Dopo la segnalazione di ROARS, la gestione lento pede e alcuni sorprendenti esiti della procedura bandita dal MUR in tempi di pandemia per finanziare progetti di ricerca destinati a contrastare, con la imprescindibile urgenza richiesta dal caso, l’insorgenza pandemica sono stati per lo più ignorati dai media italici, ma non sono sfuggiti a Gian Antonio Stella che ha dedicato al tema un articolo corrosivo che sul Corriere della Sera è stato intitolato Cultura «antica» e fretta da pandemia.
Lo segnaliamo ai lettori, non senza porci una domanda del tutto retorica: possibile che in Italia 21 milioni di euro di risorse pubbliche e ben 900.000 mila euro messi a budget per individuare come spendere celermente e al meglio questo capitale di risorse erariali possano essere oggetto di allocazione nel modo in cui sono stati distribuiti dai valutatori di questa procedura, scelti chissà per quali vie e protetti dall’anonimato, i quali – stando alla visione di alcune valutazioni che il MUR, a domanda, ha restituito a capofila di progetti non finanziati – mostrano di aver dedicato all’esame di ogni singola proposta progettuale non più di 4-5 scarne righe di stentoree affermazioni, non supportate da alcuna argomentazione concreta riferita ai contenuti del progetto valutato e concluse con l’apposizione di un numerino finale che ha permesso di inserire il progetto “valutato” nella graduatoria di “merito”?
E’ così che si valutano i progetti di ricerca in Italia? Il tema, evidentemente, non riguarda solo il c.d. bando speciale Covid, ma l’intero e ormai usuale modus procedendi invalso per valutare idee progettuali e i prodotti scientifici nel mondo della ricerca italiana.
Un sistema dove l’opacità regna sovrana, e dove i valutati, per potere conoscere come sono stati giudicati, devono sempre produrre apposita istanza (perché il suddito deve sempre chiedere, anche se il sovrano potrebbe preoccuparsi di inviare di default le valutazioni a chi ha speso tempo e fatica per partecipare alla procedura), senza che l’amministrazione pubblica che gestisce la procedura avverta l’importanza di fare in modo che le valutazioni (pur schermate dall’anonimato) siano rese pubbliche a tempo indefinito, trattandosi di atti che assumono un evidente interesse per la collettività.
Persino nell’ASN vige un sistema che di fatto impedisce di mantenere l’evidenza delle valutazioni operate dai commissari, gestite come se si trattasse di malefatte da nascondere non appena scadono i termini per impugnare gli atti, col pretesto di garantire la privacy dei candidati valutati negativamente, quando non costerebbe nulla consentire a chi è stato valutato di poter manifestare, tramite il sito del MUR e in esito alla valutazione ottenuta, il proprio assenso o il proprio diniego alla perpetua ostensione delle valutazioni ricevute. E invece, come ROARS ha da tempo evidenziato, nulla è cambiato e in nome di una regoletta inserita in un d.P.R del 2011 si continua a stendere un velo istituzionalmente (im)pietoso sull’operato delle commissioni di valutazione allo scoccare dei 4 mesi dalla prima pubblicazione dei giudizi.
Siamo certi che questo semplice accorgimento (la pubblicità dei giudizi e delle valutazioni, a qualsiasi livello e in qualsiasi contesto esse siano operate) renderebbe meno certa la sensazione di sostanziale impunità che può (tentare di) accompagnare chi viene chiamato a valutare in questi contesti, il quale dovrebbe sempre impegnarsi a svolgere il suo lavoro col massimo rigore argomentativo, fondando la sua opera solo sulla propria competenza (dimostrata, appunto, dalla capacità di identificare e mettere all’indice per tabulas e con puntuali osservazioni le debolezze scovate nei progetti esaminati) e sulla imparzialità (che può essere vagliata ex post solo avendo contezza comparativa del modo in cui i valutatori hanno operato, e dunque solo avendo la possibilità di mantenere una visione sinottica dei giudizi che questi hanno espresso).
Perché valutare come si dovrebbe la qualità della ricerca costa tempo e fatica e non può non avere un costo. E chi valuta con scrupolo e rigore, terminato il suo lavoro, dovrebbe potersi dire orgoglioso che il frutto del suo impegno, svolto in scienza e coscienza, sia reso conoscibile alla comunità scientifica (pur se col filtro dell’anonimato).
In Italia – lo sappiamo – un rimedio sulla carta non manca. Si chiama TAR. Ma attivarlo non è costless come la valutazione operata in seno alla VQR e vi si può ricorrere solo quando il gioco valga davvero la candela. Questo fa sì che in molte occasioni ci si rassegni a subire l’esito di una procedura (percepito come arbitrario anche per la mancanza di trasparenza che accompagna la pubblicazione degli esiti), alzando le spallucce rassegnati, per lasciare che il sistema chiuso della valutazione firmata MUR continui a perpetuarsi all’infinito senza colpo ferire.
E così – possiamo starne certi – succederà lo stesso in occasione del prossimo PRIN, del prossimo FIRB, del prossimo bando speciale, a tacer di quanto sta accadendo in quella che può essere definita la madre di ogni procedura di valutazione nella ricerca italica, la VQR, quella che con le patenti di eccellenza rilasciate da valutatori a costo zero muoverà anche in questa tornata tanti soldini.
Tutto – sempre e comunque – all’insegna della più marcata opacità. Altro che open science!