Roars con questo articolo intende portare il proprio contributo al dibattito sull’importanza della cultura umanistica e sui rischi che si corrono con un suo definanziamento; e questo non nell’ottica della svalutazione della cultura scientifica, ma piuttosto nella convinzione di una loro reciproca e necessaria fecondazione. Si apre pertanto un discorso – le cui coordinate di fondo sono poste nell’articolo qui pubblicato – che abbiamo intenzione di proseguire con ulteriori approfondimenti e contributi.
Redazione di Roars
A proposito del “Manifesto” in difesa degli studi umanistici di Esposito, Galli della Loggia e Asor Rosa
L’appello per gli studi umanistici scritto da Roberto Esposito, Ernesto Galli della Loggia e Alberto Asor Rosa (pubblicato sull’ultimo numero de Il Mulino, e che ora sta circolando come documento tra le società scientifiche per sollecitare una vasta adesione da parte della comunità degli studiosi) giunge opportuno per richiamare l’attenzione della cultura italiana (non oso sperare in quella dei politici) sul deperimento che sta subendo da alcuni decenni un settore della cultura e della ricerca italiana che sinora ha rappresentato un asse portante dell’identità culturale della nazione. E in effetti si mette giustamente nella dovuta luce come grazie a questa specifica cultura – e non a quella scientifico-tecnica, di per sé universalizzante e quindi meno legata alle specifiche storie nazionali – venga ad edificarsi il senso civile e l’identità di una nazione, che altrimenti andrebbe smarrito insieme alla memoria del proprio passato e alle motivazioni che hanno fatto essere l’oggi quello che è. Considerazioni tutte da condividere, specie quando si rivolgono a stigmatizzare le più recenti tendenze espresse nell’ambito della politica universitaria, dove il concetto di valutazione – e le connesse procedure messe in atto dall’Anvur – hanno finito per mortificare la specificità della cultura umanistica; tendenze nella sostanza cablate su modelli procedurali tratti dalle scienze ingegneristiche e tecniche. E a ciò ha fatto da controcanto una generale svalutazione della conoscenza umanistica in quanto con essa “non si mangia”, ovvero non è foriera di quello sviluppo tecnologico ed economico cui anche la ricerca scientifica dovrebbe essere piegata.
Eppure questo discorso mi pare che colga solo metà del problema: esso si concentra sull’importanza delle scienze umanistiche in quanto tali, cioè in quanto cultura e formazione della coscienza civile e del tessuto sociale di una nazione, in quanto “attività dello spirito”, di per sé da coltivare, perché la loro valenza e significato consiste nel fornire all’uomo in genere la possibilità di dare senso alla propria esistenza, di cogliere il proprio posto nel mondo, di rispondere ai suoi interrogativi vitali ed esistenziali non immediatamente legati alla sfera riproduttiva (in senso lato), di farlo diventare ‘migliore’ (è anche il tema del recente bel libro di Nuccio Ordine sull’Utilità dell’inutile, Bompiani 2013, su cui avremo modo di tornare). È una ricerca di senso testimoniata da manifestazioni di successo in cui anche le discipline umanistiche dimostrano di ricevere un’attenzione e una partecipazione di pubblico inaspettata e significativa. Il gran numero di persone che accorrono ai festival di letteratura e di filosofia – che non sono certo tutti letterati, ma comprendono anche gente provenienti da professioni e attività in cui le scienze umane non sono praticate quotidianamente – testimonia di un bisogno, di un’esigenza di formazione e di perfezionamento ‘interiore’ o umana che non può essere soddisfatta da una mera attività di tipo tecnico o applicativo.
Ma – dicevo – questo discorso risulta monco, incompleto e per ciò stesso depotenziato nella sua capacità di cogliere in modo radicale il problema nella sua interezza, che non è solo quello del valore in sé della cultura umanistica, cioè di un discorso fatto dagli umanisti – dai filosofi, dai letterati, dagli storici – in difesa del proprio sapere o della propria categoria, in modo da preservare un territorio che si restringe sempre più: in spazi istituzionali (nelle università e nelle scuole) e in finanziamenti per la riccerca, sino al dileggio per la loro inutilità, come ha recentemente fatto il premier australiano: a che serve infatti una ricerca su “Il concetto di Dio nell’idealismo post-kantiano di Hegel”? [1]. Fa forse aumentare il Pil di un paese? Introduce nuove tecnologie nella produzione di microchip?
Mi sembra, in sostanza che sia un discorso parziale perché non prende in considerazione quella necessaria relazione che la cultura umanistica ha sempre avuto proprio con le scienze e la stessa tecnologia e perché non coglie affatto il significato di quella “società della conoscenza” che si va affermando sempre più su scala globale e la cui implementazione è – almeno a livello verbale – nelle intenzioni della nostra classe politica. E cominciamo proprio da quest’ultimo punto, per cercare poi di articolare anche l’altro.
1. Come ho già scritto altrove [2], la società della conoscenza nasce dalla consapevolezza sempre più diffusa della rilevanza crescente nella produzione dei beni economici assunta dalla scienza, per cui si parla più nello specifico di “economia della conoscenza”, caratterizzata dall’alta intensità di sapere immesso nei prodotti e nelle merci e dall’importanza sempre crescente del cosiddetto “capitale intangibile”. Nell’economia della conoscenza si ha infatti uno passaggio dall’importanza che gli input di carattere materiale hanno nei processi produttivi a quella assunta dagli input simbolici. E ciò in un duplice senso: come economia che incorpora sempre più conoscenza nei prodotti immessi sul mercato – sicché può esser affermato che oggi noi compriamo “sapere congelato” (è stato calcolato che il contenuto di conoscenza scientifica e ingegneristica dei prodotti industriali era di circa il 5% nel 1945, del 16% nel 2004, per arrivare a una previsione di circa il 20% nel 2020) [3]; e come economia in cui la conoscenza diventa progressivamente una merce, per cui l’attività economica è rappresentata in misura crescente dalla produzione e dal consumo di informazioni, ovvero da una produzione di informazione in forma di merce.
L’origine di questa epocale trasformazione economica è comunemente individuata negli Stati Uniti del secondo dopoguerra, in conseguenza del grande sforzo effettuato a seguito della competizione tecnologica con l’Unione Sovietica, quando il governo americano comprese l’importanza di investire in R&S per la sicurezza nazionale e per il primato economico e militare sulle altre nazioni. In questo contesto si inserisce l’azione dell’ingegnere elettrico Vannevar Bush, al quale fu affidato dal presidente Roosevelt con una famosa lettera del 17 novembre del 1944, l’incarico di fornire ‘raccomandazioni’ su come il governo federale avrebbe potuto incoraggiare lo sviluppo della ricerca nelle istituzioni pubbliche e private. Era in pratica un invito a presentare un piano per il sostegno pubblico alla ricerca universitaria. Lo storico rapporto scritto da Bush – Science The Endless Frontier (luglio 1945) – andò ben oltre le aspettative del presidente Roosevelt, in quanto non offrì solo delle soluzioni contingenti rispetto agli obiettivi specifici da lui indicati, ma «costituisce un’ampia ed attentamente ragionata giustificazione del ruolo chiave rivestito dalla scienza di base» [4] e, in particolare, dalla ricerca effettuata in college, università ed istituti di ricerca, ritenuta fondamentale per lo sviluppo economico, sociale e democratico del paese. Non ci interessa qui esaminare le conseguenze che questo rapporto ha avuto sulla politica della scienza degli Stati Uniti; ci basti solo osservare che fu dietro suo impulso che si ebbe lo straordinario sforzo che portò all’eccellenza le università americane e permise al paese di diventare leader nelle tencologie più avanzate.
Ad essere rilevanti – ai fini del nostro discorso – sono due punti, che poi strettamente si interlacciano e interessano il discorso che qui vogliamo fare. Innanzi tutto la tesi che il sostegno alla ricerca scientifica passa innanzi tutto per lo sviluppo della ricerca di base finanziata dal governo federale, in quanto Bush era ben consapevole che le industrie e l’apparato produttivo erano troppo legati all’immediato ritorno in profitto degli investimenti per effettuare piani di finanziamento di lungo periodo, dagli esiti incerti. E senza ricerca di base, la possibilità dello sviluppo tecnologico si inaridisce e finisce per disseccarsi. Come Bush scrive efficacemente nel suo rapporto, «la ricerca è l’esplorazione dell’ignoto ed è necessariamente speculativa. Essa è inibita dagli approcci, dalle tradizioni e dagli standards convenzionali. Non può essere condotta in modo soddisfacente in un’atmosfera dove è monitorata e controllata dai nostri standard produttivi. La ricerca scientifica di base non dovrebbe, pertanto, essere sottoposta al controllo di una agenzia operativa il cui interesse complessivo non sia esclusivamente quello della ricerca. La ricerca soffrirà sempre dall’essere messa in competizione con le esigenze operative» [5]. E ciò nella consapevolezza della imprevedibilità dei risultati e della inevitabilità di una certa dispersione di fondi: «Una delle peculiarità della scienza di base è la varietà di percorsi che portano a uno sviluppo produttivo. Molte delle più importanti scoperte sono arrivate come risultato di esperimenti intrapresi avendo in mente scopi molto differenti. Statisticamente è certo che scoperte importanti e altamente utili risulteranno solo da una frazione di iniziative della scienza di base; ma i risultati di qualsivoglia particolare indagine non possono essere predetti con accuratezza» [6].
In secondo luogo, in Bush – pur nel contesto di un discorso tutto dedicato all’importanza della cultura scientifica e molto segnato da preoccupazioni di natura militare – emerge la consapevolezza che la ricerca di base e lo sviluppo della scienza sarebbe impossibile senza una interazione con le scienze umane e sociali. In modo inequivoco e straordinariamente attuale egli fa un avvertimento (“A Note of Warning”): «sarebbe una follia intraprendere un programma nel quale la ricerca nelle scienze naturali e in medicina fosse estesa a discapito delle scienze sociali, di quelle umane e di altri studi così essenziali al benessere nazionale» [7]. Non solo, ma nel rapporto del comitato per la scoperta e lo sviluppo dei nuovi talenti scientifici (uno dei comitati creati da Bush per contribuire alla redazione del rapporto complessivo), diretto da H.A. Moe, si sottolinea l’importanza delle scienze umane affinché le stesse scienze naturali possano svilupparsi: una sproporzione negli investimenti a favore di queste ultime non solo sarebbe di danno alla nazione, ma “azzopperebbe” la stessa scienza, in quanto «Science cannot live by and unto itself alone» [8]. Infine Bush esprime la ferma convinzione del carattere unitario della ricerca, per cui una eccessiva specializzazione e separazione degli scienziati in compartimenti stagni è ritenuta assai dannosa: «la separazione delle scienze in ristrette compartimentazioni […] ritarderebbe piuttosto che far avanzare la conoscenza scientifica nel suo complesso» [9].
Come si vede, alla base del programma che inaugurò la società della conoscenza negli Stati Uniti v’è una convinzione di fondo: l’importanza della ricerca di base e la consapevolezza della sua “natura speculativa”, motivata solo dalla curiosità degli scienziati e non immediatamente subordinata alle esigenze produttive; ma accanto ad essa, e nonostante non sia questo il tema principale del rapporto di Bush, v’è anche l’idea della fruttuosità della interazione tra ricerca scientifica di base e scienze umane, che ha una sua concreta forma di attuazione in quell’originale ordinamento delle università americane che porta alla ‘graduation’ mediante due percorsi: il major, che è finalizzato alla specializzazione prevalente dello studente e il minor che può concernere altre discipline di natura diversa, sicché alla fine è possibile che uno studente sia laureato (‘graduate’) in, mettiamo, “fisica (major) e filosofia (minor)” o “archeologia e informatica”, e così via. Questa caratterizzazione – che ancora informa l’ordinamento universitario americano – è proprio il contrario di quanto si sta facendo e si è fatto in Italia: una compartimentalizzazione delle discipline in corsi di lauree caratterizzate dalla monocultura in un certo campo del sapere e dalla sempre maggiore specializzazione; e la pretesa di indirizzare la ricerca quasi esclusivamente a fini applicativi, anche nelle cosiddette scienze ‘dure’, sacrificando quella di base e quindi il loro versante ‘speculativo’, dettato dalla mera ‘curiosità’ degli scienziati.
2. Quanto detto ci porta a un discorso più complesso e più delicato, di cui oggi v’è una scarsa consapevolezza, anche se in passato non è stato così. Donde nasce, infatti la creatività, cioè la capacità di percorrere nuove strade, di inventare nuove teorie, di produrre quindi innovazione e ricerca non meramente ripetitiva o applicativa di cose già note? Insomma, donde nasce l’impulso per quella scienza ‘straordinaria’ che vada al di là dei ‘paradigmi’ consolidati, per usare una immagine invalsa nella letteratura epistemologica, dopo Kuhn?
Un sociologo americano, che ha avuto anche una discreta notorietà in Italia, Richard Florida, ha pubblicato numerosi studi (ad es. sulla Silicon Valley) in cui ha sostenuto che la creatività e l’innovazione sono maggiormente stimolate nelle regioni ricche di culture differenti: esiste infatti una correlazione positiva tra alti indici di sviluppo economico e tessuto sociale in cui esistano tolleranza, capacità di rottura delle convenzioni, apertura mentale. Come dice Florida, le aree di più intenso sviluppo, specie nell’high-tech, sono contraddistinte da alta qualità della vita, da ridotta diseguaglianza sociale e da assenza di discriminazione razziale. Un altro elemento decisivo per la creatività è la presenza di interessi culturali diversi e variegati, sicché egli ha proposto il cosiddetto “bohemian index”, «per misurare il numero di scrittori, designer, musicisti, attori, registi, pittori, scultori, fotografi, e ballerini in una regione». La sua tesi è che molte delle regioni che possiedono un alto “bohemian index” manifestano anche una concentrazione di industrie high-tech e un incremento della popolazione e dell’occupazione [10].
A sostegno della tesi di Florida è giunto anche un report del 2008 delle Nazioni Unite sulla Creative economy, in cui è evidenziata la nascita di un nuovo “paradigma di sviluppo”, che collega l’economia e la cultura, abbracciando l’aspetto economico, culturale, tecnologico e sociale dello sviluppo sia a livello macro che micro. Al centro del nuovo paradigma è il fatto che la creatività, la conoscenza e l’accesso alle informazioni sono sempre più riconosciuti come potenti motori trainanti della crescita economica, promuovendo lo sviluppo in un mondo globalizzato [11]. La “creative economy” è quindi un concetto olistico che comporta uno slittamento di accento dai modelli convenzionali ad uno multidisciplinare, che costituisca l’interfaccia fra economia, cultura e tecnologia e sia centrato sul rilievo dato ai servizi e ai contenuti creativi.
Ancora più recente è lo studio sull’importanza della cultura per la creatività effettuato dal KEA, un gruppo di ricerca di Bruxelles diretto da Philippe Kern e specializzato dal 1998 nel settore dell’industria creativa, che spesso compie ricerche per conto della Commissione Europea. Ebbene, esso sottolinea l’importanza della cultura in generale – intendendo con essa la musica, le arti visive, il cinema, la poesia – quale «motore di innovazione economica e sociale» [12]. Tale studio denunzia la scarsa considerazione del ruolo del settore creativo non legato alla R&S, che porta ad avallare l’idea assai diffusa per la quale arti e cultura siano più degli ‘ornamenti’ della vita umana che dei fattori essenziali alla sua crescita e al suo sviluppo; sono degli spazi ‘ricreativi’ utili a riposare la mente o a interrompere il lavoro e le attività veramente indispensabili con forme diverse di ‘intrattenimento’, per cui sono marginali in termini economici o addirittura settori in perdita, che abbisognano dell’intervento pubblico allo stesso modo di come la salute deve essere garantita dallo stato. Non solo, ma il KEA pone l’accento su «[…] come la cultura promuova l’integrazione europea e sia uno strumento chiave per integrare le varie componenti delle società europee in tutte le loro diversità, per forgiare il senso di appartenenza, nonché per diffondere valori democratici e sociali. La cultura può contribuire a ‘sedurre’ i cittadini europei all’idea di integrazione europea» [13].
È ai fini del discorso che intendiamo svolgere qui di particolare importanza il fatto che nei vari rapporti pubblicati dal KEA venga sottolineata l’importanza che hanno le cosiddette discipline umanistiche. Non è infatti possibile una efficace politica per l’innovazione e la crescita economica se si mette da parte questo ricco patrimonio che è il deposito della cultura umana, il frutto della sua creatività secolare: «La creatività basata sulla cultura è un potente strumento di rovesciamento delle norme e delle convenzioni che permette di emergere nel mezzo di una intensa competizione economica. Le persone creative e gli artisti sono essenziali perché sviluppano le idee, le metafore e i messaggi che aiutano a guidare le interazioni e le esperienze sociali. Il successo di Apple è intrinsecamente legato alla visione del fondatore per la quale la tecnologia, il marketing e le vendite da soli non sono sufficienti a garantire il successo aziendale. Un fattore chiave è quello di avere persone che credono fortemente nei valori dell’azienda e che si identificano con essa quali creatori e innovatori – la campagna pubblicitaria “Think different” che ha utilizzato Picasso, Einstein, Gandhi è stata descritta da Steve Jobs come un modo per la società di ricordare chi sono gli eroi e chi è Apple. Apple è riuscita a creare quell’empatia verso la tecnologia che altre aziende tecnologiche non sono riuscite a procurare. L’estetica della gamma dei prodotti, attraverso un design innovativo, è stato anche all’origine del successo» [14].
Non è un caso che gli “ambasciatori dell’anno creativo”, lanciato dall’ EU nel 2009, abbiano ritenuto importante sottolineare il ruolo decisivo dell’arte in stretta connessione con la filosofia e la scienza [15]. Infatti i saperi scientifici, se vogliono alimentare la propria vena creativa, dovrebbero attingere la forma mentis corretta da quelle discipline che si sono distinte nel “pensiero divergente”. E non è un mero caso che la Finlandia – uno dei paesi che negli ultimi anni si è affermato per la sua maggior capacità innovativa scalando i vertici dei ranking mondiali ed europei – abbia operato un progressivo riorientamento, passando «dalla innovazione guidata dalla tecnologia verso una innovazione più centrata sull’uomo» [16].
Ma basta scorrere un po’ la letteratura sulla società della conoscenza, sui problemi dell’innovazione, sulla creatività e così via, per avere una chiara consapevolezza di quanto sia importante l’interazione tra scienze umane e scienze naturali di base. Per cui, se è vero che le industrie ad alta intensità di conoscenza rappresentano sicuramente un importante motore di sviluppo nella società della conoscenza, tuttavia non è possibile pensare che l’economia creativa sia solo un loro appannaggio, cioè una questione da risolvere all’interno del settore produttivo. È indispensabile porre anche l’accento sul contesto formativo e di istruzione nel quale la persona è inserita, che costituisce (insieme alla competenza tecnica e alle capacità personali) uno degli elementi fondamentali affinché essa possa aver luogo.
3. Del resto anche una riflessione di carattere storico sullo sviluppo della cultura umana e della scienza non può che confermare questa stretta interrelazione. E di essa i grandi scienziati ne hanno avuto sempre consapevolezza. Ad es. Werner Heisenberg ha più volte sottolineato lo stretto nesso tra fisica e filosofia e come «certi sviluppi erronei nella teorie delle particelle elementari […] dipendano dal fatto che i loro autori sostengono di non volere occuparsi di filosofia, mentre in realtà partono inconsapevolmente da una scadente filosofia e quindi, a causa di pregiudizi, cadono in domande prive di significato. Esagerando un po’ si può forse affermare che la buona fisica è stata involontariamente corrotta dalla cattiva filosofia» [17]. Ma con lui, tutta la grande generazione dei fisici che hanno edificato la scienza contemporanea ha di ciò avuto profonda consapevolezza; essi erano lungi dal coltivare in modo monomaniaco i propri interessi di fisica, ma cercavano di trarre ispirazione da concetti e prospettive più ampie, ad es. frequentando anche i corsi di filosofia durante la propria formazione accademica (nelle università tedesche di stampo humboldtiano del ’900 ciò era possibile).
Non parliamo di un passato archeologico, ormai definitivamente tramontato; tale consapevolezza è anche presente nelle odierne ricerche di punta. Ad es. il fisico statunitense Lee Smolin, discutendo di quello che a suo avviso è il fiasco rappresentato dalla teoria delle stringhe (e della fisica dagli anni ’80 in poi), afferma: «I think the problem is not string theory, per se. It goes deeper, to a whole methodology and style of research. The great physicists of the beginning of the 20th century – Einstein, Bohr, Mach, Boltzmann, Poincaré, Schrodinger, Heisenberg – thought of theoretical physics as a philosophical endeavor. They were motivated by philosophical problems, and they often discussed their scientific problems in the light of a philosophical tradition in which they were at home. For them, calculations were secondary to a deepening of their conceptual understanding of nature. After the success of quantum mechanics in the 1920s, this philosophical way of doing theoretical physics gradually lost out to a more pragmatic, hard-nosed style of research. […] It was felt that while a philosophical approach may have been necessary to invent quantum theory and relativity, thereafter the need was for physicists who could work pragmatically, ignore the foundational problems, accept quantum mechanics as given, and go on to use it» [18]. E il fisico giapponese Michiu Kaku ha recentemente sottolineato come sia stato l’utilizzo dei testi filosofici di Hegel ed Engels da parte del gruppo di fisici giapponesi intorno a Shoichi Sakata a suggerire loro la teoria della materia come un insieme infinito di sottolivelli o mondi dentro mondi (teoria a cipolla) [19].
Anche in questo campo gli esempi potrebbero essere moltiplicati a dismisura, per cui evitiamo di insistere ulteriormente, rinviando all’ampia letteratura esistente in merito. Ciò che invece vale la pena di osservare è che questo processo di interazione non deve essere considerato in modo unidirezionale, come un guadagno che le scienze naturali acquisiscono dalla loro fecondazione con quelle umane. Infatti vale anche il contrario e vi sono stati parimenti filosofi e umanisti che in vari momenti storici lo hanno sottolineato. Per restare alla cultura italiana, basti pensare a come Giovanni Vailati già all’inizio del ’900 avesse ritenuto impossibile «che la filosofia possa essere coltivata con profitto e con decoro da chi non sia stato prima assoggettato a una severa disciplina scientifica e non si sia personalmente esercitato in qualche speciale indagine positiva» [20]. Un’idea condivisa anche dal marxista Antonio Labriola, in favore dell’integrazione nello studio universitario tra discipline scientifiche e filosofiche, in quanto lo studio meramente letterario e filologico della filosofia porta al suo decadimento e ad esser preda delle ‘razzie’ pseudoscientifiche di filosofi digiuni di scienza. Una tematica che è stata in tempi più recenti uno dei cavalli di battaglia di Ludovico Geymonat e di molti altri filosofi e scienziati italiani.
Ma in Italia ha prevalso – più che in altri paesi – una cultura della separazione, l’idea che la commistione dei linguaggi fosse nociva sia agli umanisti che agli scienziati: la filosofia (ma questo discorso si potrebbe estendere facilmente anche alle altre scienze umanistiche) doveva essere insegnata solo nelle facoltà di lettere e doveva essere tenuta distinta dalla scienza in modo netto, perché essa aveva una sua peculiarità (la “coltivazione dell’anima”) e una vocazione al sapere dalla quale si riteneva fossero escluse le scienze naturali e sperimentali (la chiusura del fascismo e l’egemonia della cultura umanistica di impianto crociano e gentiliano non sono state irrilevanti per questo esito). E da parte loro gli scienziati – anche per preservare la propria autonomia dalle possibili invasioni di campo dell’ideologia, specie durante il fascismo e nel fosco periodo dello stalinismo culturale (non si dimentichi il caso Lysenko) – si sono rinserrati nel loro specialismo, ritenendo tutte le altre discipline un coacervo di chiacchiere retoriche che poco o nulla potevano insegnare allo scienziato pensoso sui propri apparati tecnici. E così allo scienziato non restava poi che cercare delle compensazioni alla ‘aridità’ del proprio lavoro al di fuori del laboratorio, quando ne chiudeva le porte alle proprie spalle: andando a sentire un concerto, godendosi di una rappresentazione teatrale, leggendo un romanzo e immergendosi nella letteratura di qualche classico dell’antica romanità o grecità. Per contro l’umanista – del tutto digiuno di qualsiasi competenza tecnica e scientifica – poteva accedere alle mirabolanti scoperte dalla scienza attraverso la letteratura divulgativa e spesso sensazionalistica o poteva cercare uno suo paradossale surrogato tra le pagine della Settimana Enigmistica.
Sicché il pericolo oggi viene da due opposte retoriche: quella ‘umanistecciante’ e quella ‘scientizzante’. Per la prima esistono problemi e ambiti dell’umano per le quali la scienza non solo non potrà mai fornire risposte, ma la cui conoscenza si dimostra del tutto inutile all’operare del filosofo e dell’umanista, che nulla ha da apprendere da essa se non un’arida tecnica priva di spessore significativo; perché – si sa – le scienze “non pensano”, secondo la famosa affermazione di Heidegger. Per la seconda retorica, invece, la scienza nel corso del suo progresso non solo sarà in grado di rispondere a tutti i problemi dell’uomo, ma anzi farà questo tanto meglio quanto più non si lascia inquinare dalle scienze umane e dalle loro connesse ‘ideologie’, che nulla hanno da apportare di positivo se non confondere le teste con una massa di chiacchiere prive di rigore e di metodo.
4. Si capisce allora, dopo quanto detto, dove sia la parzialità (ma non la inesattezza) di un Manifesto quale quello firmato dai tre illustri studiosi: esso trascura il fatto che le scienze umane non sono solo importanti di per sé, in quanto ‘cultura’, e per i loro riflessi che hanno sul tessuto civile di un paese – aspetto sacrosanto e che non voglio qui mettere in dubbio; ma ancora più sono importanti per la stessa scienza e per lo sviluppo tecnologico di quella società della conoscenza che si vorrebbe – almeno a parole – promuovere: recidendo l’albero della cultura umanistica, la scienza fa cadere l’appoggio sul quale essa stessa è assisa, perché solo da un più ampio contesto di idee, da un mischiarsi di linguaggi e prospettive, da un intersecarsi di competenze, può trarre alimento quella creatività, si possono formare quelle menti aperte e plastiche che conducono all’innovazione e all’invenzione scientifica e quindi al progresso economico della medesima società della conoscenza.
Se si trascura tutto ciò, se si perde la consapevolezza di questa indispensabile e reciproca integrazione si finirà – da un lato – per essere filosofi e umanisti che si autoelidono da quei territori della conoscenza in cui dimostrano la loro efficacia e validità le scienze, nella loro accezione più ampia, così insterilendosi in una vacua coltivazione di meri discorsi su un “mondo di carta”, come avrebbe detto Galilei, dando quindi quell’impressione di inutilità e inclinazione alla retorica loro rimproverata; ma si finirebbe anche per essere – dall’altro lato – scienziati che, inconsapevoli di come la propria pratica e le proprie visioni del mondo affondino le loro radici in un contesto più ampio segnato dalle scienze umane e filosofiche, corrono il rischio di diventare ciechi consumatori delle filosofie alla moda e di cattivi saperi umanistici; o, peggio, credono di fare scienza laddove invece non fanno che riciclare o riproporre, con la spocchia di chi scopre il vero sapere, l’acqua calda già lungamente utilizzata e dibattuta nei saperi da loro disprezzati.
Un esempio paradigmatico di quanto può accadere in questo caso ci può essere fornito dall’illustre e molto mass-mediatico matematico Piergiorgio Odifreddi che tempo fa nel suo blog – nel criticare le lamentele degli umanisti per la non inclusione nel Consiglio direttivo dell’Anvur, l’Agenzia Nazionale di Valutazione dell’Università e della Ricerca, di rappresentanti delle proprie aree – ha fatto una tirata contro le scienze umane, contro le lingue morte (che appunto in quanto defunte a che serve ancora studiarle?), e contro la lobby umanistica nella scuola che, insieme alla cultura da essa rappresentata, «sta per finire inesorabilmente nel “cestino dei rifiuti della storia”» [21]. Un esempio tipico di cecità concettuale, questo. Infatti viene spontaneo domandarsi: quando Odifreddi scrive i suoi libri su argomenti non strettamente scientifici, tanto apprezzati e venduti, li riempie forse di simboli matematici e di formule? Sfogliamo ad esempio il suo Il Vangelo secondo la Scienza; scopriamo innanzi tutto che non vi sono formule matematiche, né leggi scientifiche o teoremi logici; constatiamo anche che tutte le sue argomentazioni fanno uso di studi e libri che appartengono alla tanto disprezzata tradizione umanista: ricerche di storia, di filosofia, di religione, di antropologia; sono citati Jung, Jean Guitton, il Dalai Lama, Dante, Kant e così via. Non mi risulta che siano utilizzati i teoremi e i risultati di Euclide, di Eudosso o di Hilbert per sostenere le tesi che stanno care a Odifreddi. Si veda ancora l’altro suo libro Perché non possiamo essere cristiani (e meno che mai cattolici): in esergo citazioni di Diderot e Saramago; quindi tutta l’argomentazione è costituita da una analisi storico-esegetica della Bibbia, che si appoggia alla letteratura critica su di essa. Anche qui niente formule né leggi scientifiche.
Che ‘mestiere’ dunque fa Odifreddi (o meglio, scimmiotta), quando scrive questi suoi volumi, se non quello dell’umanista? Di quale cultura si serve per sostenere le proprie tesi se non di quella umanista? Che tipo di argomentazione utilizza se non quella propria di ogni opera avente carattere umanistico? È appunto questo il destino di tutti gli scienziati miopi, degli ingegneri e dei tecnocrati ciechi: la filosofia e la cultura umanista si vendicano di loro, perché quando ambiscono di uscire fuori dallo specialismo rinserrato nelle formule e nel linguaggio tecnico specializzato e vogliono rivolgersi all’uomo in generale, e non al proprio collega di laboratorio, per discutere di tematiche che fuoriescono del loro esclusivo campo di ricerca, allora non possono far a meno di diventare filosofi, letterati, storici o antropologi; insomma non possono fare a meno di immergersi nella cultura umanista, attingendo da essa tesi, riflessioni, inflessioni di pensiero, stili argomentativi. È la vendetta di Giovanni Gentile, quando ammoniva: «[…] ogni uomo, lo scienziato compreso, è filosofo [ed] anche dal puro matematico, prima o poi si vedrà scappar fuori il filosofo. Intanto si abbia pazienza: calcoli egli e costruisca e si dilunghi come pare, dalla filosofia. Questa può aspettare, non ha fretta».
Ma anche senza indulgere in posizioni neoidealiste (per le quali la scienza è tout-court assorbita nella filosofia), è a mio avviso innegabile che solo la cultura umanistica è in grado di fornire un significato all’opera specialistica della scienza, non in quanto la sostituisce, ma perché la immette nel complesso della cultura umana, senza la quale non resterebbero che monconi di sapere privi di connessione e senza valore, incapaci di fruttificare e di incidere veramente sul destino dell’uomo. I grandi scienziati, come abbiamo visto, questo lo sanno bene. Solo i praticoni, gli apprendisti stregoni della tecnologia, i divulgatori scientisti, ciechi e abbacinati dalla supponenza per la propria eccellenza, dalla pretesa di essere i soli produttori di cultura ‘utile’, solo essi sono ignari di tutto ciò e propongono alla classe politica una visione del sapere che quest’ultima – a sua volta sempre più digiuna di ogni cultura, scientifica come anche umanistica o addirittura politica – finisce per far propria e su di essa orientare la politica della ricerca in tutti i campi, umanistici e scientifici. Ma costoro non sono né grandi scienziati né grandi politici: sono, ciascuno nel proprio campo, una ulteriore e forse terminale incarnazione di quel plebeismo cognitivo dell’Italia di oggi che sta per portare alla sua espulsione non solo dalla società della conoscenza, ma da ogni dominio culturale, visto che anche i suoi patrimoni cognitivi più celebrati e ammirati (si pensi solo al caso di Pompei), frutto di lunghi secoli di accumulo, vengono ormai sempre più dissipati nell’incuria e nell’indifferenza.
5. La rinascita della cultura e della ricerca in Italia non necessita di egoismi disciplinari, di discorsi alla “Cicero pro domo sua”, di esaltazione della indispensabilità di un settore a scapito di un altro; ha piuttosto bisogno di una visione del sapere più articolata, più complessiva, più adeguata alla sfida che la globalizzazione e i nuovi tempi pongono; una visione in cui i linguaggi specialistici abbiano la possibilità di interagire in tutta la loro ricchezza e molteplicità, in modo da reciprocamente fecondarsi, e in cui lo scienziato possa trovare ancora nutrimento nel leggere la Metafisica di Aristotele, La Repubblica di Platone o anche Verità e metodo di Gadamer e la Divina Commedia di Dante; in cui anche l’umanista possa apprezzare il rigore e la bellezza di un teorema matematico e quindi sia in grado di capire l’austero linguaggio dell’analisi e della logica, apprendendone lo stile di pensiero e il rigore, e così coltivando quell’amore per la precisione e la conseguenzialità che lo liberino dai discorsi fumosi e vaghi, retorici e fatui. Non è necessario essere specialisti in tutto, l’importante è, come in musica, “acquisire l’orecchio” e quindi essere in grado di intendere ed apprezzare la ‘musica’ suonata dagli altri. Perché solo ascoltando musiche diverse, interpretate da molti direttori d’orchestra, la mente umana sarà spinta alla creatività e potrà concepire quelle idee nuove e feconde che possono ancora aiutare l’umanità a superare quei problemi per i quali non bastano una tecnica disumanizzata o una cultura umanistica senza alcuna cognizione scientifica. E dove può tutto questo trovare il proprio luogo naturale se non nelle istituzioni educative, nei licei e soprattutto nelle università?
[1] Cfr. E. Delany, “Humanities Studies Under Strain Around the Globe”, The New York Times, 1 dicembre 2013.
[2] Cfr. F. Coniglione, Maledetta università. Fantasie e realtà sul sistema della ricerca in Italia, Di Girolamo, Trapani 2011. Ma una più articolata e complessiva esposizione dei temi legati alla società della conoscenza e a quanto è necessario per la sua implementazione in Europa la si può trovare nella ricerca effettuata per la Commissione europea: F. Coniglione et al., Through The Mirrors of Science, New Challenges for Knowledge-based Societies, Ontos Verlag, Heusenstamm 2010 (ed. it. Scienza e società nell’Europa della conoscenza. Nuovi saperi, epistemologia e politica della scienza per il terzo millennio, Bonanno Editore, Acireale-Roma 2010).
[3] Cfr. Manufuture High Level Group, A Vision for 2020, European Commission, Luxembourg 2004, p. 13.
[4] R.L. Geiger, Research and Relevant Knowledge. American Research Universities Since World War II, Oxford University Press, New York and Oxford 1993, p. 15. Il rapporto di Bush è stato ora pubblicato in italiano con un’ampia e accurata introduzione di Pietro Greco: V. Bush, Manifesto per la rinascita di una nazione. Scienza, la frontiera infinita, introd. di P. Greco, Bollati Boringhieri, Torino 2013.
[5] Bush, Science the Endless Frontier, National Science Foundation, Washington 1960, p. 32 (trad. it. cit. p. 132 – preferisco citare e tradurre dall’edizione americana).
[6] Ivi, pp. 18-9 (trad. it. p. 107).
[7] Ivi, p. 23 (trad. it. p.117).
[8] “Report of the Committee on Discovery and Development of Scientific Talent”, in op. cit., Appendix 4, pp. 142-3. Questa appendice non è stata inclusa nella trad. it. cit.
[9] Ivi, p. 32 (trad. it. p. 133).
[10] Cfr. R. Florida, Cities and the Creative Class, Routledge, New York and London 2005, passim.
[11] Cfr. United Nations, Creative Economy, Report 2008. In http://www.unctad.org/creative-economy.
[12] KEA European Affairs, The Impact of Culture on Creativity. A Study prepared for the European Commission, June. In http://www.keanet.eu/2009review.pdf.
[13] Ivi, p. 1.
[14] Ivi, p. 5.
[15] AA.VV., Manifesto for Creativity and Innovation in Europe, in http://www.create2009.europa.eu. Gli ‘ambasciatori’ sono 27 scienziati di tutti i campi, tra i quali figurano noti scienziati e artisti (a rappresentare l’Italia la sola Rita Levi-Montalcini), tra i quali il menzionato Florida, come anche dirigenti di aziende innovative (come Nokia e Microsoft).
[16] KEA European Affairs, op. cit., p. 9.
[17] W. Heisenberg, La tradizione nella scienza, Garzanti, Milano 1982, p. 85.
[18] L. Smolin, “A Crisis in Fundamental Physics”, in The New York Academy of Sciences Magazine, January-February 2006.
[19] Cfr. M. Kaku – J. Thompson, Oltre Einstein. La nuova fisica, l’indagine cosmica e la teoria dell’universo, Castelvecchi, Roma 2006, p. 73.
[20] G. Vailati, Scritti, a cura di M. Quaranta, vol. I, A. Forni, Sala Bolognese 1987, p. 224.
[21] http://odifreddi.blogautore.repubblica.it/2011/01/
Concordo in larga parte con le testi di Francesco Coniglione sull’impollinazione reciproca delle “due culture”. E’ sbagliato presupporre, come presuppongono i tre firmatari dell'”Appello”, che processi linguistici e immaginativi complessi non abbiano luogo nella ricerca scientifica e tecnologica. Ed è gravemente limitativo ritenere che le discipline storiche, filosofiche e soprattutto letterarie abbiano repertori prefissati e immutabili. E’ vero il contrario: il pensiero critico (l’indagine “socratica” di Nussbaum) trae alimento proprio dal confronto non occasionale con la cultura tecnica e scientifica. Ho un’opinione assai meno laudativa dell'”Appello” stesso e mi chiedo, soffermandomi tra le pieghe del testo e i suoi enigmatici silenzi: perché, tra tante vuote parole sulle “giovani generazioni” in università e non, manca un qualsiasi riferimento al tema del lavoro? Per un’archeologia dell'”Appello” (e di un’insensibilità patriarcale socialmente e storicamente determinata) occorrerebbe partire da lì. E magari 1_da alcune riflessioni di Giulio Bollati sull’intellettuale risorgimentale italiano, il suo tratto patrizio o curiale 2_altre riflessioni di Alfonso Berardinelli sugli “stili dell’estremismo” e la generazione di intellettuali (“uranici”) cresciuti tra le due guerre. Asor Rosa, suppongo, ha vergato buona parte del testo.
E’ indubbio che nella ricerca scientifica e tecnologica siano presenti processi linguistici e immaginativi. Così come è indubbio gli scienziati abbiano spesso interessi filosofi, grandi domande filosofiche. Dubito però che i filosofi possano fare grandi teorie sulle scienze: sono d’accordo con Feyerabend. La storia dell’informatica italiana dimostra che la società filosofica italiana non fu in grado di valutare l’importanza della “Perrottina” dell’Olivetti. Filosofi marxisti, cattolici, idealisti non capirono l’importanza del computer di Perrotti e questo dice tutto. Teniamo anche conto che dal 700 in poi le scienze si specializzano, i filosofi non sono più in grado di accedere al sapere scientifico, e cominciano a filosofare sulla storia, sulla politica, etc. Questo non significa che la filosofia non abbia un ruolo importante, anzi è inimaginabile un mondo senza filosofia, però rendiamoci conto che difficilmente dall’università italiana attuale potrà uscire un grande filosofo. L’appello di Asor Rosa, Galli della Loggia, Roberto Esposito è la difesa della parrocchietta. Non mi pare che gli storici e i filosofi britannici abbiano fatto un appello simile quando la Thatcher chiuse vari dipartimenti di storia e filosofia e prepensionò parecchi storici e filosofi. I filosofi marxisti russi addiirttura si licenziariono per patriottismo quando finì l’Urss. Soprattutto mi ha dato fastidio legare addirittura le sorti di questo disgraziato paese a quelle delle varie parrocchie umanistiche. E poi tutta quella retorica sull’identità scomparsa perché si legge meno La Divina Commedia e I Promessi Sposi. Chissà perché le tragedie di Shakespeare attraggono pubblico nei teatri, in tv, al cinema e i Promessi Sposi nn hanno lo stesso appeal. Quanto all’uso del termine identità, Galli della Loggia dice di rifersi a Locke, ma la teoria dell’identità di Locke non ha niente a che fare con la coscienza del passato, anzi. oer Locke si ripitturano continuamente i ricordi. E per Hume la memoria è piena di buchi e la gente ha numerose identità.Quindi anche tutto questo melodramma che senza la conoscenza del passato storico, filosofico e letterario non avremmo più identità nazionale è un’opinione dei tre estensori dell'”Appello”. Galli della Loggia usa il termine identità in modo errato. Anche nel famoso libro L’identità italiana, il termine da usare sarebbe stato sovranità, ma forse la parola era troppo impegnativa per il pubblico italiano. Per quanto riguarda l’apporto della cultura umanistica all’integrazione europeo supposto da Coniglione, gli Stati Uniti d’Europa non saranno mai possibili, come dice Sartori, proprio perché gli Ue non parlano la stessa lingua. D’altronde, uno stato europeo che ha mantenuto la sovranità come il Regno Unito non è entrato nell’euro e minaccia sempre di uscire dall’Ue.Mentre alla Russia, che ha un’idea forte della sovranità, non verrebbe mai in mente di entrare nell’Ue. L’Appello a dismettere le “paratie” ideologiche in difesa della parrocchietta è intellettualmente ridicolo, perché gli accademici italiani non si litigano per grandi passioni politiche, ma per difendere le loro parrocchiette. L’Appello poteva esserci risparmiato.
Non ho capito se lei risponde ai magnifici 3 autori dell’appello o a Francesco Coniglione, che mi pare asserisca cose diverse da quelle contenute nel testo di Asor Rosa & co.
In ogni caso, leggo:
“L’Appello a dismettere le “paratie” ideologiche in difesa della parrocchietta è intellettualmente ridicolo, perché gli accademici italiani non si litigano per grandi passioni politiche, ma per difendere le loro parrocchiette.” anche argomentazioni tanto modeste, se come mi pare di vedere vengono da una filosofa (accademica), potrebbero esserci risparmiate o sostituite da qualcosa di più consono a un dibattito serio.
kery: “Non mi pare che gli storici e i filosofi britannici abbiano fatto un appello simile quando la Thatcher chiuse vari dipartimenti di storia e filosofia e prepensionò parecchi storici e filosofi.”
=========================================
Ecco un articolo in piena era Thatcher (24 febbraio 1989):
__________________________________
Non che in UK queste preoccupazioni siano svanite ai giorni nostri:
__________________________________
“Government regulation of what is to be taught at universities has also had unfortunate effects. I am sceptical about the merits of protecting the STEM subjects (science, technology, engineering and mathematics) while allowing the range and content of courses in the humanities and social sciences to be determined by the market preferences of 18-year-olds. Where will the study of Chinese, Russian, German or even French be in 20 years if their fate is left to the market? Yet all are as essential for our economic future as for our understanding of other cultures”
(Keith Thomas, http://www.timeshighereducation.co.uk/421722.article)
Aggiungo che non mi pare che la Thatcher non abbia chiuso qualcosa. Tra l’altro, non credo che il governo possa chiudere dipartimenti in UK. Le chiusure, cui alludi, di alcuni dipartimenti di filosofia (sulla storia non saprei) sono più recenti, e sono il risultato di una tendenza di lungo periodo: la progressiva riduzione dei fondi governativi a sostegno delle università. Una politica che è stata portata avanti anche dal Labour. Per quel che riguarda le reazioni degli accademici a questi fenomeni, ci sono state, e sono del tutto trasversali, sia dal punto di vista politico sia da quello disciplinare, come mostra il sito del consiglio per la difesa delle università britanniche: http://cdbu.org.uk/
[…] che serve infatti una ricerca su “Il concetto di Dio nell’idealismo post-kantiano di Hegel”? [1]. Fa forse aumentare il Pil di un paese? Introduce nuove tecnologie nella produzione di […]
Un saggio che parte discretamente, per poi finire imbrigliato nella stessa logica che vorrebbe combattere. La tesi dell’autore è infatti che la cultura umanistica non è importante solo in sé e per sé, e che anzi questa sarebbe una prospettiva riduttiva. La cultura umanistica sarebbe importante in quanto costituirebbe la base sociale e culturale dello sviluppo economico (capitalistico) e tecnico.
Insomma, l’utilità economica che so voleva cacciare dalla porta è rientrata dalla finestra. Personalmente sto con la prospettiva di Asor Rosa, Esposito e Galli della Loggia: le scienze umane servono in sé e per sé. Certo sarebbe stato meglio se vecchi potentati accademici non ne avessero e non continuassero a farne strame. Ma questo è un altro discorso. Quel che conta è dire che le scienze umane non possono contare ‘solo’ nella misura in cui esse ‘preparano il terreno’ dello sviluppo, poiché questo renderebbe anche le filosofie contestative ‘funzionali’ a quel modello di sviluppo che intenderebbero contestare, e dunque fondamentalmente inutili quando non implicitamente complici.
Non ho sostenuto che gli studi umanistici non siano di per sé degni; ho affermato che ciò è vero, ma dice solo parte della verità, in quanto – anche a porsi nell’ottica di coloro che vogliono l’università e la ricerca esclusivamente rivolta a fini produttivi – essa ha una utilità aggiuntiva anche da questo punto di vista. E che – nel complesso e in generale – una reciproca integrazione e fecondazione di studi diversi sia utile sia gli scienziati sia agli umanisti, ma senza che nessuno voglia dare ammaestramenti agli altri, ma semplicemente facendo seriamente il proprio lavoro e stando attento a quelli che gli altri dicono e fanno. Se poi sia o no da accettare l’ottica della società della conoscenza e gli ideali e i presupposti che ne stanno alla base, questa è un’alta questione su cui – intenzionalmente – non ho preso posizione, perché non era questo il tema dell’articolo.
XAntonio Banfi: ripeto la cultura umanistica vale in sé per sé, non legata all'”identità” di questa o quella nazione, come affermano i magnifici tre. Concordo con francescomaria tedesco ne é stato fatto strame. Può darsi siano argomentazioni modeste, ma controbilanciano l’eccesso di retorica, che si ammanta di grandi ideali, ma alla fine esprime quasi sempre la difesa della propria parrocchia, un tipo di atteggiamento che Quentin Skinner definisce parocchialismo.
x Giuseppe Nicolao: L’articolo di Andrew Ridley non è un appello.E’ una posizione.
@Kery. D’accordo con Kery. L'”Appello” è un pedante, borioso autoconferimento di delega. E il pensiero dell'”origine” manca di ogni precisione nel trattare di processi sociali, demografici ed economici in atto. La tesi secondo cui solo la conoscenza (“abissale”) del passato abilita a progettare il rifiuto è una mera petizione di principio vetero-idealistica. Il duplice rifiuto 1_del dibattito sovranazionale sulle Humanities e 2_del “progressismo illuminista e romantico” di Nussbaum chiude il ragionamento in una riserva culturale periferica o (concordo) parrocchiale”.
Caro Michele, cara Kery,
Non intendo difendere gli argomenti – o lo stile – degli estensori dell’appello. Not my cup of tea, sarei tentato di dire. Anche perché sono convinto che gli appelli nel nostro paese siano di frequente controproducenti. Specie quando gli estensori sono percepiti da alcuni, a torto o a ragione, come esponenti di una “casta”. Tuttavia, credo che la tesi di Asor Rosa, Galli della Loggia e Esposito che ci sia un legame importante tra alcuni settori delle humanities e l’identità nazionale sia condivisibile. Credo che nessuna paese civile possa contemplare senza batter ciglio la possibilità che interi settori, penso a certi filoni storiografici, vengano disincentivati in nome dell’internazionalizzazione. Noi abbiamo bisogno di italianisti bravi come di studiosi di altre discipline, penso alla filosofia, che siano in grado di comunicare in inglese. Non vedo alcuna incompatibilità tra i due obiettivi, se non nelle menti di persone accecate dall’ideologia.
@Mario. Attenzione. So bene che i modelli di cosmopolitismo (accademico o) culturale propugnati da taluni responsabili del processo di valutazione sono estrinseci e subalterni (o, come tu dici, “accecati di ideologia”). Una ricerca non è di interesse “internazionale” perché si occupa di “contenuti” internazionali. Ma Asor Rossi o Galli della Loggia non propongono modelli più adeguati.
Quale è per me un valido modello di cosmopolitismo (accademico o) culturale? Detto sommariamente: il modello degli “studi culturali”. E cioè: si prende parte a una discussione sovranazionale se si agganciano le agende globali della ricerca a partire da temi che possono essere locali.
Asor Rossi o Galli della Loggia propendono per un punto di vista diverso, più (pen)insulare. Rivendicano l’eccezione culturale e si chiudono in una riserva (monoglotta e tardomazziniana: ma non è forse questo il problema).
Ripeto, non è mia intenzione difendere i tre. Mi limito a osservare che gli estensori dell’appello hanno una certa sensibilità politica, e credo che questa qualità li aiuti a vedere qualcosa che sfugge agli ideologi, ovvero che nessun paese civile può sopravvivere, in quanto paese, se le sue elites perdono qualunque legame con la tradizione nazionale. Aggiungo che questo non è un problema esclusivamente italiano. Anche nel Regno Unito c’è chi – penso a Roger Scruton – ha sostenuto questa tesi. Questo mi spinge a pensare che non si tratti di una battaglia di retroguardia di rilievo peninsulare.
Sono d’accordo con Mario. Che poi si possano o meno condividere i modi e certi toni con cui l’appello è scritto, è un’altra cosa. Per quanto riguarda l’eccezione culturale e l’internazionalità, sono convinto che l’internazionalizzazione non sta nei temi che si trattano (sono d’accordo con Michele), ma dipende dal modo in cui si affrontano (cioè tenendo conto del dibattito internazionale e non rinchiudendosi nel provincialismo accademico italico – da questo punto di vista molti scritti scientifici americani, almeno nel campo di mia competenza, sono per me ugualmente provinciali) e dalla capacità di proporsi a livello internazionale, ad esempio pubblicando riviste in inglese e scrivendo su riviste diffuse oltre i confini nazionali e lette da più dei quattro studiosi di italica favella.
Giustissima l’osservazione di Dantini.
Del resto se affidiamo la difesa degli studi umanistici a Rosa (anni 80) o Galli Della Loggia (anni 71), cosa possiamo aspettarci? (mi scuso per la deriva renziana) Che propongano il modello che per loro ha funzionato tanto bene, com’era bella l’Italia degli anni cinquanta, quante possibilità…
Detto questo, tanto il manifesto quanto l’articolo sono desolanti.
Manca “potremmo vivere solo di turismo” e “dobbiamo venderci meglio” poi c’è tutto.
Per “tutto” intendo la ormai esibita convinzione che gli studi umanistici siano un allegro trastullo. Possono avere mercato forse come un gadget, non certo come materia di ricerca scientifica.
Mi scusi, ma da dove si evince che nel mio articolo v’è sostenuta la tesi che dobbiamo vivere solo di turismo, che gli studi umanistici siano solo trastullo, si possono vendere come gadget e non sono oggetto di ricerca scientifica? Io pensavo di aver sostenuto esattamente l’opposto. Ma può darsi che mi sia sbagliato e non ho capito le cose che ho scritto… Sì, allora in questo caso quanto da me detto sarebbe ‘desolante’.
Gentilissimo,
nel suo articolo, la cosa desolante è questo dispendio di energie per sostenere argomentazioni che dovrebbero essere di per sé fin troppo evidenti.
Nella mia deriva renziana ho rottamato anche lei insieme al manifesto, mi scusi.
Ricordiamo comunque che la settorialità è gelosamente coltivata per motivi economici.
Gli investimenti per la ricerca medica e ingegneristica non si possono nemmeno paragonare a quelli per la ricerca umanistica.
Proponiamo di equipararli, e vediamo come reagiscono i frequentatori del sito.
Solo qualche nota a margine dei commenti. 1) I lettori-modello previsti dall’articolo sono latitanti: chi è dell’opinione che le discipline umanistiche siano irrilevanti e destinate a prossima estinzione non controbatte, trascura l’intervento e rimane con le sue cieche opinioni. 2) I lettori che condividono le tesi sostenute nell’articolo le considerano ovvie e per questo non le sostengono, ignorando che è verosimile esista chi non le considera tali, e che quindi sarebbe opportuno appoggiarle. 3) È di gran lunga più appassionante, ai fini del pubblico dibattito, “chi parla” e “da che pulpito” piuttosto che “cosa dice”; da qui l’interesse per il “Manifesto dei Tre” piuttosto che per le argomentazioni di Francesco Coniglione. Temo che da qualche parte, nelle consuetudini del dibattito intellettuale italiano, ci sia qualcosa che non va.
Alcune precisazioni: criticavo l’uso del termine “paratie”, meglio divisioni. La lingua italiana è metaforica e simbolica, per questo è talvolta necessario to call a spade a spade. Quanto alla cup of tea, una fortuna del Regno Unito è sapere che ognuno difende la propria cup of tea e quindi la difesa della propria parrocchia non assume aspetti ridicoli come da noi. Né mi pare nel Regno Unito si sia mai affidato agli studi umanistici il compito di difendere l'”identità della nazione”. Per i britannici è importante “rule the waves”, poi basta ricordare Trafalgar Square o Waterloo station per capire quali siano i simboli dell’identità britannica.
Passando all’Appello, ci sono vistose contraddizioni: da una parte, il determinismo storico ( solo la conoscenza e la conservazione del passato conserva l’identità nazionale), dall’altra, l’accento sulla storia come storia contemporanea di Croce, per il ìl quale è l’interesse del presente a indurci a riferirci al passato, e, chiaramente, non a tutto il passato. L’internalizzazione non significa affatto subordinazione a temi di ricerca internazionali – il processo è già in atto in alcuni settori, ma pubblicare con case editrici straniere o su riviste straniere. Significa anche per gli storici non rinchiudersi nella storia italiana,ma studiare storia e problemi di altri paesi e continenti. Così per i filosofi non importare l’ultima moda venuta da fuori.I francesi non avrebbero inventato Les Annales se fossero stati semplici importatori, né avrebbero prodotto novità filosofiche, che possono non piacere, ma si sono imposte ampiamente fuori dalla Francia. Il vizio di fondo dell’Appello è la riproposizione del modello della musa cortigiana, all’insegna di un trasformismo ridicolo.
Quanto alla Nussbaum, era più simpatica quando scriveva recensioni entusiastiche sul rude corpo Harvey Keitel.
Non che non apprezzi l’appello – anche se mi trovo più concorde con quanto qui puntualizzato da Francesco Coniglione – tuttavia non posso fare a meno di chiedermi chi mai leggerà quell’appello come anche chi mai si gusterà fino in fondo questo bell’articolo su ROARS… persone che già sanno, persone che sono consapevoli e docenti che (come ben puntualizzato da Asor Rosa & co.) hanno colpevolmente rovinato l’applicazione della riforma universitaria e lasciato spazio all’emergere di una visione conomico-centrica della vita. Ma allora, se a leggerci e a darci pacche sulle spalle siamo solo noi… non è il caso di cambiare registro? Possibile che non sappiamo fare di meglio nel campo della comunicazione? Per capire l’appello ci vuole come minimo una laurea triennale in ambito umanistico: vogliamo davvero solo parlarci addosso? Citando Brecht «E se la battaglia per la misurabilità dei cieli è stata vinta dal dubbio, la battaglia della massaia romana per il latte sarà sempre perduta dalla credulità. Con tutt’e due queste battaglie, Andrea, ha a che fare la scienza”. Abbiamo a priori rinunciato a parlare alla massaia romana? Se sì abbiamo già perso.
Un’altra cosa: in nessuno dei due testi vi è una proposta concreta e soprattutto non c’è un accenno di proposta nell’appello. Alla fine della lettura si ricava un generico desiderio di ritorno al passato, all’epoca di Croce e Gentile (limitatamente all’importanza che all’epoca aveva l’umanesimo, ovviamente). Stiamo scherzando? Siamo – mutatis mutandis – in una crisi paragonabile per peso globale e distribuito in ambito economico e culturale con la fine della tarda antichità. Andiamo a dire al latifondista romano minacciato dai goti e senza riferimenti istituzionali credibili che deve dedicare il suo tempo alla lettura di Virgilio e a far istruire suo figlio da Boezio? A chi sta lottando per uscire dalla palude non si puà fare generici appelli dicendo che anche la cultura umanistica serve… ma si deve sempre rendere visivamente percepibile la catena dell’utilità sociale che parte dall’istruzione e dalle ricerca e arriva alla gente. Ragionare su “Il concetto di Dio nell’idealismo post-kantiano di Hegel” serve a ragionare sulla presenza del divino nel pensiero umano e quindi a formare persone in grado di :
mediare i conflitti sociali su base religiosa
organizzare manifestazioni e incontri che rendano le persone più consapevoli delle differenti visioni di Dio nella storia
insegnare meglio agli studenti delle scuole i medesimi concetti
lavorare in maniera utile in una équipe di fisici teorici che ricominci a connettere neutrini e concezione del mondo
scrivere un bel romanzo storico in cui il peronaggio vive un diemma interiore tra un Dio teologico e un Dio/spirito del mondo
creare dei tavoli di interazione tra gruppi marginalizzati per questioni religiose
rispondere alle domande relative alla spiritualità e alla storia che provengono dall’uomo comune;
rendere la società migliore.
Elencare banalmente le conseguenze concrete degli studi umanistici non significa piegarsi all’impero dell’economica ma capire che la società ha bisogno in questo momento di scialuppe di savataggio di una certa solidità: si chiamano ricerca, scienza, studio, cultura, partecipazione.
L’appello è gramsciano, basta pensare al determinismo storico e alla evocazione di una nuova egemonia politico-culturale con leader Renzi, invocata da Galli della Loggia in un articolo del 3 novembre del Corriere, intitolato La Memoria della Repubblica, che mi pare la piattaforma “teorica” dell’Appello. Gentile criticò duramente l’umanesimo, definì gli umanisti semplice letterati, incapaci di un qualsiasi pensiero forte. A essi contrappose Dante, letterato, ma poeta profeta, di robusta fede religiosa e politica. A Croce, per quanto ne so, non passò mai per la testa di lodare l’umanesimo. A Croce e Gentile possono essere attribuite tante responsabilità, ma non di avere restaurato l’Umanesimo. Rispetto ogni religione e i credenti, ma in questo momento non credo risolviamo la crisi attuale con Dio.
Meglio Virgilio (aggiungerei Omero, Eschilo, Dante, Shakespeare …)
Non ho letto l’appello Triplice, ma immagino; e concordo con la premessa di EnricaS circa un parlare più comprensibile, in termini che possano coinvolgere i più. Eviterei però di proporre ulteriori deismi e credulonerie, quale che sia nel merito la valutazione della massaia… E’ facile accennare un paio di argomenti più efficaci:
1) TUTTI i cittadini passano 10-13 anni a scuola, dove il nerbo della trasmissione culturale è affidato a insegnanti di formazione umanistica (e pure gli insegnanti di scienze si giovano, o dovrebbero giovarsi, di una buona dose di competenze “umanistiche”). Preparare insegnanti capaci ha una ricaduta culturale, di creatività, di inventiva, di passione, di serietà umana e lavorativa, su TUTTI i soggetti e dunque su tutte le future discipline e professioni (per non dire delle società e degli Stati). Non vogliamo migliori insegnanti per i nostri figli?
2) Giovani e adulti appaiono sempre più sbandati e poveri di spirito, in balia di videogiochi, macchinette mangiasoldi, scommesse in borsa o al totalizzatore (entrambe truccate), imbonimenti televisivi, pubblicità commerciale e partitica, promesse salvifiche, sesso virtuale, social network semi-dementi. Vogliamo mettere, la capacità di sfogliare un libro, capire un giornale, contribuire a un’assemblea o a una discussione in rete, guardarsi attorno con discernimento, comprendere le ragioni degli altri?
3) Il progresso tecnico ci costringe sempre più a scelte difficili, sulla vita e sulla morte, proprie e altrui. Non abbiamo niente da imparare, quanto a libertà, capacità di valutare, confrontare modi di vita, misurare felicità e bisogni, priorità e qualità?
Ciò detto, una bella sforbiciata a certe nicchie autoreferenziali, così care a taluni accademici colà trincerati e abbarbicati (meno rare, parrebbe, tra gli umanisti), non tornerebbe sgradita (tantomeno alla massaia); ma, appunto, solo a date nicchie. E comunque, l’intero è troppo importante per essere messo in forse per via di qualche parassita.
Difficile individuare i parassiti e le nicchie autoreferenziali; il principio di libertà di ricerca lo impedisce. Circa l’esigenza di comprensibilità mi chiedo dove siano esattamente le difficoltà sia dell’articolo che stiamo commentando, sia, anche, del mai abbastanza deplorato Manifesto. Mi pare ci sia piuttosto una diversa esigenza. Non ragionamenti e argomenti intellettualmente forti, o che ambiscono a essere tali, ma proposte politiche immediate e comunicazione efficace, quindi semplice, accattivante, orientata all’efficacia concreta (immaginaria o no non importa) nella vita quotidiana. Giusto? O no?
Grazie, Bazzocchi.
E smettiamola di pensare alle masse stupide: i bambini sono molto più intelligenti di quel che si creda, ma attualmente si offre loro un bello schermo collegato a internet in classe che trasmette messaggi pubblicitari durante le lezioni (è successo a mio figlio): viva la scuola del futuro?
John Armstrong, filosofo inglese che insegna all’università di Melbourne, invita gli umanisti a competere sul “mercato delle idee”. Argomenti coerenti e punti di vista generali sono di grande aiuto. “In linea di principio”, afferma, “le Humanities dovrebbero assicurare conoscenze generali all’intera società. Un compito tra i più urgenti sembra quello di aiutare le persone a pensare a cose che hanno importanza e senso per tutti. Questo può essere fatto senza un approccio specialistico, antiquario o eccessivamente erudito. Non possiamo immaginare che i non specialisti siano devoti delle note a pie’ di pagina”. Nel porre enfasi sul rilievo civile della terza missione, cioè il giornalismo culturale e la divulgazione, Armstrong invita a “individuare e salvaguardare tutto ciò che possiede un alto valore intrinseco e [a] promuovere nel pubblico la massima adesione a quel valore”. Non so bene cosa corrisponda al “valore intrinseco” predicato da Armstrong. Ma credo che per “valore intrinseco” dobbiamo intendere il contributo scarno e essenziale che le Humanities potranno dare al consolidamento della sfera dei diritti e alla costruzione della città degli uguali. Credo che chiarezza e “semplicità” di parola (non semplicismo, certo) potranno (e dovranno) avere grande importanza.
Avevo in parte scritto su questi temi anche su ROARS @https://www.roars.it/come-cambia-la-storia-dellarte-mutazione-di-una-disciplina-tra-prima-e-terza-missione/
A me il “mercato delle idee” fa schifo, così come sostituire la “competizione” al confronto intellettuale. Sembra che le metafore ormai siano obbligate: se si vuole valorizzare qualcosa, caro Michele, cosa c’è di più bello del Mercato? Comunque. Tutto sta in cosa si intende per “conoscenze generali”. L’etica corrisponde al requisito? O è troppo specialistica, dato che poi se uno legge un filosofo che tratta di etica trova, purtroppo, roba complicata. Qual è il modello, l’Umberto Eco delle “Bustine di Minerva”? E pensare che tutto l’insieme delle humanities debbano proporsi il consolidamento della sfera dei diritti mi ricorda tanto altri obiettivi, tipo la celebrazione della gloria divina o il forgiare l’uomo nuovo del socialismo, oppure, anche, il lavoratore modello del XXI secolo (come propone Abravanel, non ricordo più dove, qualche giorno fa). Magari basterebbe attestarsi sulla libertà di ricerca e il diritto alla ricerca, l’obbligo cioè da parte di ogni comunità umana di permettere a chi è vocato alla ricerca di poter seguire tale propria scelta senza sottostare a criteri estrinseci (ideologia, economicità ecc.).
Ho riportato le posizioni di Armstrong non perché ne sottoscriva il dizionario ma perché ritengo utile che tutti noi riflettiamo sulle “politiche della parola”, o per essere più semplici sull’importanza della chiarezza. Gli umanisti (particolarmente continentali) scrivono non di rado in modo involuto, o per meglio dire scrivono avendo in mente loro destinatari elettivi presupposti, che non sono certo i destinatari comuni. E’ utile riflettere su questa circostanza, credo; e dare seguito all’invito alla “chiarezza” che alcuni intellettuali e scrittori italiani profondamente democratici, da Giulio Bollati a Goffredo Parise a Tullio De Mauro, hanno lanciato. E’ parte di una mobilitazione civile e democratica che mi auguro non ti “faccia schifo”. Per tutto il resto rimando a interventi più distesi e articolati, miei e_o di altri. Un caro saluto MD
Assolutamente d’accordo sulla ricerca della chiarezza, così come la mobilitazione civile e democratica. Per il resto avremo, certo, occasione di riparlarne.
Meglio Leopardi, mi creda.