in ritardo rispetto ad altri sistemi nazionale.  […] La valutazione può essere un’operazione di verità che permette all’università di prendere atto dei suoi pregi e difetti e di evidenziare sacche di malcostume”. In ogni caso la valutazione fa bene all’università perché “la valutazione migliora l’università” (A. Graziosi, Intervista a Il sole 24 ore, 9 maggio 2016)

Il documento che contiene la “storia ufficiale” e sintetizza i miglioramenti intercorsi a seguito delle riforme è il secondo Rapporto Biennale sullo Stato dell’Università Italiana, redatto da ANVUR nel 2018 (ANVUR, 2018). Vi si riconosce che l’Italia spende poco per ricerca, che le entrate delle università italiane sono diminuite, che tutte le voci di finanziamento si sono ridotte. Questa riduzione non si è accompagnata a una sperequazione territoriale del finanziamento: anzi la quota di risorse destinate al Sud, considerato che al Sud sono diminuiti gli studenti, è addirittura cresciuta grazie alla parte premiale del FFO.  Dal punto di vista dei risultati nella didattica, i tassi di abbandono si sono ridotti in tutte le aree del paese, sia per le lauree triennali, che per le lauree a ciclo unico e le lauree magistrali. La quota di laureati regolari cresce in tutte le aree del paese, anche se nel sud del paese, questa quota continua a essere più piccola. Per quanto riguarda la produzione scientifica, nel Rapporto  si legge che “la crescita della produzione scientifica italiana è stata soprattutto nel decennio in corso superiore alla media mondiale”. Il miglioramento non è stato solo quantitativo, ma anche “qualitativo”: “La posizione dell’Italia della ricerca è oggi, grazie ai miglioramenti registrati negli ultimi 15 anni, migliore rispetto a quella di grandi paesi come Francia e Germania”. Addirittura, la produttività scientifica italiana sopravanza quella di Francia e Germania.

In effetti anche osservatori esterni hanno notato la crescita della produzione scientifica italiana. In un rapporto del 2016 il governo britannico si preoccupava del possibile sorpasso dell’Italia nei confronti del Regno Unito in termini di produttività scientifica e impatto normalizzato della ricerca (Elsevier, 2017). I dati del 2020 mostrano che l’Italia ha ormai superato per impatto citazionale normalizzato Francia, Canada, Germania e Stati Uniti, ed ha raggiunto in vetta alla classifica il Regno Unito (Department for Business, 2022).

A questo proposito non sarebbe errato parlare di un “miracolo italiano”: la riduzione delle risorse a disposizione, associata a rigidi meccanismi di valutazione, ha fatto recuperare efficienza al sistema universitario che è tornato al posto che gli spetta nella classifica della ricchezza scientifica delle nazioni.

Gli effetti della riforma: il falso miracolo italiano.

Ci sono molti elementi della storia ufficiale che non convincono, ed ormai c’è una discreta letteratura in grado di documentare fenomeni che non si trovano nei rapporti ANVUR e che la storia ufficiale rimuove o tende a minimizzare.

Partiamo dalla preparazione alla riforma. Cosa c’è di vero nell’idea che verso il 2005 l’università italiana produceva poca ricerca e di mediocre qualità, che l’università italiana aveva una spesa per studente tra le più elevate al mondo?

David King nel 2004 mostrava che il posizionamento dell’Italia in termini di produzione scientifica e impatto era del tutto congruo con il suo ruolo di nazione del G10 (King, 2004). Le statistiche sulla produzione scientifica e sull’impatto sono tutte concordi nell’attribuire all’Italia un posizionamento stabile come settima/ottava potenza mondiale. Ancora King documentava che l’Italia era il terzo paese al mondo per produttività scientifica e citazioni per ricercatore, dietro Regno Unito e Canada. L’indicatore proposto da Assolombarda, le “pubblicazioni per abitante”, non ha varcato i confini del dibattito italiano. Prima di essere completamente dimenticato, quell’indicatore fu usato ancora nel 2011 da Daraio e Moed per denunciare il declino della ricerca italiana nel 2009 (Daraio & Moed, 2011). A quell’articolo alcuni giornali dedicarono ampio spazio, ma il “declino” si rivelò un banale errore di interpretazione di dati bibliometrici non consolidati.

Per quanto riguarda la spesa per studente, Perotti riuscì a convincere gli economisti de La Voce e Andrea Graziosi che la sua “normalizzazione” fosse corretta. Non convinse però l’OCSE a rivedere le modalità di calcolo dei dati comparativi sulla spesa per istruzione terziaria per studente, che ha continuato a pubblicare annualmente i suoi rapporti Education at a Glance che invariabilmente vedono l’Italia nelle ultimissime posizioni della classifica. Ormai pare conoscenza comune, certificata anche dal Rapporto ANVUR che prima della legge Gelmini l’università italiana fosse sottofinanziata e che negli anni successivi i finanziamenti furono drasticamente ridotti.

Più controversa appare la questione degli effetti derivanti dall’introduzione della quota premiale nella ripartizione delle risorse, che si intreccia alla progressiva messa a regime della ripartizione sulla base costo-standard per studente. Non è difficile mostrare che la quota premiale distribuita sulla base dei risultati VQR si ripartisce di fatto in proporzione alla dimensione degli atenei, misurata in termini di numero di professori. Analogo ragionamento vale per il costo-standard. Questa debolezza della quota premiale e del costo standard nel riuscire a ripartire i finanziamenti in modo “premiale” è la ragione che probabilmente spinse il governo di Matteo Renzi a introdurre i Dipartimenti di eccellenza. Questi ultimi infatti fanno sì che il finanziamento si discosti fortemente da una distribuzione proporzionale alla dimensione, concentrando le risorse su (pochi) atenei del Nord, e penalizzando tutte le altre aree del paese.

La modificazione del sistema complessivo di finanziamento, ed in particolare i dipartimenti di eccellenza, hanno determinato il fenomeno che Gianfranco Viesti ha chiamato la “compressione selettiva e cumulativa” dell’università (Viesti, 2016). In particolare per gli anni 2015-2020 si è verificata una redistribuzione del FFO dalle università del Centro-Sud e Isole verso gli atenei del Nord. Gli atenei del Sud svuotati di risorse, nel frattempo perdono studenti: gli studenti residenti al Sud tendono ad immatricolarsi nelle università del Nord. Una recentissima nota SVIMEZ mostra che il numero di immatricolati residenti al Sud non è ancora tornato ai livelli del 2008; e sottolinea che un quarto degli immatricolati del Sud si sposta verso università del Centro-Nord. Al Sud restano gli studenti con redditi più bassi, che pagano tasse universitarie meno elevate e, per l’operare dei meccanismi di ripartizione, fanno ridurre il FFO alle università del Sud.

Ci sono altri due fenomeni che la storia ufficiale tende a porre in secondo piano o non discutere affatto. Il primo è la precarizzazione del personale universitario. Tra 2011 e 2020 l’ammontare complessivo del personale docente e ricercatore è rimasto invariato; ma nel periodo si è assistito alla sostituzione di personale a tempo indeterminato con personale con contratti a tempo determinato, in particolare assegni di ricerca e ricercatori a tempo determinato. Nel 2010 nell’università lavoravano circa 58 mila professori e ricercatori a tempo indeterminato e 13 mila assegnisti di ricerca per un totale di circa 71 unità di personale. Nel 2020 il totale è invariato, ma il personale a tempo indeterminato si è ridotto a 46 mila unità, cui si affiancano quasi 10 mila ricercatori a tempo determinato e 15.500 assegnisti di ricerca. La quota di precari dell’università è così passata dal 18% al 35% del personale.

Il secondo è la “fuga dei cervelli”. Nel rapporto sulle migrazioni del 2023, l’ISTAT documenta che il numero di laureati tra i 25 e i 34 anni che lascia il paese è sestuplicato, da oltre 5 mila a quasi 35 mila tra 2012 e 2020. Nel 2020 i laureati rappresentavano circa il 45% di tutti gli espatriati in fascia di età tra i 25 e i 34 anni. Alle uscite non fa riscontro un simile flusso in ingresso per cui il saldo migratorio netto di giovani è pesantemente negativo.

La storia ufficiale tende a rimuovere anche il tema dei concorsi. Se dobbiamo giudicare dalla discussione pubblica, le riforme non hanno certo risolto il problema: libri, giornali, inchieste televisive e le inchieste della magistratura danno un quadro non dissimile da quello che emergeva negli anni precedenti la riforma Gelmini.

L’università e la ricerca italiana tramite ANVUR sono state sottoposte a procedure capillari di valutazione bibliometrica di stato, ‘individuali’ (ASN, FFABR etc.) e ‘collettive’ (VQR). Questo ha determinato una modificazione profonda dei comportamenti individuali e collettivi. Anche in questo caso, esiste ormai evidenza aneddotica e una sorta di sapere condiviso relativamente alle cattive pratiche di pubblicazione e citazione adottate dai ricercatori italiani. Nel 2019 con Giuseppe De Nicolao ed Eugenio Petrovich in un articolo intitolato “Citation gaming induced by bibliometric evaluation: A country-level comparative analysis” (Baccini et al., 2019) siamo riusciti a mostrare come la crescita dell’impatto scientifico dell’Italia sia dovuta ad un massiccio cambiamento nazionale nelle abitudini di citazione dopo la riforma del 2010.

L’ipotesi di partenza del lavoro è la seguente: in Italia avere un elevato numero di citazioni è necessario per superare le soglie ed aspirare ad ottenere l’abilitazione scientifica nazionale.  In un sistema come questo, i ricercatori sono portati a adottare strategie di citazione in grado di accrescere i propri indicatori. Il modo più semplice è quello di autocitarsi e magari farsi citare dai propri collaboratori. Per verificare questo abbiamo costruito un indice di autoreferenzialità nazionale nella ricerca che misura quanto i vari paesi citano se stessi nella propria letteratura scientifica. Abbiamo chiamato questo indicatore, calcolato su base annuale, “inwardness”: è definito come il rapporto tra il numero totale di autocitazioni di un paese e il numero totale di citazioni ricevute da quel paese. L’indicatore è in grado di tracciare non solo le autocitazioni dei singoli autori, ma anche i club di citazione intra-nazionali, cioè gruppi di autori che si citano mutuamente.  Abbiamo quindi confrontato l’andamento dell’indicatore nel tempo per l’Italia, con gli andamenti degli altri paesi del G10. I risultati indicano in modo inequivoco che in Italia, dopo il 2009, l’autoreferenzialità citazionale è cresciuta nella maggior parte dei campi scientifici; una tendenza unica tra i paesi del G10. Nel 2016 l’Italia è diventata – sia a livello complessivo che per la grande maggioranza dei campi di ricerca – il secondo paese con più alta autoreferenzialità citazionale. Solo gli Stati Uniti hanno un’autoreferenzialità strutturalmente più alta, spiegabile però con la leadership scientifica di quel paese.

Il valore dell’indicatore dipende dalle collaborazioni internazionali di un paese, cioè dal numero di pubblicazioni scritte da italiani con coautori stranieri. Quindi una delle obiezioni possibili è che l’aumento dell’autoreferenzialità nasconda in effetti un aumento del grado di internazionalizzazione della scienza italiana. I dati mostrano che l’Italia non cresce molto in collaborazioni internazionali, a fine periodo continua ad essere il paese del G10 con la seconda minore quota di pubblicazioni internazionali.

Un’altra possibile obiezione è che la crescita delle autocitazioni italiane sia dovuta ad un effetto “leadership”: la scienza italiana si autocita di più perché ha guadagnato in questi anni una posizione di preminenza nel panorama scientifico internazionale. Se questo fosse vero la crescita delle autocitazioni sarebbe accompagnata da una crescita delle citazioni provenienti da altri paesi. In realtà se guardiamo le citazioni provenienti da altri paesi l’Italia passa dalla penultima alla terzultima poszione nei paesi del G10.

Le Monde (29.09.2019) ha intitolato l’articolo dedicato al nostro lavoro “Il falso miracolo italiano” (“Le faux miracle italien”); Nature (13.09.2019) ha parlato di citation doping (“Italy’s rise in citation impact pinned on citation doping”).  Il nostro lavoro, insieme ad altri usciti nel frattempo, mostra che la comunità scientifica italiana ha iniziato a giocare complessivamente con le regole. In particolare, ha fatto ricorso massiccio alle autocitazioni per migliorare i propri indici in vista di premi, assunzioni e promozioni.

In un lavoro recente, appena uscito come preprint, con Eugenio Petrovich abbiamo osservato l’andamento delle autocitazioni nazionali per 50 paesi nel periodo 1996-2019. Con opportune tecniche statistiche abbiamo individuato paesi con comportamenti standard e con comportamenti anomali in riferimento a due indicatori diversi di autocitazioni. Il risultato per entrambi gli indicatori è che l’Italia si conferma un paese anomalo, unico tra quelli del G10. Con l’Italia risultano anomali Arabia Saudita, Colombia, Egitto, Federazione Russa, Indonesia, Iran, Pakistan, Romania, Tailandia e Ucraina. Si tratta di paesi “in ritardo” sullo sviluppo scientifico che hanno adottato negli ultimi 15 anni politiche della ricerca aggressive mirate a scalare le classifiche internazionali.

Ultima, ma non per importanza, la questione delle frodi scientifiche. Uno dei modi per osservare la diffusione delle frodi scientifiche è considerare l’incidenza delle ritrattazioni sulle pubblicazioni di un paese. Una ritrattazione di una pubblicazione scientifica è una dichiarazione pubblica indicante che quella pubblicazione non avrebbe dovuto essere pubblicata e che l’informazione contenuta in essa non deve essere ritenuta valida e utilizzata per ricerche future. L’Italia è, con la Germania, il paese dell’Unione Europea con la più elevata incidenza di ritrattazioni (Marco-Cuenca et al., 2021). I dati di Retraction Watch mostrano un’andamento crescente del numero di ritrattazioni italiane dopo il 2010.

Riflessioni conclusive.

La diagnosi sullo stato di salute dell’università italiana negli anni immediatamente precedenti la riforma Gelmini era in gran parte sbagliata. La cura scelta bi-partisanamente dai governi italiani è la stessa adottata da paesi emergenti che avevano la necessità di scalare le classifiche mondiali. In cosa è consistita la cura? In sostanza, nella monetizzazione diretta o indiretta delle prestazioni scientifiche misurate con indicatori quantitativi di produzione e impatto. La cura non ha avuto effetti risolutivi sui problemi di lungo periodo che affliggono l’università italiana: mancanza di risorse e scarsa trasparenza -per usare un eufemismo- nelle procedure di reclutamento. La cura ha creato nuovi sintomi, appunto la chiusura autoreferenziale e la diffusione delle frodi scientifiche.

Di fatto, la cura ha finito per riconfigurare completamente il potere all’interno del sistema universitario: la riforma ha creato infatti vincitori e vinti. Ai “baroni pre-Gemini”, quelli che avevano il potere prima della riforma, sono succeduti i “baroni post-Gelmini”. In molti settori il potere è restato saldamente nelle mani degli stessi gruppi. Adesso, però, i vincitori non hanno solo più risorse e più potere, ma godono anche della certificazione di eccellenza rilasciata da ANVUR: i vincitori si sono meritati le maggiori risorse e l’esercizio del potere accademico.  Ai perdenti non resta che la speranza di vincere la prossima gara; possono solo recriminare di non essere stati così in gamba da essersi fino ad adesso meritati i premi in palio.

La riforma ha amplificato la gerarchizzazione dei ruoli accademici, attraverso la precarizzazione del personale ricercatore. L’esercito di dottorandi, assegnisti e precari della ricerca dipende sempre più dal principal investigator di riferimento. Le carriere accademiche sono infatti rigidamente determinate all’interno di settori disciplinari, dove i vincitori, di fatto, governano direttamente o indirettamente l’abilitazione scientifica nazionale ed i concorsi locali. Nei cosiddetti ‘settori bibliometrici’ le carriere dipendono dalla quantità di pubblicazioni fatte e dalle citazioni ricevute. Nei settori non-bibliometrici dalla quantità di pubblicazioni, e, in particolare, da quelle apparse su riviste classificate da ANVUR come “Fascia A”. Da qua si deve partire per comprendere il doping citazionale e altri fenomeni di gaming emergenti come gli autoraggi di comodo; le pubblicazioni su riviste ‘predatorie’; il controllo sistematico delle pubblicazioni sulle riviste di fascia A.

Queste dinamiche probabilmente stanno determinando una riduzione della diversità dei temi cui si dedicano i ricercatori italiani, in modo analogo a quanto documentato in relazione agli effetti della valutazione massiva della ricerca in Gran Bretagna e Australia.  La ricerca innovativa e rischiosa, quella che richiede lunghi periodi di maturazione, quella che replica il lavoro degli altri per verificarlo, è spiazzata e probabilmente votata alla progressiva scomparsa, perché non viene premiata dalla valutazione di ANVUR.

Nel 2010 per migliorare quantità e qualità dell’università italiana sarebbe probabilmente stato sufficiente aumentare le risorse. Adesso per invertire la rotta aumentare le risorse non basta più. Se non si smontano i meccanismi in atto, se non si liberano i precari della ricerca dal ricatto della precarietà, se non si riduce la concentrazione del potere accademico nelle mani degli ordinari, soprattutto se non si libera l’università dalla macchina della valutazione di stato, credo che le eventuali risorse aggiuntive andranno a finire in attività che non miglioreranno lo stato di salute della ricerca italiana.

Il testo è stato pubblicato su Critica Marxista 1/2023

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Viesti, G. (Ed.). (2016). Università in declino. Un’indagine sugli atenei da Nord a Sud. Donzelli.

[1] Il testo è basato sull’intervento svolto al convegno “Falsi miti di progresso”, 24-25 febbraio 2023, organizzato per il decennale dell’associazione ROARS di cui sono uno dei fondatori. Gran parte delle affermazioni contenute nel testo possono esser facilmente ricondotte a post apparsi nel corso degli anni sul sito www.roars.it a firma mia o di Redazione_Roars.

 

 

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