«Tutte le scienze felici si somigliano, ogni scienza infelice è infelice a modo suo»; se Lev Tolstoj fosse un ricercatore quarantenne italiano dei giorni nostri forse il suo incipit suonerebbe così. Le humanities negli ultimi anni sono state infelici nel modo specifico di una sostanziale mancanza di credito, cui sono andati sostituendosi altri e ben distanti tipi di crediti e accreditamenti che hanno intercettato più globalmente il mondo accademico. Le stesse humanities sono state però meno infelici negli ultimi mesi, a partire dal noto appello firmato da Alberto Asor Rosa, Roberto Esposito e Ernesto Galli della Loggia e dalla discussione che ne è conseguita; e sono state ancor meno infelici durante il vivace convegno Humaniores disciplinae: «una proporzionata ragione di ciò che ci sta attorno» organizzato di recente nella Macroarea di Lettere e Filosofia dell’Università Tor Vergata di Roma.

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Il confronto, animato da alcuni dei protagonisti della discussione di questi mesi — Francesco Coniglione, Michele Dantini — e dai docenti che a Tor Vergata vivono in prima battuta le provocazioni e le argomentazioni del dibattito — Barbara Continenza, Tonino Griffero, Silvia Licoccia, Giovanni Salmeri, Franco Salvatori, Nicola Vittorio — è stato l’occasione per mostrare la rilevanza di uno scambio a più voci, le cui diverse e anche discordi sollecitazioni sono continuate ad essere, all’interno e fuori della stessa Università, oggetto di dialogo durante il mese appena trascorso.

Non c’è dubbio che la questione delle scienze umane, della loro validità e del rapporto con le scienze «esatte» sia da più di qualche secolo ragione di antiche tenzoni; interessante però è la modalità e i termini in cui sono tornate oggi ancora e di nuovo ad essere problema. Silvia Licoccia, docente ordinario di Fondamenti chimici delle tecnologie, riferisce come la sua esperienza scientifica sia stata e sia tutt’altro che separata dalla «causa umanistica», definendo l’Università come una comunità, un’aggregazione in cui il pensiero e la creatività — che le humanities sviluppano — sono condizione di valore e non di costo; dello stesso avviso Daniela Guardamagna, docente ordinario di Letteratura inglese, per la quale le litterae garantiscono il senso di una esistenza critica, refrattaria a certe deformazioni politiche. Francesco Coniglione, docente ordinario di Storia della filosofia a Catania, risponde alle idee e alle preoccupazioni espresse nell’Appello per le scienze umane sostenendo due possibilità di approccio: da una parte sottolineare l’importanza delle scienze umane in quanto tali — per la loro ineguagliabile capacità di esprimere una identità nazionale, la tradizione storica, la narrazione civile e di dare adito ai patrimoni cognitivi, artistici e culturali — in un instancabile rinnovamento di forme e ricerche, poiché «una tradizione non si alimenta di una permanente e tragica ripetizione dell’identico»; dall’altro l’urgenza di una visione più generale, capace di considerare le scienze umane non tanto e non solo nel loro autoreferenziale valore o nella funzione di arricchire l’orizzonte culturale, ma per il decisivo ruolo che esse possiedono nell’economia della conoscenza in generale — e dunque anche per le scienze «dure» —, in cui si decide il futuro dell’Europa. Non è un caso che scienziati di esemplare spessore come Einstein, Bohr, Heisenberg o coloro che sperimentano a fondo l’attività scientifica e tecnologica siano tra i primi a riconoscere la definitiva importanza degli studi umanistici. Alexis Carrel, chirurgo e biologo francese, premio Nobel per la Medicina e la fisiologia del 1912, scriveva che «nello snervante comodo della vita moderna è scomparso lo sforzo creativo della personalità. La divisione regna ovunque. Ci siamo confinati nelle astrazioni anziché andare incontro alla realtà concreta. […] Il nostro spirito sceglie il minimo sforzo. È meno arduo salmodiare formule o sonnecchiare sui principi che cercare laboriosamente come sono fatte le cose e quale sia il metodo per servirsene. Osservare è meno facile che ragionare. È risaputo che scarse osservazioni e molti ragionamenti sono causa di errore. Molta osservazione e poco ragionamento conducono alla verità»[1]. Se si tiene presente che tra le principali — o perlomeno più diffuse — critiche mosse alle scienze umane c’è quella di essere astratte, appare molto interessante che pure l’auspicata esattezza delle formule e dei principi risulti allo scienziato stesso tanto astratta e incapace di garantire, di per sé, la comprensione integrale, l’entusiasmo e il significato di un’osservazione radicale, l’esercizio del ragionare: tutte cose necessarie ad una produttiva ricerca scientifica o tecnologica, eppure non rintracciabili entro i confini di queste soltanto. Francesco Coniglione ha ravvisato con comprensibile preoccupazione anche il problema della crescente smania «professionalizzante» della formazione universitaria, che tenta di modulare figure e percorsi spendibili su un mercato in rapidissimo mutamento, e per questo inadeguati; la sua proposta si stanzia dunque in un’ottica multidisciplinare in cui la convergenza interdisciplinare delle competenze deve e può essere meglio surrogata dall’intreccio di linguaggi specialistici di provenienza diversa. La proprietà stessa delle scienze umane è di sostenere la capacità di pensare diversamente, di scorgere prospettive nuove: esattamente per questo «servono» allo — o meglio servono lo — sviluppo delle stesse scienze naturali, fisiche, tecniche.

Michele Dantini, docente di Storia dell’arte contemporanea all’università del Piemonte Orientale, ripercorre criticamente i passi del dibattito internazionale sulle humanities, rilevando che la crisi in cui verte l’Università non lascia prevedere che l’interesse per le scienze umane cresca, né tanto meno può contribuire a ciò la «retorica identitaria» ormai rimpiazzata dalla copiosa volata delle competenze tecnologiche. Dissentendo dall’originario appello di dicembre, Dantini ha affermato come assai più urgente la necessità di «oltrepassare il logoro recinto dei saperi antiquari entro cui l’attuale ordinamento universitario ha confinato le competenze storico-letterarie e storico-artistiche, recuperare attenzione per la scienza e la tecnologia e reinterpretare la competenza umanistica in termini di critica culturale tout court». Tonino Griffero, docente di Estetica all’Università di Roma Tor Vergata, ha moderato la tavola rotonda del 9 aprile con stimolanti analisi: «l’errore delle scienze umane — ha osservato — è stato quello di rincorrere le scienze naturali scimmiottandone il metodo». Una disciplina umanistica, che vive anche e molto dell’aspetto soggettivo di chi ne è protagonista, non può giustificarsi per questo o tentare di livellare il proprio linguaggio e i propri metodi per cercare di assomigliare a ciò che — di fatto — non è. Questa prospettiva è molto più estesamente applicabile. L’iperburocratizzazione che ha investito le riforme universitarie e il sistema della ricerca negli ultimi tempi non suscita sgomento per la monotonia delle pratiche amministrative, tanto meno per il rifiuto di qualche «cattiva» quantificazione: si tratta però di capire e chiedersi in che misura tali statistiche hanno sostanza; se sono capaci, per la loro natura, di com-prendere ciò che vogliono descrivere (a questo proposito qualche tempo fa è stato pubblicato un articolo che ha avuto rapida eco nel panorama universitario: https://www.roars.it/luniversita-che-uccide-se-stessa/). Il valore della ricerca umanistica non può essere rintracciato in nessun «non» (non dire cose «troppo filosofiche», non pensare a cose poco attuabili nell’immediato) e in nessun «come se»: si tratta — e questa è la sfida bella, appassionante e libera da ogni necessità di difesa per chi ha scelto di occuparsi ogni giorno delle humanities e dello studio in genere — di cercare e sostenere la ragionevolezza di ciò che si «maneggia», di esigere con rigore che la propria ricerca sia pertinente alla realtà e quanto più possibile rispondente alle esigenze della vita, che si faccia di mestiere lo storico o il chimico.

Le attente considerazioni di Giovanni Salmeri, docente di Storia del pensiero teologico e Presidente del Corso di laurea in Filosofia all’Università Tor Vergata, hanno posto l’accento su tre problemi. Primo: sostenere l’importanza di «una» cultura umanistica è tanto più difficile quanto più si eludono o si dimenticano la varietà e le ragioni — differenti — delle specifiche scienze umane. Secondo: se uno dei campi della cultura vince non perdono soltanto gli altri, ma perde anche quello (un esempio: la «vittoria» della lingua inglese si è espressa nell’essere strumento di scambio, mettendo però così a rischio la cultura linguistica e letteraria inglese). Terzo: il problema-nemico delle humanities non solo non è la cultura scientifica — forse anche troppo poco sviluppata — ma neppure quella tecnologica, che non esiste. L’uso di strumenti e programmi sembra avere molto a che fare con le istruzioni-per-l’uso, ma molto poco con la sua straordinaria potenzialità di utilizzo e sviluppo creativo, a sostegno del quale gli studi umanistici sarebbero invece i primi e più amichevoli compagni di strada. A proposito della gettonata critica che «con la cultura non si mangia», Giovanni Salmeri risponde con una provocazione che arriva dal campo più umano delle humanities, la realtà: «può esistere un comparto della cultura che non porta nessun ritorno economico, così come ci sono tante cose che non portano soldi (innamorarsi non porta soldi, sposarsi neppure…). Ma non sono dei buoni motivi per dire che non bisogna più innamorarsi o sposarsi. La cultura ha anzitutto un ruolo che è umano: all’inizio c’è l’uomo».

Una cultura e una conoscenza che va oltre il dilettantismo non ha mai bisogno di essere esclusiva. Il problema della cultura umanistica sembra dunque essere più lontano di quel che sembra dal diverbio tra le scienze «morbide» e quelle «dure»: altrimenti bisognerebbe immaginare che è possibile una cultura che non sia dell’uomo, per l’uomo.

Una riflessione e una discussione produttiva sulle scienze umane deve poter individuare prima ancora la domanda di quale sia il problema (dell’)umano, di cui una certa cultura può farsi e si fa portavoce.

 

 

[1] Alexis Carrel, Riflessioni sulla condotta della vita, Cantagalli, Milano 1953, p. 27.

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