Recensione del libro “Il costo dell’ignoranza”, a cura di Giliberto Capano e Marco Meloni.

Pubblicata sull’Indice dei Libri del Mese, numero di ottobre 2013.

Il costo dell’ignoranza è una delle tante raccolte di saggi che parlano del nostro sistema universitario. Cosa lo distingue dalle numerose pubblicazioni che ogni anno escono sullo stesso tema? Perché leggere questo piuttosto che un altro libro?

La ragione, per quanto mi riguarda, è che uno dei due curatori (Meloni) è deputato nonché responsabile delle politiche universitarie per il Partito Democratico (nonché, come dicono in gergo, in “quota Letta”). Questa sua curatela, coadiuvata da Giliberto Capano, docente di scienze politiche a Bologna, mi è parsa una comoda finestra attraverso cui vedere come (e con chi) una figura politica di responsabilità analizza la realtà ed elabora le idee che farà poi valere nell’arena politica.
La struttura del volume è piuttosto lineare. I tredici contributi di questo volume si suddividono in tre sezioni: la prima traccia una storia dell’università italiana; la seconda si focalizza sulla situazione presente, con una certa enfasi sulle pratiche della valutazione; la terza parte apre a considerazioni più generali sull’evolversi delle forme della conoscenza e sulla loro diffusione. Tutti i saggi affrontano uno specifico argomento, con una marcata enfasi sulla comparazione internazionale (soprattutto con i paesi dell’UE) e terminano con qualche policy recommendations –cioè qualche suggerimento per gli attori politici. Questi suggerimenti sono poi sintetizzati e rielaborati nel capitolo conclusivo a firma dei due curatori, “Dieci proposte per cambiare l’università italiana”.

Astenendomi delle considerazioni di merito sulle numerose tesi esposte nel libro, che ognuno giudicherà secondo la propria coscienza politica, mi sento di rilevare alcuni aspetti meritori. L’intenzione che anima il libro è condivisibile: ricordare che l’UE, “troppo spesso […] entrata nel discorso politico e nell’agenda dei governi italiani solo in relazione alla questione economico-finanziaria”, avrebbe anche altre funzioni oltre a quella di impone l’austerity agli stati più poveri. In particolare, il libro mira a ricordare che l’UE “vede nell’istruzione superiore un pilastro irrinunciabile” per “migliorare la nostra società e la nostra economia. Inoltre, dopo una ministra della ricerca che parla di tunnel dei neutrini e dopo il ministro di un governo tecnico che ha dimostrato in diverse occasioni di non avere esattamente il polso della situazione (sostenendo assurdità come “i fuoricorso esistono solo in Italia”), il fatto che i legislatori si facciano consigliare da docenti e consulenti sembrerebbe un passo avanti.

Ad uno sguardo critico queste “luci” proiettano però diverse ombre. Innanzitutto, pur avendo l’ambizione di parlare di politica universitaria, il libro si configura piuttosto come un compendio di sola “ingegneria istituzionale”: vengono esplorati in modo dettagliato i metodi più efficienti per raggiungere certi obiettivi (ad es. l’allocazione efficiente delle risorse, l’integrazione della ricerca italiana con i partner europei), ma nelle trecento pagine appaiono pochissime (benché interessanti) riflessioni sugli obiettivi in sé. Sembrerebbe che il “cosa” fare sia risolto sbrigativamente nella prima frase dell’introduzione: siccome “l’Europa è il punto di riferimento necessario del nostro paese” gli obiettivi sono già stati dati dalla Strategia di Lisbona e dal Processo di Bologna e a noi non resta che trovare le strade per capire come raggiungerli – adottando le best-practices europee.

Inoltre, molte pagine del libro sono butterate da una sfilza di corsivi; difficile non pensare che il ricorso all’inglese legittimato da scopi pratici/semantici (accountability, alumni…) ceda talvolta il passo ad un inglesismo compulsivo e manieristico (perché scrivere “lag” anziché “ritardo”?).Guardando poi ai CV degli autori che hanno contribuito al volume viene da chiedersi perché, accanto a numerosi accademici più o meno blasonati, le uniche voci un po’ fuori dal coro appartengano a professionisti di una SpA di consulenza. Non sarebbero stati più pertinenti, per esempio i tecnici amministrativi che lavorano nell’università oppure degli studenti? Qualsiasi organizzazione studentesca avrebbe ad esempio saputo esprimere riflessioni interessanti e soprattutto “radicate” su diritto allo studio –e magari pure evitando le incongruenze contenute nel saggio dedicato ad esso, che parla del sistema UK talvolta prima della riforma Browne e talvolta dopo.

Insomma, si ha l’impressione che il volume sia significativamente succube del “sogno tecnocratico”, secondo cui una democrazia funziona al meglio quando i (pochi) competenti dettano un’agenda e tutti gli altri la rispettano. Per chi come me non è ottimista a riguardo a questa, come ad altre oligarchie, ci sono una notizia buona e una cattiva: la prima è che Meloni auspica un “dibattito franco, diffuso e coraggioso” aperto a tutta la cittadinanza. La cattiva è che sappiamo bene quanto le azioni divergano dagli auspici quando a formularli è un politico del PD.

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2 Commenti

  1. Guardate che queste persone sono un miscuglio letale di malafede e ignoranza. Vogliono abolire i ricercatori, ridurre le università a superlicei e riservare l’istruzione a pochissimi. Ci portano alla rovina mentre passiamo il tempo a calcolare mediane, fattori, crediti e chi più ne ha più ne metta.

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