È di oggi la pubblicazione della classifica di Shanghai (ARWU) dove i primi atenei italiani si posizionano oltre la 150-ma posizione. A differenza degli exploit del calcio e degli sport olimpici, anche quest’anno nei ranking internazionali delle università l’Italia rimane sempre molto lontana dalle posizioni di testa. Secondo il Rettore del Politecnico, che è anche Presidente della Conferenza dei Rettori, “Dobbiamo decidere se ci interessa avere quattro o cinque (non una) università fra le prime cento o no”, “Se sì, si scelgono queste università e si fa un accordo quadro dando loro regole diverse: mobilità internazionale, con un docente su due reclutato all’esterno; numero minore di studenti senza danno finanziario; programmi di ricerca incardinati su alcuni laboratori unici, che richiamino le migliori menti internazionali. Se invece vogliamo un sistema universitario in cui tutti gareggino alle stesse regole, allora non dobbiamo più chiedere alle università come mai non si classifichino fra le prime cento. E’ un progetto che va intrapreso a livello centrale; è una decisione politica, non tecnica”. Potrebbe funzionare questa ricetta? E con quali costi? Per rispondere entreremo nei meccanismi delle classifiche per capire le vere ragioni che tengono gli atenei italiani lontani dalla top 100. Scopriremo che il progetto di portare quattro o cinque università nelle prime cento è irrealizzabile, a meno che non si intenda scardinare il sistema universitario nazionale. Come spiegare allora le dichiarazioni di Resta? Con ogni probabilità sono una mossa tattica per riesumare il progetto, abortito nel 2019, di transizione a un sistema “a due velocità”, destinato a drenare risorse dalle zone deboli del paese, il cui rafforzamento sarebbe ben più urgente e utile del miraggio di scalare classifiche non scalabili.

1. Follow the money

Qualche settimana fa, il corrispondente da Roma del Financial Times Miles M. Johnson trovava “pazzesco” che l’Italia fosse l’unica economia del G7 senza nemmeno un’università nella top 100 della classifica QS.

Ma è davvero così “pazzesco non riuscire ad entrare nella top 100 non solo della classifica QS ma anche delle altre classifiche più note? Quando si parla di classifiche, molti pensano a qualcosa di simile alle Olimpiadi: una pista o una piscina uguale per tutti i concorrenti e vinca il migliore. Sarebbe pazzesco se l’Italia non vincesse nessuna medaglia olimpica.

In realtà, le classifiche delle università hanno ben poco in comune con una gara di staffetta 4×100 e assomigliano di più a una gara automobilistica dove alcuni concorrenti sono alla guida di una Ferrari e altri di una Panda. Infatti, le classifiche sono basate su un coktail di indicatori, molti dei quali sono fortemente correlati con i finanziamenti a disposizione degli atenei: numero di pubblicazioni e loro impatto citazionale, scienziati “highly cited” e premiati col Nobel o la medaglia Fields, rapporto docenti-studenti, per citarne alcuni. Per fare un esempio, l’indicatore PUB (pubblicazioni scientifiche), usato nella classifica di Shanghai con peso 20%, si correla molto bene con le spese operative degli atenei, si veda la Fig. 1. dove sono messi a confronto 16 atenei internazionali che sono i primi della loro nazione nella classifica ARWU e 15 atenei italiani.

Fig. 1 Grafici a sinistra: indicatore ARWU PUB contro costi. Grafici a destra: PUB contro costi. Per i dettagli si veda https://www.roars.it/classifica-arwu-ununiversita-italiana-nella-top-100-subito-e-a-costo-zero/

Al di fuori di questi indicatori, non rimangono grandi margini di manovra. Intervistato dal Foglio, il Rettore del Politecnico, che non ha incassato bene le sentenze avverse del Consiglio di Stato e della Consulta sull’anglofonizzazione forzata delle lauree magistrali, imputa il ritardo nelle classifiche a “motivi culturali e strutturali. Il nostro paese soffre di una più lenta internazionalizzazione nelle città, nelle aziende, nelle scuole, nella conoscenza della lingua“. In realtà, nella classifica QS le percentuali di studenti e docenti esteri contribuiscono ciascuna solo al 5% del punteggio finale. Il vero modo per scalare la classifica QS è usare l’eritropoietina per pompare i due survey reputazionali, accademico e dell’impiegabilità, che da soli fanno il 50% del punteggio finale. Un ateneo irlandese è già stato preso con le mani nel sacco mentre tentava di rastrellare pareri “amichevoli” e ci sono anche atenei italiani che chiedono ai propri docenti di trovare colleghi “amici” disposti a dare il loro voto. Pratiche un po’ spregiudicate, su cui, come testimoniato da questa intervista, QS tende a chiudere un occhio, forse anche perché vende servizi di consulenza e di pubblicità agli stessi atenei che poi giudica.

2. La meritocrazia dei soldi

Le formula 1 delle università sono le World Class Universities, ovvero gli atenei che si contendono i primi 100 posti delle classifiche internazionali. Non si mette in pista un veicolo di Formula 1 senza un cospicuo investimento e c’è una enorme differenza tra il finanziamento delle World Class Universities e quello degli atenei italiani. Prendiamo in esame i primi quattro atenei della classifica ARWU, ovvero Harvard, Stanford, Cambridge e Massachusetts Institute of Technology (MIT).

La somma delle loro spese operative nel 2015 superava i 13 Miliardi di Euro, più della spesa complessiva di tutti e 65 gli atenei statali italiani che non raggiungeva di 12 Miliardi, vedi Fig. 2. Una spesa coperta per il 59% dal Fondo di Finanziamento Ordinario, mentre il resto proveniva principalmente dalle tasse degli studenti (1,8 miliardi) e da entrate finalizzate da MUR (0,8 miliardi) e da altri soggetti (2,1 miliardi).

Fig. 2 Confronto delle spese operative delle prime quattro università della classifica ARWU e delle università statali italiane. Fonti: Rapporto Biennale Anvur 2018 e Fact sheets dei quattro atenei stranieri.

Qualcuno potrebbe pensare che il sottofinanziamento del sistema universitario italiano evidenziato dalla Fig. 2 sia un’illusione ottica creata dal confronto con quattro università al vertice delle classifiche mondiali. In realtà, come mostrato nella Fig. 3, le statistiche OCSE confermano l’esiguità della spesa italiana in confronto a quella delle altre nazioni.

Fig. 3 Come spesa per istruzione terziaria in rapporto al PIL, l’Italia è quartultima tra le nazioni censite nell’edizione 2018 del rapporto OCSE Education at a Glance.

Con queste basi di partenza, ad essere pazzesco sarebbe entrare nella top 100, non rimanerne fuori. Entrarci sarebbe come vincere un GP di formula 1 correndo con un’utilitaria col serbatoio semivuoto. Però le automobili non servono solo per correre delle gare. Volendo rimanere nell’ambito delle metafore automobilistiche, se Quattroruote dovesse seguire le orme dei ranking universitari dovrebbe pubblicare dei listini in cui vengono riportate solo la velocità massima e il numero dei secondi necessario per passare da zero a cento Km/h. In realtà, quando compriamo un’automobile pur apprezzando che sia potente e scattante, confrontiamo anche altri parametri come il prezzo, i consumi, il volume del bagagliaio e così via. Se le Top 4 di ARWU e i 65 atenei statali spendono più o meno gli stessi miliardi, domandiamoci a quanti studenti offrono formazione e quanta ricerca scientifica producono.

3. Un colpo di scena dopo l’altro

Il confronto del numero di studenti ci riserva la prima grossa sorpresa. Nel 2015, gli studenti iscritti nella Top 4 di ARWU erano circa 67000. Gli studenti iscritti nel 2015 nei 65 atenei statali italiani erano più di 1,6 milioni, ovvero 24 volte di più, vedi Fig. 4.

Fig. 4 Confronto tra gli studenti iscritti nelle prime quattro università della classifica ARWU e nelle università statali italiane. Fonti: Rapporto Biennale Anvur 2018 e Fact sheets dei quattro atenei stranieri.

Come giustificare un divario così enorme? La chiave potrebbe essere nella diversa capacità di produrre ricerca scientifica. I criteri delle classifiche internazionali premiano in primo luogo la capacità di produrre ricerca scientifica di qualità. A parità di spesa, è lecito aspettarsi che i 65 atenei italiani vengano polverizzati dalle prime quattro “Research Universities”, se si prende come metro di confronto la produzione scientifica. A tale scopo, consideriamo il numero di articoli su riviste scientifiche pubblicati nel 2016, censiti dal database Scopus.

Fig. 4 Confronto tra gli articoli scientifici prodotti dalle prime quattro università della classifica ARWU e dalle università statali italiane. Fonte: Scopus.

E qui arriva il secondo colpo di scena. Con una spesa inferiore a quella dei Top 4, gli atenei statali italiani non solo formano un numero di studenti 24 volte maggiore, ma producono più del doppio degli articoli scientifici, 56.000 contro i 26.000 dei magnifici 4. I quali si prendono una rivincita nelle citazioni: pur producendone meno della metà, i loro articoli hanno circa il doppio delle citazioni. Se però spostiamo il confronto a livello nazionale, emerge di nuovo l’efficienza del sistema universitario italiano, come mostrato nella Fig. 5, ripresa da un Rapporto commissionato alla Elsevier dal governo del Regno Unito. I Km per litro dell’università italiana, ovvero lavori scientifici e citazioni per unità di spesa, sono superiori a quelli di USA, Germania, Francia e Giappone.

Fig. 5 Produttività  in termini di articoli e citazioni delle principiali potenze scientifiche. In entrambi i casi, l’Italia supera USA, Germania, Francia e Giappone (Fonte: International comparison of the UK research base 2016).

Il confronto complessivo è riassunto nella Fig. 6: con quello che spendono le Top 4, l’Italia fornisce formazione universitaria a più di 1,6 milioni di studenti e produce più del doppio degli articoli scientifici (seppure di impatto minore). Sono numeri che andrebbero tenuti a mente quando, riportando gli esiti dell’ennesima classifica, li si legge come la certificazione di un fallimento nazionale.

Fig. 6 Confronto complessivo tra le prime quattro università della classifica ARWU e le università statali italiane.

4. La scalata impossibile

A mano a mano che scaviamo sotto la superficie delle classifiche, diventa chiaro che gli exploit delle World Class Universities non sarebbero possibili senza una concentrazione straordinaria di risorse economiche che però non gioca a favore dell’efficienza. Le World Class Universities sono supercar che corrono veloci, ma che sono costosissime e assetate di benzina. Alla luce dei costi, porsi come obiettivo la scalata delle classifiche è tutt’altro che privo di conseguenze per il sistema nazionale della formazione e della ricerca. Già nel 2011, un’esperta come E. Hazelkorn metteva in guardia dalle conseguenze della febbre per le classifiche:

Because few countries can afford the estimated EUR2 billion annually per institution required for a place among the world’s top 20 without sacrificing other policy objectives, many governments are questioning their commitment to ‘mass’ higher education and asking whether their institutions are elite or selective enough.

Do rankings promote trickle down knowledge?

Una preoccupazione condivisa anche dalla Banca Mondiale:

In a global economy that depends on sophisticated innovation and knowledge to drive growth and wealth, a new World Bank report on higher education suggests that low- and middle-income countries should resist the temptation to establish world-class universities to cash in on research earnings and court global prestige before educating their own citizens to high tertiary standards.

Il messaggio è chiaro: porsi come obiettivo potenziare poche istituzioni accademiche risulta controproducente per quelle nazioni che già arrancano quando si tratta di garantire una formazione universitaria di massa. L’Italia, come già abbiamo visto, è tra i fanalini di coda dell’OCSE per spesa rapportata al PIL. Siamo in coda anche per percentuale di laureati e non brilliamo nemmeno per le politiche di sostegno al diritto allo studio.

Fig. 7 Percentuale di soggetti tra 25 e 34 anni con una formazione terziaria (Fonte: Rapporto OCSE Education at a Glance 2020).

Come si vede nella Fig. 7, con il nostro 28% siamo terzultimi in Europa per percentuale di laureati, ben lontani dalla media OCSE e UE, entrambe assestate al 40%.

In queste condizioni, prefiggersi di “avere quattro o cinque (non una) università fra le prime cento” può rivelarsi non solo vano, ma persino nocivo.

Il traguardo è irraggiungibile, perché non si portano quattro o cinque università nelle prime cento senza concentrare su di loro alcuni miliardi di Euro di fondi pubblici. All’orizzonte non si vedono risorse aggiuntive di questa entità e le dimensioni stesse del Fondo di Finanziamento Ordinario, dell’ordine di 7 miliardi per più di 60 atenei, rendono impensabile dirottarne alcuni miliardi senza provocare il collasso del sistema. A dispetto di ogni progetto di scalata, continueremo a leggere classifiche in cui le università italiane rimangono fuori dalle posizioni di testa. Sono altri i traguardi che dovremmo porci: garantire una formazione universitaria di qualità a una ampia platea e alimentare la crescita culturale, scientifica e tecnologica di tutte le aree del paese, forti o deboli che siano.

La scalata proposta da Resta è destinata al fallimento, ma il tentativo di metterla in atto avrebbe l’effetto di distogliere attenzione e risorse dalle vere priorità che emergono chiaramente dall’esame delle nude cifre su finanziamento, percentuale di laureati, sostegno al diritto allo studio e produttività scientifica, dove quest’ultima è forse uno dei pochi dati positivi. È come se una famiglia, gravata da un pesante mutuo per la prima casa, si desse come priorità l’acquisto di un Porsche Cayenne da 100.000 Euro.

5. Rispunta la voglia di serie A e serie B

Anche se qualcuno potrà restarne sorpreso, i numeri citati in questo articolo sono ben noti a chi studia i sistemi di istruzione universitaria e anche il caso italiano è stato studiato in modo approfondito, basterebbe citare il saggio “Università in declino” curato da G. Viesti.

Possibile che il Presidente della Crui entri in questo dibattito completamente inconsapevole non diciamo delle cifre precise, ma almeno dei loro ordini di grandezza? Sembra più plausibile che Resta, pur consapevole dell’irrealizzabilità del progetto, trovi utile agitarlo davanti agli occhi dell’opinione pubblica per raggiungere un altro scopo.

Rileggendo con attenzione l’intervista, si capisce che il punto chiave non è portare quattro o cinque università italiane nella Top 100, ma ottenere “un accordo quadro” con “regole diverse” da quelle che si applicano ai restanti atenei. Siamo più nei paraggi di Animal Farm  che dell’epopea olimpica di Orizzonti di Gloria. Chi conosce gli sviluppi degli ultimi anni, quando legge “accordo quadro”, coglie subito anche il riferimento al grimaldello legislativo di cui intende servirsi il Rettore del Politecnico. Si tratta di mettere in funzione una backdoor presente (e ancora inutilizzata) che qualche manina aveva lasciato nella Riforma Gelmini, a disposizione dei futuri governi. Stiamo parlando del comma 2 dell’Art. 1 della L. 240/2010 che riportiamo per comodità:

2. In attuazione delle disposizioni di cui all’articolo 33 e al titolo V della parte II della Costituzione, ciascuna universita’ opera ispirandosi a principi di autonomia e di responsabilita’. Sulla base di accordi di programma con il Ministero dell’istruzione, dell’universita’ e della ricerca, di seguito denominato «Ministero», le universita’ possono sperimentare propri modelli funzionali e organizzativi, ivi comprese modalita’ di composizione e costituzione degli organi di governo e forme sostenibili di organizzazione della didattica e della ricerca su base policentrica, diverse da quelle indicate nell’ articolo 2. Con decreto del Ministero dell’universita’ e della ricerca di concerto con il Ministero dell’economia e delle finanze sono definiti i criteri per l’ammissione alla sperimentazione e le modalita’ di verifica periodica dei risultati conseguiti, fermo restando il rispetto del limite massimo delle spese di personale, come previsto dall’articolo 5, comma 6, del decreto legislativo del decreto legislativo (29 marzo 2012, n. 49).

Grazie a questo comma, un gruppo selezionato di atenei “di serie A” possono essere liberati dalla gabbia asfissiante imposta dalla L. 240/2010. Un recente tentativo di attivare la backdoor risale al maggio 2019, quando Roars pubblicò la bozza del decreto che definiva i criteri per l’ammissione alla serie A e le modalità di verifica dei risultati, saldamente nelle mani dell’Anvur. Dalle proprietà del file risultava che l’autore dell’ultimo salvataggio del documento era l’allora Direttore General del MIUR, Daniele Livon, sul punto di transitare alla Direzione dell’Anvur. Roars aveva commentato così:

Parte il sistema universitario a due velocità. Per gli atenei di Serie A, ci sarà libertà di sperimentare nuovi organi di governo, la possibilità di costituire dipartimenti in deroga alle numerosità minime, libertà di istituire corsi di laurea e corsi di dottorato senza onerosi accreditamenti. Ma soprattutto tanta libertà di differenziare il trattamento dei docenti: incentivi per trasferimenti anche entro le regioni, via libera alle doppie affiliazioni di docenti in servizio presso atenei stranieri, gestione locale delle chiamate dirette, negoziazione dei compiti didattici e di ricerca, maggiori possibilità di sperimentare forme premiali e incentivi economici per differenziare gli stipendi. […] Torna prepotentemente in primo piano il ruolo di Anvur: un risultato almeno pari a “B – Più che soddisfacente” certificato da ANVUR con le famigerate visite CEV sarà sufficiente a soddisfare il requisito sulla didattica “di elevato livello”. I risultati di alto livello nella ricerca fanno riferimento sia ai parametri VQR, sia a indicatori relativi a vincitori ERC/Horizon e numero di brevetti.

Non è difficile immaginare, vista la precisione degli indicatori, che gli estensori del documento abbiano già svolto opportune simulazioni. Per esempio non è che ci voglia molto a sapere quali sono le università che hanno ricevuto dall’Anvur un giudizio di accreditamento almeno pari a B: basta cliccare qui. Ed è altrettanto facile prevedere che l’accesso al club delle università di serie A, liberate dai “lacci e lacciuoli” della burocrazia, sarà prevalentemente riservato alle università ricche del Nord.

Secondo le parole dell’allora Capo Dipartimento Giuseppe Valditara, si trattava di un “documento, veicolato riservatamente al Presidente della CRUI per un primo parere informale dal direttore Livon“. Il progetto “Autonomia Responsabile” finì sui giornali con il Mattino che intitolò “Nascono gli atenei di serie A con regole-tagliola per il Sud”.

La vicenda precipitò dopo che Corrado Zunino, su Repubblica, pubblicò i virgolettati di un presunto colloquio telefonico tra Valditara e Livon:

Livon (con il tono di voce alterato): «Perché hai scritto che la riforma è opera mia, lo sai che non è vero». Valditara: «A pochi giorni dalle elezioni europee certo non potevo attribuirla né a me né al ministro Bussetti». Livon: «Lo sai che io c’entro poco, in quel lavoro ci sono errori marchiani che non avrei mai commesso».

Seguì una smentita a firma congiunta Valditara-Livon a cui Zunino replicò: “Ribadisco la veridicità e correttezza – dopo nuova verifica sulle fonti e i documenti che avevano dato avvio all’articolo – dell’intero testo prodotto“. Qualche mese dopo cadde il governo e non se ne fece più nulla.

Adesso, la Lega non solo è di nuovo al Governo, ma appare in buona sintonia con Matteo Renzi, il quale già nel 2013 diceva

come sarebbe bello se riuscissimo a fare cinque hub della ricerca […] cinque grandi centri universitari su cui investiamo … le sembra possibile che il primo ateneo che abbiamo in Italia nella classifica mondiale sia al centoottantatreesimo posto?

Le dichiarazioni di Resta fanno pensare che il varo delle università di serie A e di serie B su base territoriale, il sogno di tutti i governi post-Gelmini, potrebbe essere finalmente realizzato dal Governo dei Migliori.

P.S. Vedere una Superlega di quattro-cinque atenei eccellenti promossa, in palese conflitto di interessi, dal Presidente della Conferenza dei Rettori la dice lunga sullo stato della CRUI a cui non è rimasto nemmeno lo spirito di autoconservazione mostrato dall’UEFA.

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5 Commenti

  1. L’obiettivo di inserire almeno un istituto universitario nei primi 100 del ranking, per quanto in sé di nessunissimo significato scientifico, può essere visto come legato a una questione di ‘prestigio nazionale’. Così l’ha inteso, ad esempio, la Francia, che, per entrare nel ranking in posizioni significative ha appositamente creato due istituti (entrambi multidisciplinari ed entrambi, ovviamente, a Parigi), molto finanziati e molto criticati dalla comunità scientifica: il PSL (formato federando una decina di Grandes Ecoles preesistenti; 28 premi Nobel nel corpo docente) e l’Institut Polytechnique de Paris (che federa 5 Grandes Ecoles di ambito tecnologico). I due si sono collocati rispettivamente al 44 e 59 posto; la terza università francese presente nel ranking, sempre parigina, è… la Sorbonne, 72esima. Le ragioni per cui ciò si è potuto fare in Francia e in Italia sarebbe impossibile sono evidenti; così come è chiarissimo che pensare a 5 Università italiane nel ranking è semplicemente ridicolo. Realisticamente, la via del consorzio a fini di ranking, se ritenuta strategica sul piano del prestigio nazionale, potrebbe essere perseguita con un singolo polo multidisciplinare che vada a federare istituzioni preeesistenti. Dove crearlo? Solo tre città (o ben tre città) avrebbero le caratteristiche per proporsi: Milano con le sue 10 università pubbliche e private, Roma con le sue 12, Napoli con le sue 5. Molto, molto difficile.

    • Grazie per il commento e soprattutto per aver introdotto il tema dei “consorzi a fine di ranking” che, per ragioni di spazio, non avevo trattato nell’articolo. A proposito di un possibile consorzio milanese, nel 2017 avevo fatto due conti, mostrando che un’ipotetica BUM (Big University of Milan) che consorziasse Statale, Bicocca, Milano Politecnico e Pavia si sarebbe collocata immediatamente al 60-mo posto della classifica di Shanghai superando:

      University of California, Irvine,
      McGill University,
      Ecole Normale Superieure – Paris,
      Rice University,
      Swiss Federal Institute of Technology Lausanne,
      Purdue University – West Lafayette,
      Georgia Institute of Technology,
      Leiden University,
      Technion-Israel Institute of Technology.

      Chi fosse interessato trova tutti i dettagli qui: https://www.roars.it/classifica-arwu-ununiversita-italiana-nella-top-100-subito-e-a-costo-zero/

      Ovviamente, sarebbe molto difficile e non è questo ciò a cui pensa il Rettore del Politecnico. È anche tutto da vedere se i vantaggi di immagine di questo tipo di fusione compensino le inefficienze. In Francia, alcuni studenti ne dubitavano:
      _______________
      “Les adhérents du syndicat étudiant UNEF sont, eux, catégoriquement « opposés à la fusion, à cette course au gigantisme au détriment de la proximité et de la réussite des étudiants »”
      _______________
      http://www.lemonde.fr/societe/article/2015/09/15/l-universite-pierre-et-marie-curie-et-paris-iv-sorbonne-fusionnent_4758207_3224.html

  2. E quanto bene farebbe al prestigio nazionale sentire una dichiarazione tipo “La politica scientifica ed universitaria nazionale è fondamentale per lo sviluppo culturale ed economico del nostro paese e per questo decidiamo di non assoggettarla ad estemporanee iniziative di interessi privati?”

  3. Su Twitter, il thread che riassumeva questo post ha riscosso un certo interesse. Oltre a numerose manifestazioni di apprezzamento, sono arrivati anche i commenti dei troll, che abbiamo raccolto in una piccola antologia.

  4. Le università degli USA (ma anche in minor misura UK), per quanto capisco io, seguono una filosofia molto diversa dalla nostra: sono in gran parte private e chiedono allo studente tasse elevate (spesso pagate con prestiti d’onore). C’è un sistema di valutazione interno che serve a “garantire” al “cliente” che i suoi soldi sono ben spesi. La ricerca dell’eccellenza, ad altissimi costi, è economicamente motivata anche dal fatto che una merce eccellente può essere venduta ad un prezzo più alto e con maggiore margine di guadagno per l’imprenditore. Il risultato è una corsa all’eccellenza, svincolata da considerazioni sul ruolo sociale dell’università, che deve formare i professionisti necessari a soddisfare il fabbisogno del paese. Questo sistema è oggi in crisi sul versante sociale per varie ragioni: è costosissimo, molti studenti che non conseguono la laurea o un impiego confacente sono in difficoltà nel pagare i debiti contratti per studiare, le università stesse non riescono ad esigere i crediti accumulati, la qualità della formazione (intesa come distinta da quella della ricerca) cala perché lo studente è un cliente prezioso che deve ad ogni costo essere soddisfatto, anziché istruito, etc. Insomma, il modello dell’eccellenza è proprio quello che non dovremmo copiare: molto meglio le nostre università di massa con tutti i loro difetti e lontane dalla top 100.

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