«Non voglio più che gli studenti italiani arrivino a 25 anni senza aver mai lavorato un solo giorno nella loro vita» ha detto il Ministro Carrozza. Il connubio tra professore ordinario e paternalismo è un classico da libro cuore. Chi sta dietro alla cattedra non può non dire ai “giovani”: vai a lavorare sfaticato, vuoi restare sfigato a vita? Il punto è un altro: le statistiche Alma Laurea evidenziano un boom di stage e tirocini (+36% dal 2004), i ragazzi lavorano, sono sempre più precari, si guadagnano da vivere, con l’aiuto dei genitori. Ma i ministri non se ne accorgono.
Il ministro dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza ha scelto parole diverse da alcuni suoi recenti predecessori al governo per descrivere l’attitudine dei giovani italiani al lavoro precario. Non li ha definiti «schizzinosi» («Choosy») e non li ha etichettati come «bamboccioni». «Mai più un laureato che arriva a 25 anni senza aver mai avuto un’esperienza come cameriere o assistente in libreria», ha detto. Testate e agenzie hanno riportato anche un’altra frase, ancora più significativa: «Non voglio più che gli studenti italiani arrivino a 25 anni senza aver mai lavorato un solo giorno nella loro vita». Questioni di sfumature, si dirà, tra l’assoluto e il relativo.
La “Choosy Turn” Ora, c’è una differenza tra fare il cameriere (un lavoro quasi sempre in nero, soprattutto se fatto dagli studenti) e l’assistente in libreria. Conosco molte persone che lavorano da “assistente” a Feltrinelli, ad esempio, e non è esattamente uno stage o un tirocinio, ma un part-time difficile da ottenere, con una selezione dura, regole ferree. E molte di più ne ho conosciute quando facevo esami come precario a giurisprudenza.
Ho incontrato una cantante, una ragazza che girava il paese facendo giocoleria e clownerie, un assistente sociale, un rigger (quelli che costuiscono i palchi), una cronista poco più che ventenne tornata a studiare filosofia dopo anni di lavoro in una testata online che ha chiuso. E poi lezioni private. Tantissime lezioni private. Al nero.
I sostenitori della “choosy turn” al ministero dell’istruzione o del lavoro, recentemente e non a caso professori universitari, alcuni addirittura rettori, potrebbero chiedere, prima o dopo la lezione o un esame:
ma lei cosa fa quando non sta qui dentro?
Non lo chiedono mai, diversamente da Giovanna Cosenza.
Lavoro tanto, tanti precari in stage
Il consorzio bolognese Almalaurea ha dimostrato che a venticinque anni si è già lavorato e molto. Dal 2004 c’è stato un boom: +36%. Nel 2012, stage e tirocini hanno coinvolto 56 laureati su 100, le possibilità di trovare un’occupazione sarebbero aumentate del 12%. Rispetto al 2004, queste attività coinvolgevano 20 laureati pre-riforma su 100. Dunque stage e tirocini sono aumentati del 36% in otto anni, con punte del 68% tra i laureati triennali e del 72% tra i magistrali. La stragrande dei ragazzi ha svolto almeno uno stage prima dei 25 anni. Le discipline dov’è più intenso il ricorso allo stage o al tirocinio sono quelle mediche o sanitarie (84%), segue l’insegnamento (83%) e il settore chimico-farmaceutico (vedi figura a destra). In aumento le attività di formazione al lavoro anche tra le discipline giuridiche (nel 2012 al 13%). Il 22% dei laureati ha svolto tirocini con oltre 400 ore, la maggior parte delle quali si sono svolte fuori dalle università, ad eccezione di medicina e odontoiatria e per il gruppo geo-biologico. Tra i diplomati il 42% ha svolto uno stage di lunga durata (oltre 150 ore), il 48% uno stage entro le 80 ore.
Come fa un ministro, per di più rettrice, a non essersi accorta di questa trasformazione è in corso da 10 anni almeno, ed è così evidente da avere cambiato le abitudini dell’intera popolazione studentesca?
Il connubio tra professore ordinario e paternalismo è un classico da libro cuore. Chi sta dietro alla cattedra non può non dire ai “giovani”: vai a lavorare sfaticato, vuoi restare sfigato a vita? Il punto è un altro: i ragazzi lavorano, sono sempre più precari, si guadagnano da vivere, con l’aiuto dei genitori. Ma i ministri, la classe docente – in una parola: i “dirigenti” – non se ne accorgono.
Dimenticanza? Rimozione?
Cercasi apprendista tutto l’anno
Si dice che per i giovani ci sono molti posti di lavoro, da cameriere o da pizzaiolo, ma nessuno li vuole. C’è anche il sotto-argomento: ci sono migliaia di posti qualificati che i giovani non vogliono, perché a loro di lavorare proprio non gli va. E se gli va, è colpa della scuola e dell’università che non insegnano ad essere disponibili, pronti a tutto pur di prendere al volo l’occasione.
In questo inizio di anno scolastico lo ha ribadito il sottosegretario all’Istruzione Gabriele Toccafondi nel corso dell’inaugurazione dell’anno scolastico in un professionale di Prato.
Con l’aggiunta di uno dei luoghi comuni preferiti dalle piccole e medie imprese: i posti di lavoro ci sarebbero, le aziende che cercano «figure professionali qualificate» sono 137 mila, ma poche di loro le trovano. La responsabilità sarebbe della scuola che non prepara al lavoro in un paese dove la disoccupazione giovanile tra i 15 e i 24 anni ha superato il 39%.
E’ chiaramente un’imprecisione o, a pensare male, una falsità. Dire che in Italia ci sono 137 mila posti disponibili senza indicare i nomi delle aziende, i ruoli, le mansioni è totalmente inutile da un punto di vista pratico; è come se i servizi segreti avvertissero il ministro dell’interno di un probabile atto di terrorismo in Europa senza fornire informazioni precise.
Prima di citare questi dati, che valgono anche nel caso dei camerieri dei pizzaioli e degli assistenti di libreria, bisognerebbe leggere le Comunicazioni obbligatorie del Ministero del lavoro che misurano i posti di lavoro in entrata e in uscita. Non si tratta di un censimento preciso, visto che il turn-over nel precariato è altissimo, e si parla sempre di figure del lavoro altamente intercambiabili. Si apprendono una serie di elementi utili: l’80% delle nuove “assunzioni” sono “atipiche”, ogni anno vengono “avviati” 10 milioni di contratti e contemporaneamente terminano più di 9 milioni di contratti. Dunque si dà il caso che una stessa persona possa avere più contratti in un solo anno, e possa restare disoccupata più volte all’anno.
Questa è la reale condizione del “giovane disoccupato” che sarebbe meglio considerare un intermittente che alterna occupazione e disoccupazione, studio e lavoro, inoccupazione e lavoro nero o informale. Insomma tutto ciò che non appare nelle statistiche ufficiali e tanto meno dietro la cattedra dove si formano le “classi dirigenti”.
Analisi e testimonianze che decostruiscono pezzo a pezzo la retorica dei giovani “choosy e bamboccioni”:
– Diffidate di chi dice che ci sono tanti posti di lavoro
– Cerchi di capire prof, sono vecchia. Ho 26 anni
– Ho vent’anni. Non lascerò dire a nessuno che sono uno startupper
– L’Ingratitudine Della Choosy Nation
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Non sai fare la pizza? Impara!
Resta da capire perché i professoroni (e i giornaloni che leggono a colazione) abbiano maturato un’idea così sprezzante dei ragazzi a cui fanno lezione. Mi affido alle ipotesi dei due blogger che in questi anni hanno analizzato con profondità questo aspetto.
Per Blicero è in atto una “rivoluzione culturale”
C’è un posto da panettiere? Buttati. Non sai fare la pizza? Impara. Non riesci a smuovere quella zolla? Muovi il culo. Non sai usare trapano e chiave inglese? Applicati. Sei scoraggiato? Sei un fallito – e aggiorna quel cazzo di curriculum. Vuoi studiare? Lascia perdere: il mercato ritiene che sia inutile.
Per Jumpinshark all’origine di questa narrazione, che i dominanti hanno creato a proprio uso e consumo, e infliggono ai loro subordinati c’è l’idea che
il lavoro superprecario è invece il meglio a cui si possa, “rimanendo coi piedi per terra”, sperare; accettabili anche, per il famigerato “fare esperienza”, gli stage gratuiti e le altre prese in giro non retribuite chiamate, con briosa innovazione linguistica, lavoro.
Ho 25 anni e non lascerò dire a nessuno che non ho mai lavorato.
da “La furia dei cervelli“, 14 settembre 2013
Può, di grazia, farci sapere la ministra quanti giorni invece ha dovuto lavorare lei per mantenersi agli studi?
“Ma lei cosa fa quando non sta qui dentro?”
Qui a Ingegneria nessuno osa porre la domanda, non fosse altro perché la risposta è scontata: quando non sta in dip. a seguire le lezioni o a studiare (in condizioni spesso tutt’altro che favorevoli) lo studente studia a casa.
E poi -auspicabilmente- vive un po’ nel tempo libero, che non è molto.
Fare lo studente universitario, cioè frequentando e studiando per gli esami, è un lavoro a tempo pieno.
Accettare il discorso della Carrozza (che è poi quello degli economisti colla desinenza in consonante) vuol dire svalutare il LAVORO degli studenti e, come immediata conseguenza, il nostro.
Avere esperienze lavorative, più o meno brevi e qualificanti, durante il periodo di studi, alle superiori o all’università, è un valore positivo per se stessi, in quanto dà modo al ragazzo di orientare un po’ meglio la sua vita. Ovviamente questo dev’essere fatto compatibilmente con gli impegni di studio, che all’università, se fatta seriamente, non lasciano moltissimo tempo libero – mentre i lavoretti estivi per le superiori sarebbero molto positivi. Questo lo dico al netto di tutte le critiche mosse nell’articolo, che mi sembrano non troppo legate alla battuta della ministra ma ad una situazione più generale.
poco male, pensa – forse – il ministro, se il lavoro sara’ in nero, sottopagato oppure, opzione ideale, “a gratise”.
eppoi: am dedicarsi a tempo pieno allo studio è una cosa davvero lontana dal concetto lavorare ? e se la risposta è si perché è possibile riscattare ai fini pensionistici gli anni di università ?
Twittare la domanda alla ministra! Tanto comunica quasi solo con quel mezzo!