Roars aveva mostrato che, per coordinare il progetto post-Expo Human Technopole, le credenziali dell’IIT sembrano peggiori di quelle del Politecnico di Bari, presso il quale i soldi spesi rendono decisamente meglio. «Siamo a 3,1 km chilometri dalla “Madunina”, a 13,2 km dall’Expo». È Scienza in Rete che, «senza rabbia, e magari con un po’ di orgoglio» si immedesima nei panni di IIT, rivendicandone i meriti nei confronti del Poltecnico di Bari, attraverso dati e informazioni acquisiti «anche direttamente da IIT». Dati che, nel caso del numero dei ricercatori, non concordano con quelli della Corte dei Conti o che, per le statistiche bibliometriche, confermano le migliori prestazioni del Politecnico di Bari, «veramente eccellente», anche se «l’Istituto Italiano di Tecnologia non è da meno». Non va diversamente per «le collaborazioni e i laboratori congiunti con le imprese, e le start-up nate dall’ecosistema IIT»: le entrate di IIT da collaborazione con il mondo industriale riferite ai contratti si aggirano sul 3% delle entrate provenienti dalla spesa pubblica e i dati ufficiali Netval riportano 5 spin-off di IIT contro 24 del Politecnico di Bari.

Matteo Renzi vorrebbe fare dell’Istituto Italiano di Tecnologia il fulcro dello Human Technopole Italy 2014, un grande centro di ricerca mondiale sulla genomica, il big data, la nutrizione, il cibo, l’eco-sostenibilità., lasciando in secondo piano persino le università milanesi e lombarde, in nome della lotta ai campanilismi.

Ma affidare  altri ingenti finanziamenti pubblici all’IIT è veramente il modo migliore di spendere i soldi dei contribuenti? Lasciando da parte le università lombarde, Roars ha provato a mettere a confronti l’efficienza scientifica di IIT con quella del Politecnico di Bari. Scoprendo che il Politecnico di Bari assomiglia ad un “paghi uno, prendi due”: con i 100.000 Euro che servono all’IIT per produrre un articolo, il Politecnico di Bari, non solo produce un articolo, ma impartisce didattica anche a 23 studenti. E per di più, l’impatto citazionale dell’articolo del Politecnico è in media 1,6 volte maggiore (IIT? Un’ “eccellenza” da 100.000 € ad articolo, due volte meno efficiente del Politecnico di Bari).

Ne è seguita una discussione sul nostro blog nel corso della quale abbiamo dato risposta a dubbi e obiezioni relativi ai metodi di calcolo e alle definizioni usate. Su Scienza in Rete, il blog del Gruppo 2003, un articolo intitolato

Radiografia dell’Istituto Italiano di Tecnologia

riprende molti di questi argomenti a cui avevamo già dato risposta. Crediamo di fare cosa utile ai lettori, raccogliendo in una sola sede le obiezioni e le nostre risposte.

1. Il Max Planck «farebbe veramente schifo»

Prima di tutto, se il costo per pubblicazione rivelasse l’eccellenza dell’ente, dovremmo concludere che la Fondazione Max Planck (con circa 11.400 pubblicazioni e un budget di 1.6 miliardi di euro nel 2014 = 135.000 euro per pubblicazione) farebbe veramente schifo…

Qui si confonde “eccellenza” con “efficienza”. L’articolo di Roars si riferisce esplicitamente e solo all’efficienza. In un panorama italiano in cui la presunta inefficienza delle istituzioni statali è usata come pretesto per tagliare risorse e personale, secondo alcuni una fondazione di diritto privato come IIT dovrebbe essere finanziata (con soldi pubblici) secondo i più generosi standard internazionali. Se i soldi crescessero sugli alberi, potrebbe essere una buona idea. Ma visto che non crescono sugli alberi, perché IIT sì e Politecnico di Bari (che pure rende di più per Euro speso) invece no? Chi evoca il Max Planck dovrebbe chiedersi cosa si spende per le università in Germania. E più in generale, dopo anni di pesanti tagli all’università e agli enti di ricerca, sarebbe giusto domandarsi quali siano le priorità in Italia. 

Ma anche se si volesse procedere ad un confronto internazionale in termini di efficienza (articoli e citazioni per euro speso), è giusto ricordare che IIT beneficia di vantaggi non trascurabili nel calcolo degli indicatori di performance (articoli, citazioni). Tra i fattori che favoriscono IIT nel confronto con Max Planck, ci limitiamo a segnalarne uno solo: IIT non porta con se la “zavorra bibliometrica” del Max Planck, cioè istituti che si occupano diritto, filosofia, estetica e letteratura, che sono notoriamente poco produttivi in termini di produzione e citazioni indicizzate nei database bibliometrici.

Vediamo adesso alla questione posta da Scienza in Rete, se il Max Planck “faccia veramente schifo”. Ripetiamo che Roars non confonde efficienza con “eccellenza” e, come è ben noto, non ama le classifiche. Ma di fronte ad un post pubblicato proprio su Scienza in Rete intitolato “Misuriamo il merito con l’h” diventa difficile sottrarsi alla tentazione di usarlo davvero l’h-index. Bene, in termini di h-index IIT e Politecnico di Bari sono pressoché indistinguibili: il primo nel 2012 aveva un h-index di 40, IIT aveva cioè prodotto 40 articoli con almeno 40 citazioni;  il Politecnico di Bari, h-index = 37, aveva prodotto invece 37 articoli con almeno 37 citazioni ciascuno. Il Max Planck per lo stesso anno ha un indice h=130: ha cioè prodotto 130 articoli con almeno 130 citazioni ciascuno. Se davvero il merito si misurasse con l’h, Scienza in Rete potrebbe darsi da sola la risposta alla sua domanda: no, il Max Planck non “fa schifo”. Ma, soprattutto, pur spendendo di meno (48,6 milioni contro 76,2, vedi più avanti), il Politecnico di Bari ottiene un h-index paragonabile a quello di IIT. Con un dettaglio non da poco: oltre a raggiungere quell’h-index, il Politecnico barese eroga didattica a una popolazione di studenti che nell’A.A. 2011/12 ammontava a 11.433 iscritti (fonte: Anagrafe Nazionale Studenti).

 2. Un errore di conti economici?

Pare inoltre che ci sia un errore di conti economici: mentre dello IIT si è infatti preso in considerazione l’intero valore del costo di produzione (98 milioni di euro), compresi quindi i circa 22 milioni di euro di ammortamenti, per il Politecnico di Bari si sono considerate solo le spese correnti (48 milioni di euro) mentre il totale degli impegni a bilancio impegnato ammonta a 77 milioni. Due pesi e due misure, insomma.

A questa obiezione avevamo già risposto così:

Pur consapevoli della differente natura dei due bilanci, abbiamo dovuto basarci sui dati a nostra disposizione e abbiamo cercato di cautelarci nei confronti delle inevitabili approssimazioni arrotondando molto per eccesso la quota di spesa per ricerca del Politecnico di Bari (da noi posta al 50% mentre la stima OCSE per l’Italia sarebbe 35%).
Se accogliamo il suggerimento di sergioluciano2015 e sottraiamo 22 Milioni dai costi della produzione di IIT, l’efficienza della produzione scientifica e dell’impatto citazionale di IIT salirebbero da 10.0 a 12,9 articoli per MLN € e da 105 a 135 citazioni per MLN €.

Efficienza_IIT_senza_ammort

Esse rimarrebbero comunque inferiori a quelle del Politecnico di Bari (20,2 articoli per MLN € e 340 citazioni per MLN €), le cui efficienze, se adottassimo la stima OCSE della quota di spesa per ricerca, diventerebbero però 28,9 articoli per MLN € e 486 citazioni per MLN €.

A questo proposito vogliamo sottolineare che per comprendere meglio la performance di IIT, sarebbe necessario visionare il bilancio, che però non è pubblico. A  differenza delle università pubbliche, IIT non ha una sezione del sito “amministrazione trasparente”. I pochi dati di bilancio disponibili per i contribuenti italiani sono quelli che troviamo nelle relazioni della corte dei conti su IIT che sono pubbliche. La redazione di Roars si chiede se una fondazione privata finanziata al 97% da fondi statali possa esimersi dal pubblicare il bilancio e tutte le altre voci richieste dalla legge sulla trasparenza.

3. «il Politecnico di Bari è veramente eccellente, ma l’IIT non è da meno»

è importante osservare che le citazioni ricevute da una pubblicazione variano molto da un settore scientifico ad un altro e non sono comparabili in assoluto. Ecco perché Scopus ha sviluppato SciVal, piattaforma per l’analisi delle performance della ricerca, che tra gli altri indicatori fornisce anche il Field Weighted Citation Impact (FWCI), che compara l’impatto citazionale medio di un’istituzione rispetto al valore medio mondiale per settore, anno e tipologia di pubblicazione. Il valore medio della produzione scientifica italiana nel periodo 2009-2014 è circa 1,48 (cioè le pubblicazioni italiane sono citate in media 1,5 volte rispetto alla media mondiale nei diversi settori). Sia IIT (FWCI 2,06) sia il Politecnico di Bari (FWCI 2,27) hanno valori medi del FWCI per gli stessi anni intorno a 2 (citazione doppie della media mondiale), comparabili con quelli di istituti internazionali di altissimo livello quali MIT (FWCI 2,45), Weizmann (FWCI 2,12), EPFL (FWCI 2,13), Georgia Tech (FWCI 1,82), Max Planck (FWCI 1.98). Segno insomma che il Politecnico di Bari, scelto per questo confronto, è veramente eccellente, ma l’Istituto Italiano di Tecnologia non è da meno.

È vero che l’intensità citazionale varia da settore a settore e volentieri avremmo utilizzato la piattaforma SciVal se non fosse che non è facilmente accessibile a causa dei suoi costi (per esempio, le università dei membri della redazione non dispongono dell’accesso a SciVal). In ogni caso, l’indice FWCI conferma che, anche secondo SciVal, nel periodo 2009-2014 gli articoli del Politecnico di Bari hanno – in media – un maggior impatto citazionale di quelli di IIT.

Sebbene abbia giudicato il Politecnico di Bari, “veramente eccellente”, Scienza in Rete si scorda di inserirlo nella figura che illustra i diversi valori di FWCI. Una dimenticanza che permette all”IIT di primeggiare nella parte superiore del seguente grafico, dove IIT è confrontato con l’Italia, l’UE e il Nord America.

Dimenticanza_Scienzainrete

Per inciso, Scienza in Rete non dice nulla su un dato interessante, ovvero che il FWCI italiano (1,48) supera quello EU (1,27) e persino quello USA (1,42), con una forbice che tende ad allargarsi a favore dell’Italia. Insomma, se seguissimo Scienza in Rete nel giudicare l’eccellenza in base a FWCI, verrebbe voglia di dire che

la ricerca italiana è veramente eccellente ma gli USA non sono da meno.

È chiaro che qui non solo si sta confondendo l’eccellenza con l’impatto citazionale, ma la si sta confondendo con l’impatto medio del singolo articolo. E come mostrato da Roars già qualche anno fa usando dati Scopus elaborati da SCImago, nella gara dell’impatto citazionale per articolo avrebbe vinto il Territorio Britannico dell’Oceano Indiano (costituito da sei atolli dell’arcipelago Chagos) seguito dalle Bermuda.

Chagosrankingcite

Difficile condurre un’analisi di eccellenza (e tanto meno di efficienza) a partire da questo indicatore. Oppure, bisognerebbe avere la coerenza di sostenere che, in quanto a eccellenza, la ricerca italiana, pur superata dal Regno Unito, ha ormai raggiunto Canada, Germania e USA, mentre batte nettamente la Francia, come evidenziato da questo grafico tratto dal rapporto International Comparative Performance of the UK Research Base. Ma per qualche strana ragione, i fan di IIT, Francesco Giavazzi e Roger Abravanel in testa, sono proprio quelli che danno addosso all’università italiana nel suo complesso. Insomma, se l’eccellenza si misurasse davvero con il FWCI, non solo il Politecnico di Bari  sarebbe più eccellente di IIT (e a minor costo!), ma,  tra le grandi nazioni, l’Italia si collocherebbe ai vertici dell’eccellenza scientifica.

Molto meglio tornare a ragionare su misure di efficienza che, contando articoli e citazioni, rapportano in modo relativamente semplice il risultato ai soldi spesi.

FWCI_UK_Research_Base_2013

 

4. I brevetti, un indicatore molto scivoloso

I brevetti, per esempio. Indicatore in realtà molto scivoloso, perché non conta tanto il loro numero ma il valore economico che riescono a generare, di solito ad anni di distanza. Quindi si tratta di un altro indicatore parziale. Comunque sia, l’IIT ha in portafoglio 348 domande di brevetto dal 2007 ad oggi, di cui più di cento concessi, il 20% in licenza alle imprese. Per un totale di 166 invenzioni generate dall’IIT, soprattutto nel campo dei nuovi materiali, della salute e della robotica. Il rapporto ufficiale Netval riporta che nel 2013 (ultimo esercizio disponibile) le prime 5 università italiane hanno avuto in media 31.8 disclosure all’anno, IIT ne ha avute 58.

Il confronto con le università è reso difficile dal fatto che, mentre IIT per regolamento reclama ogni dirito patrimoniale sulle invenzioni realizzate dai suoi ricercatori, una percentuale significativa dei brevetti depositati dai docenti universitari passa per canali non istituzionali:

The key piece of evidence produced in this paper can be summarized as follows: universities in France, Italy and Sweden do not contribute much less than their US counterparts to their nations’ patenting activity; rather, they are less likely to reclaim the property of the patents they produce.
Lissoni, Francesco, et al. “Academic patenting in Europe: new evidence from the KEINS database.” Research Evaluation 17.2 (2008): 87-102.

Che l’indicatore dei brevetti sia molto scivoloso è desumibile anche dalla Relazione della Corte dei Conti:

la struttura dell’Istituto a ciò deputata procede alla verifica della convenienza al mantenimento in vita dei brevetti depositati, verifica che ha portato nel corso del 2013 alla revoca di sei brevetti già concessi e all’interruzione dell’iter di concessione di diciotto domande di brevetto presentate dalle strutture di ricerca.
Pur in presenza di tale procedura, attraverso la quale si verificano le invenzioni che presentano un più elevato valore tecnologico e di mercato, appare opportuna una attenta analisi delle potenzialità economiche dei prodotti della ricerca nel momento del loro impiego pratico.

E in effetti mancano i dati sul valore economico dei brevetti, per esempio le entrate da quel “20% in licenza alle imprese” menzionato da Scienza in Rete.

 

5. Numerose le collaborazioni con le imprese

Numerose poi le collaborazioni e i laboratori congiunti con le imprese, e le start-up nate dall’ecosistema IIT, pur nel panorama asfittico dell’innovazione italiana.

Sarebbe più facile valutare questo aspetto se l’IIT rendesse pubblici i suoi bilanci, come d’altronde richiesto dal suo Statuto. Riguardo all’impatto dell’IIT sul mondo della produzione, possiamo saperne qualcosa solo attraverso la relazione della Corte dei Conti relativa all’esercizio 2013:

Con riguardo alla collaborazione con il mondo industriale, l’Istituto ha acquisito 43 nuovi contratti, per un controvalore complessivo di 2,8 milioni cui deve essere aggiunto il valore della strumentazione dell’Istituto utilizzata per lo svolgimento dei progetti, stimata in 500 mila euro. Complessivamente, sono 85 i progetti finanziati dalle imprese.

Questa cifra (2,8 + 0,5 = 3,3 milioni) va confrontata con l’impegno di denaro pubblico:

A favore della fondazione, ai fini della sua valorizzazione, è autorizzata la spesa di 50 milioni di euro per l’anno 2004 e di 100 milioni di euro per ciascuno degli anni dal 2005 al 2014.
(legge 24 novembre 2003, n. 326)

Le entrate da collaborazione con il mondo industriale riferite ai contratti sembrano essere pertanto il 3,3% delle entrate provenienti dalla spesa pubblica.

Per quanto riguarda gli spin-off, una consultazione del rapporto ufficiale Netval (già citato da Scienza in Rete per i brevetti) permette di confrontare il numero degli spin-off:

  • IIT: 5 spin-off
  • Politecnico di Bari: 24 spin-off.

IIT_PoliBA_spinoff

6. Un bambino prodigio?

Un bambino prodigio?
Va anche ricordato che l’IIT esiste da 9 anni, e che non è nato con 1.400 ricercatori ma con… meno di 100 nel 2006, poco più di 400 nel 2009, quasi 1.200 nel 2012, fino agli attuali 1.440. Una progressione impressionante. Come impressionante, per gli standard italiani, è l’età media dei ricercatori (34 anni), il mix di provenienza (45% dall’estero, fra cui anche italiani rientrati), il 14% di personale non scientifico. Del personale scientifico 50 sono principal investigator, 150 researchers, 400 post doc e 500 PhD. Quanto alla collaborazione con altre università italiane, dal 2008 sono oltre 700 i dottorandi che hanno svolto attività di ricerca all’istituto di Genova, da 15 università italiane.”

 

Chissà quale è la fonte di questi dati. Perché quelli disponibili sulla relazione della Corte dei Conti sono diversi. I numeri riportati da Scienza in Rete non sono quelli dei ricercatori, ma comprendono:

  • il personale tecnico amministrativo;
  • tutti i collaboratori con contratto a progetto;
  • i dottorandi.

Come desumibile dalla Tabella 1 della Corte dei Conti, al 31/12/2012 risultavano complessivamente

  • 274 dipendenti (“personale con rapporto di lavoro subordinato – amministrativi, ricercatori e tecnici di laboratorio”);
  • 558 collaboratori (“personale con contratto a progetto”);
  • 311 dottorandi.

IIT_personale1

Sempre con l’aiuto delle tabelle della Corte dei Conti (vedi sotto), ricostruiamo che, tra dipendenti e collaboratori, nel 2013 avevamo

  • 112 addetti ad amministrazione e gestione
  • 720 addetti alla ricerca.

Persino se contassimo i 311 dottorandi come ricercatori,  le 1.031 unità raggiunte al 31/12/2012 smentirebbero i “quasi 1.200 nel 2012” riportati da Scienza in Rete.

IIT_personale2

Con questi numeri del “bambino prodigio”,  dovrebbe essere chiaro anche per il lettore più disattento che non ha molto senso prendere come termine di confronto il gigante Max Planck . Max Planck è organizzato in 83 istituti di ricerca, con uno staff di 17.824 persone, di cui 5.654 scienziati, cui si aggiungono 4.718 junior and visiting scientists. A questi si aggiungono ancora “14.859 Bachelor students, fellows of the International Max Planck Research Schools, PhD students, postdoctoral students, research fellows, and visiting scientists”.

Un “prodigio”, quello dell’IIT, che va rapportato ai 550 milioni in quindici anni previsti dalla legge istitutiva già citata. Le collaborazioni scientifiche (20 istituzioni italiane tra le prime 22), ma anche le spese per formazione (più di 6 milioni di borse di studio, vedi Tabella 9 della già citata Relazione della Corte dei Conti) presso atenei esclusivamente italiani testimoniano la trasformazione dell’istituto in un’agenzia per il finanziamento della ricerca che gestisce, al  di fuori dei canali convenzionali, ingenti fondi pubblici, superiori allo stesso PRIN, che finanzia la ricerca di base dell’intera università italiana. Qualcosa di assai diverso da un MIT o Max Planck.

IIT_spese_formazione

7. «Siamo a 3,1 km dalla “Madunina”»: siamo chi?

Chi ci ha letto fin qui si domanderà cosa ci sia di così “strano” in questa radiografia proposta sul sito di Scienza in Rete. Gli argomenti potranno essere in qualche misura discutibili, ma tutto ciò rientra nella dialettica delle discussioni di politica scientifica. La stranezza deriva principalmente da una prima persona plurale che spunta a sorpresa nelle ultime righe del pezzo:

E a Milano? Ebbene sì: a Milano opera il Centro di Conoscenze e tecnologie con il locale Politecnico. Ma anche un centro di Genomica nel Campus dell’IFOM-IEO. Siamo a 3,1 km chilometri dalla “Madunina”, a 13,2 km dall’Expo, che adesso smonta, forse per ricostruire un polo scientifico che per 30mila metri quadrati (su più di un milione) verrà occupato anche dai laboratori IIT di nanotecnologie, nutrizione, genomica delle malattie oncologiche e neurodegenerative. Senza rabbia, e magari con un po’ di orgoglio.

Che quel “siamo” sia  una sorta di plurale maiestatis narrativo? L’immedesimazione con il punto di vista di IIT è però confermata dalla chiusa che fa il verso alla Fallaci

Senza rabbia, e magari con un po’ di orgoglio.

E poi c’è anche il grafico dell’indice FWCI, in cui mancava proprio il Politecnico di Bari. Un’omissione poco comprensibile dal punto di vista giornalistico, dato che l’articolo di Scienza in Rete prende le mosse proprio dall’analisi  comparata dei due enti pubblicata da Roars.

Nella fretta di leggere l’articolo, non avevamo fatto caso a chi fosse l’autore. Vuoi vedere che è il direttore Roberto Cingolani o qualche addetto dell’ufficio stampa dell’IIT?

Andiamo a controllare, ma non è così. Come mostrato qui sotto, a destra del titolo si legge il nome dell’autore che è Luca Carra, il direttore di Scienza In Rete.

Luca_Carra

C’è una frase nel quarto paragrafo che forse aiuta a capire meglio:

Scienza in Rete ha voluto quindi acquisire dati e informazioni anche direttamente da IIT per capirci di più. Ecco una sintesi.

Acquisire dati e informazioni dai diretti interessati fa parte della buona pratica giornalistica, sempre che il materiale sia poi filtrato e rielaborato attraverso la competenza e il senso critico dell’autore. Come nel caso dei dati sul personale di IIT, che – qualunque sia la loro orgine – si sarebbero dovuti confrontare con gli unici dati certificati che ci risultano disponibili, ovvero quelli forniti dalla Corte dei Conti.

Ci rendiamo conto che forse stiamo chiedendo troppo. Beh, male che vada, rimane valida la raccomandazione di ricordarsi, nella propria “sintesi”, di mettere i verbi in terza persona.

 

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6 Commenti

  1. Segnaliamo l’interrogazione a risposta in Commissione di FASSINA e GREGORI. — Al Ministro dell’economia e delle finanze, al Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca. — Per sapere

      quando e con quale modalità si intenda rendere pubblico il rapporto indipendente commissionato nel 2007 dal Ministro dell’economia e delle finanze pro tempore Tommaso Padoa Schioppa, affinché Parlamento e contribuenti possano autonomamente valutare se la prosecuzione e anzi l’aumento straordinario dei finanziamenti pubblici sia o meno congruo con il contenuto di quel rapporto;

       quando e con quale modalità si intenda promuovere un nuovo round di valutazione dell’IIT di standard europeo, da parte cioè di esperti di riconosciuta reputazione internazionale, non legati all’IIT da vincoli istituzionali, finanziari o di collaborazione scientifica;

       se il Governo abbia approvato, formalmente o informalmente, la trasformazione dell’IIT in funding agency, e, in caso affermativo, se e come intenda rendere trasparenti e conformi agli standard europei i criteri che regolano il flusso finanziario dell’IIT verso altre istituzioni scientifiche. (5-07079)

    http://www.camera.it/leg17/410?idSeduta=0528&tipo=atti_indirizzo_controllo&pag=allegato_b#si.5-07079

  2. Collaterale, ma fino ad un certo punto:

    “Il Senato ha licenziato la legge di stabilità approvando un maxiemendamento del Governo. In esso resta confermato lo sblocco solo a partire dal 2016, ignorando il riconoscimento giuridico del quinquennio 2011-2015. In tale modo, il quinquennio 2011-2015 viene definitivamente “cancellato”, per tutta la carriera lavorativa e anche ai fini della buonuscita e della pensione. Invece tutti gli altri dipendenti del pubblico impiego hanno avuto lo sblocco dal 1° gennaio 2015 e il riconoscimento giuridico del quadriennio 2011-2014! … I soldi in più spuntano fuori dalla sera alla mattina come funghi. Qualche giorno fa il Presidente del Consiglio ha annunciato lo stanziamento di 150 milioni all’anno, per dieci anni, per la riconversione dell’area ex EXPO a polo scientifico, ma fuori
    dall’ambito universitario, milioni trovati in un baleno. ”

    (da una lettera che in molti riconosceranno; però NEMMENO lo sblocco a partire dal dal 2016 è sicuro, in contrasto con la sentenza della Corte costituzionale http://www.repubblica.it/economia/2015/06/24/news/blocco_stipendi_pa_la_norma_e_illegittima_ma_non_per_il_passato-117595693/,

    che però, come si è visto, non ha ostacolato il riconoscimento del periodo 2011-14 per altre amministrazioni pubbliche).

    E due. All’IIT si somma quest’altra iniziativa sfavillante del post-EXPO, che fa dirottare fondi pubblici, togliendoli ad altri. Ma quali sono le colpe enormi, non perdonabili e non sanabili nei loro effetti, dell’istruzione superiore pubblica in Italia, che provochino queste contromisure di supposta ed intrinseca ‘eccellenza’? I cosiddetti baroni (con eventuali nepotismo, clientelismo derivati)? Siccome questo accade fisiologicamente dappertutto, penso che il tasso italiano di baronismo possa rientrare appunto nella norma fisiologica e che comunque possa ricevere dei ridimensionamenti dall’interno del sistema stesso. Tanto per essere schietti, porcherie e corruzione ci sono dappertutto, se non altro allo stato potenziale; in una certa percentuale fanno anche parte della fisiologia degli organismi sociali complessi, importante poterli riconoscere, arginare e ridurre continuamente (mi è stata utile un’osservazione di Emma Bonino, quando anni fa gestiva i soldi raccolti in aiuto delle popolazioni asiatiche devastate da tsunami: è fisiologico che in una qualche percentuale – bassa- i soldi scompaiano nelle pieghe del malaffare). Faccio l’esempio del baronismo perché lo hanno sbandierato continuamente altri, i detrattori cronici e monotoni dell’università en bloc, portando degli esempi (ma solo di quelli notori) da estendere all’intero sistema accademico italiano fino a ricoprirlo del tutto. Cfr. i discorsi di tipo gelminiano. Baroni ce ne sono, nessuno lo nega, ma ce anche dell’altro e molto di più in termini positivi. Ma la lezione, le ramanzine, le sgridatine, le tiratine d’orecchie, le punizioni, non devono venire dalla classe dirigente, non da quella attuale yuppista-rampante, autonominatasi pura e dura, rinnovante ed epocale. Su queste qualità dovrebbero semmai decidere gli elettori. Loro dovrebbero esserne i VALUTATORI, tanto per rimanere in tema di vqr.

    Detto questo, qual è, a mio modo di vedere non dell’ultima ora, la vera debolezza dell’accademia che non riesce ad opporsi al suo smantellamento e che incassa giorno dopo giorno calci in c…? Proprio il non riuscire ad opporsi insieme e motivatamente (cioè analizzando cause e ragionamenti persuasivi di accompagnamento). Non mi riferisco soltanto agli ultimi anni. Sto pensando all’intero processo di implementazione del cosiddetto ‘bologna’ (oramai siamo a quest’espressione abbreviata, poiché tutti TUTTI in Europa, biasimano il ‘bologna’ come fondamento del disastro; povera Bologna, quante ne deve sentire … ). Sono convinta, poiché ho seguito l’applicazione quasi dagli inizi se anche solo dalle nostre parti, che se ci fosse stata buona informazione, correttezza, attenzione ed oculatezza, a tutti i livelli (dai CdS alla Crui), saremmo stati degli interlocutori credibili. Invece siamo andati dietro, quasi a mo’ di gregge, a qualsiasi cosiddetta innovazione (perché non si deve essere disfattisti e gufi e quant’altro), detta magari persino epocale, lasciando spazio ai disattenti e ai timidi votanti, nonché agli interessati (non molti ma attivi e inseritisi nei posti giusti), che nel loro insieme hanno costituito la maggioranza. Da questa gestione malaccorta è venuto fuori un managerialismo banale che cerca di darsi un tono e un camuffamento scientificando tutto in formule, algoritmi, calcoli, percentuali, questionari semplificatori ed elusivi della realtà della sostanza. E che nessuno VALUTA.

  3. Io ho smesso di leggere Scienza in Rete quando mi ha censurato un commento che chiariva alcune cosette espresse in un articolo molto superficiale di Luigi Tavazzi (e non ero nemmeno stato scortese). Ho inviato due volte, mai comparso.

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