Andrea Gavosto è un economista, presidente della Fondazione Giovanni Agnelli, membro di Confindustria e del comitato tecnico-scientifico internazionale istituito dal MIUR per la messa a punto del sistema nazionale di valutazione delle scuole. Il plauso che Gavosto esprime nei confronti delle modifiche appena apportate alla prova d’italiano nell’esame di terza media – e in dirittura d’arrivo alla maturità – non può non suscitare in molti di noi insegnanti legittime preoccupazioni. In che cosa consistono queste modifiche? Sostanzialmente nell’eliminazione del tema libero, a vantaggio di prove strutturate di narrazione, comprensione, analisi e/o riassunto del testo. A che serve il tema? A che servono i saperi teorici? A che serve la ricerca di base? ‘Competenze’ è la parola chiave per comprendere il cambio di paradigma in atto. Un armamento leggero, perfettamente coerente con un mondo del lavoro sempre più dequalificato e automatizzato, il mondo di venditori e di addetti ai servizi a bassissimo costo che popola call center, magazzini per l’e-commerce, logistica, grandi catene di distribuzione. Quando il trionfo delle ‘competenze’ sarà definitivamente celebrato, piattaforme a pagamento erogheranno saperi procedurali digitalizzati; agenzie private li misureranno e li certificheranno; società di revisori dei conti e di consulenza aziendale ne valuteranno l’utility e il value for money. Gli studenti, dotati dei soli frames di interpretazione della realtà dati dalla realtà, ‘sapranno essere’ perfettamente adeguati.
Ora, quello che voglio sono i Fatti. Insegnate a questi ragazzi e a queste ragazze Fatti e niente altro. Solo di fatti abbiamo bisogno nella vita. Non piantate altro e sradicate tutto il resto. Solo coi Fatti si può plasmare la mente degli animali che ragionano: il resto non servirà mai loro assolutamente nulla. Questo è il principio su cui ho allevato i miei figli, e questo è il principio su cui ho allevato questi fanciulli. Tenetevi ai Fatti, signore!
Charles Dickens, Tempi difficili, 1854
Io credo che la cultura sia il presentimento di quello che non si sa
Giuseppe Pontiggia, Nati due volte, 2000
Leggo sempre con interesse, anche se non disgiunto da certa apprensione, gli interventi di Andrea Gavosto sulle riforme della scuola pubblica italiana. Andrea Gavosto è un economista, consulente d’azienda, consigliere d’amministrazione di istituzioni politico-economiche italiane e internazionali, presidente della Fondazione Giovanni Agnelli, membro di Confindustria e del comitato tecnico-scientifico internazionale istituito dal MIUR per la messa a punto del sistema nazionale di valutazione delle scuole. Certamente titolato a parlare di organizzazione scolastica, di gestione delle scuole autonome, di governance di un’istituzione pubblica fortemente privatizzata con le leggi 59 del 1997 e 107 del 2015[1]. Un po’ meno, forse, quando si parla di programmi, insegnamento, prove d’esame e riforme: tutte cose che, più che ai desiderata degli economisti, dovrebbero ispirarsi a orizzonti culturali di ampio respiro e a politiche sociali largamente condivise dentro e fuori le aule scolastiche.
Ma che ormai scuola e università pubbliche siano state assoggettate alle esigenze utilitaristiche del libero mercato, attraverso una manovra a tenaglia che ha accompagnato il definanziamento e la riduzione delle risorse ad una progressiva disarticolazione interna delle loro attività e della loro originaria funzione istituzionale e costituzionale, è un dato di fatto ineludibile, forse irreversibile. Dunque il plauso che l’economista Gavosto esprime nei confronti delle modifiche appena apportate alla prova d’italiano nell’esame di terza media[2] – e in dirittura d’arrivo alla maturità – non può non suscitare in molti di noi insegnanti legittime preoccupazioni.
In che cosa consistono queste modifiche? Sostanzialmente nell’eliminazione del tema libero, a vantaggio di prove strutturate di narrazione, comprensione, analisi e/o riassunto del testo, sulla falsariga di quanto già fatto in passato per la prima prova dell’esame di Stato, in cui al tema di attualità o di argomento storico sono state affiancate prove di analisi del testo letterario e il saggio breve. Ma la commissione ministeriale oggi guidata da Luca Serianni promette ulteriori cambiamenti[3]. Ed è facile immaginare che anche alla fine della scuola superiore gli studenti saranno presto chiamati a cimentarsi col riassunto e non più col tema. Insomma, il tema libero è destinato a sparire dall’orizzonte scolastico di ogni ordine e grado. Nell’indifferenza generale ma col plauso degli economisti.
Sottolinea Gavosto: “Lo svolgimento dei temi, su soggetti spesso ampi e mal definiti, rispecchia infatti una scuola che privilegia la capacità di scrittura letteraria, l’erudizione, l’argomentazione retorica. Questo tipo di scuola è stata sicuramente capace di generare grandi scrittori e scienziati, letterati, giornalisti di spicco: ma si è trattato di minoranze esigue. Quanti hanno utilizzato la forma del tema nel loro lavoro e nella vita quotidiana?”. E’ una riflessione che si articola in due parti: la prima è un’illazione in cui si descrive una scuola inesistente, che indulge compiaciuta in pratiche di argomentazione erudite, lontane anni luce dalle reali e ben più prosaiche attività di scrittura che si svolgono in classe (riassunti, commenti, relazioni, recensioni, articoli, verbali, questionari, piccoli saggi, analisi di testi, temi e tesine, assai raramente tipologie letterarie e direi mai esercizi di erudizione!); la seconda è un’interrogativa retorica perfettamente in linea con la visione utilitaristica dominante: a che serve il tema? A che servono i saperi teorici? A che servono le conoscenze storiche? A che servono cinque anni di scuola superiore? A che serve la lezione frontale? A che servono le discipline? A che serve la ricerca di base? Una visione che accomuna think tank internazionali, mondo aziendale, enti formativi, burocrati ministeriali e decisori politici nell’elaborazione di un progetto condiviso per scuola, università e ricerca che le metta al servizio del mercato e del profitto.
Per fare questo erano necessari tre passaggi fondamentali: trasformare la cultura in prodotto; comprimere l’esercizio della libertà a docenti e discenti; riformulare il discorso comune. Chiunque di noi lavori nella scuola, nell’università o nella ricerca sa esattamente attraverso quali meccanismi di misurazione, quali procedure di verifica, quali dispositivi burocratico-giuridici di regolazione, quali modalità di governance e quali efficaci operazioni di mistificazione lessicale e semantica ciò si sia ampiamente realizzato. Basta solo ricordare qualche acronimo, VQR, ANVUR, AVA, INVALSI, RAV, PTOF, PNSD, PNF, PdM, o evocare stilemi ricorrenti, tipo certificazione delle competenze; numero chiuso o accesso programmato, valutazione della performance, ranking universitari, alternanza scuola-lavoro.
Nella delegittimazione di luoghi, forme e strumenti del sapere che ha accompagnato, col fiorire degli interventi normativi, la svalutazione dei percorsi formali, storici, epistemologici, disciplinari e interdisciplinari di acquisizione delle conoscenze – in ossequio all’innovatività totemica imposta dal mercato e recepita dalle istituzioni – lentamente e progressivamente abbiamo perduto, insieme ai nostri studenti, spazi autonomi di pensiero e lavoro, e autonome possibilità di elaborazione e di espressione critica. Un lento giro di vite che, partendo dalle prove di valutazione, ha poi inesorabilmente stretto su metodologie, contenuti, formazione[4], strumenti e statuti disciplinari[5], con l’obiettivo non dichiarato – e forse non pienamente compreso dai tanti protagonisti di questo processo – di creare una nuova forma mentis per tutti, caratterizzata da operatività, flessibilità, resilienza e autoimprenditorialità[6], ovvero dalla capacità di adattamento acritico alle condizioni di precarietà sociale ed esistenziale alla quale oggi gli individui appaiono condannati, in cui ogni libertà di scelta – cosa studiare, che lavoro fare, dove e come vivere – è ormai da considerarsi un privilegio per pochi, un’utopia per i più.
‘Competenze’ è la parola chiave per comprendere il cambio di paradigma in atto. E’ su questo termine e sulle scelte politiche che esso impone che si gioca la partita della pubblica istruzione, dell’accesso non vincolato alla conoscenza, della garanzia di una cultura doppiamente gratuita perché economicamente agibile per tutti e perché non subordinata necessariamente a fini utilitaristici, ma soprattutto della libertà dell’insegnamento e dell’apprendimento, precondizione della democrazia. E’ un termine che nasce nel mondo dell’impresa e delle professioni e che è stato surrettiziamente importato nel discorso sulla scuola da una folta schiera di formatori che sulla ‘fenomenologia delle competenze’ e sui meccanismi del nuovo, auspicato, modus operandi di docenti e discenti hanno riempito pagine di libri e costruito feconde carriere accademiche e ministeriali. E’ un termine d’importazione dall’ambito della gestione aziendale delle risorse umane[7] che sembra tuttavia legittimamente afferire al discorso culturale – ormai pienamente identificatosi con la sola ‘cultura d’impresa’ – e che convince il senso comune perché rimanda alla battaglia contro il nozionismo, contro un sapere autoreferenziale, contro la disoccupazione, contro una cultura teorica avulsa dalla pratica (una cultura che non favorisce lo sviluppo, che non stimola l’innovazione, che non incrementa la produttività) ma che, in realtà, ha ben altra valenza psicologica e sociopolitica perché inaugura una nuova antropologia, un nuovo tipo di docente e studente ma soprattutto un nuovo tipo d’uomo, adattato, in termini squisitamente darwiniani, alle caratteristiche e alle esigenze della contemporaneità.
In concreto, usando il linguaggio che ha egemonizzato il discorso su scuola e università, il combinato disposto tra ricerca accademica, istanze economiche di mercato e attività legislativa, saldando le politiche dell’istruzione alle politiche sul lavoro[8], sta compiutamente realizzando il passaggio dal ‘sapere’ e ‘saper fare’ al ‘saper essere’, nella creazione del costrutto idealtipico dell’individuo globale del terzo millennio: dereferenzializzato, decostituzionalizzato, decontrattualizzato, delocalizzato.
A che serve uno studente?
Le ‘competenze’, nella visione escatologica dei loro cantori, non sono semplicemente quelle strettamente legate a contenuti e attività proprie di ogni disciplina; quelle che, direi da decenni, a scuola, maestri e insegnanti cercano faticosamente di trasmettere e di far padroneggiare ai propri alunni. Chi di noi insegna più le declinazioni o le tabelline solo per il gusto di sentirle recitate a memoria, indifferente al fatto che lo studente sappia riconoscere e usare quelle nozioni per tradurre correttamente un brano dal latino o risolvere un problema di matematica? Chi di noi insegna una lingua straniera chiedendo che si impari un elenco di parole o una regola grammaticale o sintattica a prescindere dall’uso che se ne può fare in mille diversi contesti comunicativi? Chi di noi non riproduce fenomeni naturali o non fa esperimenti e attività manuali in laboratorio? Chi di noi rievoca un fatto storico del passato senza metterlo in correlazione col presente? Chi di noi descrive opere d’arte della tradizione e non chiede agli studenti di confrontarle con le forme della modernità? O legge una poesia o un brano di romanzo e non li invita a guardarsi dentro, a esplorare emozioni e sentimenti? Chi di noi persegue l’apprendimento fine a sé stesso di un qualunque argomento, accontentandosi di una reiterazione meccanica di quanto letto a casa o ascoltato in classe, senza chiedere allo studente di mettersi in gioco interrogandosi sul perché delle cose? Chi di noi considera la cultura lettera morta da travasarsi faticosamente nelle teste vuote dei nostri studenti e non, invece, occasione viva, viva, mutevole, cangiante e tra le più preziose per dare senso alla vita in tutte le sue dimensioni – professionale, relazionale, affettiva, immaginativa – affinché ogni studente, quanto più ricco di sapere e quanto più desideroso di sapere, sappia guardarsi intorno, sappia cercare e sappia discernere, alimenti dentro di sé curiosità e interesse, riconosca i suoi sentimenti e i sentimenti degli altri, sappia porsi sempre nuove domande e non si accontenti di risposte convenzionali e, soprattutto, non sia mai pago di conoscere, di pensare, di riflettere, di immaginare, di interpretare, di capire?
Conoscere, pensare, riflettere, immaginare, interpretare, capire: sono competenze? La conoscenza è una competenza? Il pensiero è una competenza? La riflessione è una competenza? L’immaginazione è una competenza? L’interpretazione è una competenza? La comprensione è una competenza? Davvero si vogliono trasformare gli insegnanti in meri ‘certificatori di competenze’?[9] E gli studenti in idiot savants abili nella produzione di tecnicalità orientate a questo o quel ‘traguardo di competenza’, a questo o quell’‘obiettivo formativo’, a questo o quel ’compito di realtà’, confinati in un sapere procedurale finalizzato e strumentale ma incapaci di un pensiero astratto, gratuito, originale, divergente, libero, se pure stentato o velleitario o imperfetto quanto può esserlo il pensiero di un bambino o di un adolescente?
Non considererò mai, vorrei dire al professor Serianni, un tema libero di un mio alunno un inutile “sbrodolamento” autobiografico. E se gli insegnerò a fare il riassunto, perché credo nell’importanza della gerarchizzazione e della sintesi delle informazioni, o se gli chiederò di svolgere esercizi di glottodidattica, perché credo nel valore di una corretta padronanza, anche formale, della lingua, non per questo smetterò di invitarlo alla riflessione libera, alla scrittura non guidata né strutturata, all’esposizione autonoma, ancorchè ingenuamente autobiografica, dei suoi pensieri e delle sue riflessioni. E non smetterò mai di leggere in classe e di far leggere a casa testi letterari, perché non è vero, come crede il professor Serianni, che la lettura del testo letterario è appannaggio esclusivo dell’adulto colto. Forse non ha mai visto un bambino chino su un libro di favole, o un ragazzino affascinato dalla biografia di un personaggio storico o di uno scienziato, o rapito dalla lettura di un romanzo d’avventure, classico o contemporaneo. Ma se così fosse, se questo mondo digitale ipersensoriale che allontana i più giovani dai libri e li fagocita nei suoi innumerevoli schermi avesse davvero reso la fruizione del testo letterario privilegio dell’adulto colto, allora saremmo doppiamente colpevoli per aver rinunciato a custodire e alimentare nei nostri studenti la sfera simbolica del pensiero astratto che ci caratterizza come esseri umani. Distinguendoci da tutti gli altri esseri viventi, anch’essi dotati di complesse capacità comportamentali, percettive e di apprendimento, siamo l’unica specie che si interroga sul proprio destino, perché unica ad aver evoluto le capacità per farlo[10].
Il linguaggio serve per pensare, non per comunicare. Ed è la conoscenza, con il suo valore di testimonianza e la sue innumerevoli possibilità di insight, con il suo desiderio e con i suoi orizzonti di libertà, che alimenta il pensiero. Davvero si vuole ricondurre “la complessità del mondo a un kit di pratiche”[11]? Davvero si vuole ridurre ogni possibilità di sapere alle formule di un algoritmo?
I teorici delle competenze, in buona compagnia degli economisti, affermano che a scuola dobbiamo insegnare l’expertise nel problem solving: dunque le conoscenze devono essere funzionali a specifici ‘traguardi cognitivi’ e vanno sempre ‘mobilizzate’ in un contesto d’apprendimento e valutazione ‘autentico’, assumendole in un’ottica di tipo costruttivista che, ‘situandole’, ne testimoni il carattere processuale e strumentale. Perché, affermano, le conoscenze non hanno valore in sé, ma solo in funzione degli obiettivi formativi che consentono di raggiungere, degli atti volontaristici che generano per affrontare la realtà, delle ‘situazioni sfidanti’ che ci scuotono dall’inerzia dei saperi e ci impongono di metterci alla prova. E piuttosto che alla rivisitazione contemporanea del nesso marxiano tra teoria e prassi (benché ci sia anche chi definisce le ‘competenze’ uno “spettro che si aggira per i corridoi”[12]), queste teorizzazioni sembrano rimandare al vecchio detto ‘val più la pratica che la grammatica’. Se le conoscenze ci addormentano e ci indeboliscono, le ‘competenze’ ci vivificano e ci fortificano, ci preparano alla lotta per la vita, ci salvano dal risucchio della fiumana, mettendoci in competizione con noi stessi e con gli altri. Ci rendono proattivi, come certi prodotti galenici o come la cocaina. Ed ecco allora che, nelle pagine dei più appassionati, le ‘competenze’ assumono vita propria, scalzano contenuti e discipline ed esautorano i docenti, la scuola e l’università, in quanto depositari di saperi, ruoli e funzioni istituzionali anacronistici; perché le ‘competenze’ sono il frutto di processi di apprendimento esperienziali, non formali e informali, quindi non necessariamente curricolari e scolastici, i cui esiti possono essere misurati e certificati da enti esterni, pubblici o privati. Le ‘competenze’, liberate dal fardello degli ‘oggetti culturali’ che riempivano i bagagli obsoleti dei vecchi percorsi formativi e dall’impedimento della concettualizzazione e dell’interpretazione che gravavano sulle tradizionali forme di strutturazione di un sapere storicizzato ed epistemologicamente fondato, diventano così un armamento leggero, funzionale alla moderna idea di cittadinanza fondata sul vantaggio competitivo e sull’utilità individuale, perfettamente coerente con un mondo del lavoro sempre più dequalificato e automatizzato, il mondo di venditori e di addetti ai servizi a bassissimo costo che popola call center, magazzini per l’e-commerce, logistica, grandi catene di distribuzione. Un mondo per il quale la stragrande maggioranza dei lavoratori deve avere capacità basiche di lettura, scrittura e comprensione testuale, un’infarinatura d’inglese, abilità elementari con i dispositivi elettronici. La complessità del conoscere e le difficoltà della costruzione del sapere derubricate per tutti all’operatività del problem solving. Quindi ecco, nella politiche per la scuola, la coercizione all’uso e consumo del digitale imposto come unica strategia di innovazione didattica, che spaccia come straordinaria possibilità evolutiva il servizio reso alle multinazionali dell’editoria digitale e degli strumenti informatici, anche a danno delle capacità metacognitive dei nostri studenti. Ecco il CLIL, che obbliga docenti di storia o fisica o arte a ruminare in classe qualche argomento in basic english. Ecco l’alternanza scuola-lavoro, che sottrae ore di studio nella mistificazione dell’addestramento professionale. Ecco l’imposizione ministeriale coatta della ‘didattica per competenze’[13], delle prove standardizzate, dei test Invalsi e Ocse-Pisa che le misurano e delle procedure burocratiche che le certificano.
A che servono i temi? Esercizi di incastro o di completamento, parafrasi e riassunti, “scritture vincolate a precisi requisiti”[14] son più che sufficienti per dimostrare competenze, anche alla maturità. Non dobbiamo diventare grandi scrittori e scienziati, letterati, giornalisti di spicco, ci ricorda Gavosto. Dobbiamo imparare a rispettare consegne specifiche e realistiche, addestrarci alla produzione guidata: la scuola, oggi, come metafora della neovita.
Quando il trionfo delle ‘competenze’ sarà definitivamente celebrato, non solo il valore legale dei titoli di studio, con il suo correlato in termini di qualifica professionale e tutela giuridica, ma gli interi percorsi di studio così come li abbiamo conosciuti saranno liquidati e il valore di scambio di ogni apprendimento avrà definitivamente soppiantato ogni residuo valore d’uso della cultura e dei saperi critici. Piattaforme a pagamento erogheranno saperi procedurali digitalizzati, con scuole e università ridotte al rango di mere strutture ospitanti – e paganti – servizi informatici; agenzie private li misureranno e li certificheranno in quadri di competenze standardizzate e globali; società di revisori dei conti e di consulenza aziendale ne valuteranno l’utility e il value for money per il mercato mondiale. Gli studenti, dotati dei soli frames di interpretazione della realtà dati dalla realtà, ‘sapranno essere’ perfettamente adeguati.
Nessuna cultura, nessun presentimento. Padroneggeremo ogni incertezza. Sarà il trionfo dei fatti.
[1] Rispettivamente, Riforma della Pubblica Amministrazione e “Buona Scuola”
[2] http://www.lastampa.it/2018/01/17/cultura/opinioni/editoriali/addio-al-tema-letterario-la-scuola-infrange-lultimo-tab-X3F8zSruvHFawMlP1oDanM/pagina.html
[3] http://www.repubblica.it/scuola/2017/09/18/news/la_svolta_di_mister_italiano_dalle_medie_alla_maturita_meno_temi_e_piu_riassunti_-175793181/
[4] https://www.roars.it/un-lucido-attacco-alla-liberta-dinsegnamento-sul-piano-di-formazione-obbligatoria-dei-docenti-italiani/
[5] Si vedano, ad esempio, gli “Orientamenti per l’apprendimento della filosofia nella società della conoscenza”, ottobre 2017 MIUR Direzione Generale per gli ordinamenti scolastici e la valutazione del sistema nazionale di istruzione
[6] Competenze chiave di cittadinanza europea; legge 107/2015, art. 1, c. 7, lettera d
[7] https://www.orientamento.it/indice/le-competenze-cosa-sono-come-rilevarle-come-si-utilizzano-nellorientamento/
[8] Marta Fana, Non è lavoro, è sfruttamento, Tempi Nuovi Laterza, 2017
[9] Linee guida per la certificazione delle competenze del primo ciclo di istruzione – MIUR
[10] Terrence W. Deacon, La specie simbolica. Coevoluzione di linguaggio e cervello, Fioriti Editore, 2001
[11] https://sites.google.com/site/appelloperlascuolapubblica/
[12] Mario Castoldi, Valutare e certificare le competenze, Carocci, 2016
[13] Didattica per competenze, innovazione metodologica e competenze di base, MIUR – Piano per la formazione docenti 2016-19
[14] Luca Serianni, L’ora di italiano. Scuola e materie umanistiche, Bari, Laterza, 2010
Eppure il MIUR si guarda bene dal prendere come propri consulenti persone con *competenze* specifiche.
Dietro Indicazioni Nazionali e definizione delle prove di esame in genere si trova un’ ampia pattuglia di persone che la scuola la conoscono solo attraverso la propria esperienza di decenni prima e i racconti “di un’amica insegnante”….
“La nostra istruzione militare durò dieci settimane e questo bastò per trasformarci in una maniera più radicale che non dieci anni di scuola. Imparammo che un bottone ben lucidato è più importante di quattro volumi di Schopenhauer. Prima stupiti, poi irritati, e infine indifferenti, riconoscemmo che quel che era preponderante non era lo spirito [la conoscenza] ma la spazzola per lucidare gli scarponi [la competenza e il problem solving], non era il pensiero ma il “sistema”, non era la libertà ma il dressaggio. ……. ci rendemmo conto che ci stavano preparando a diventare eroi come si addestrano i cavalli da circo. …. “(Erich Maria Remarque, Nulla di nuovo sul fronte occidentale, 1928; trad. dalla trad. fr.).
La lucida analisi fatta dalla professoressa Angelucci purtroppo costituisce una delle poche voci di dissenso in un mondo come quello della scuola che ormai ha imparato ad adeguarsi a qualsiasi riforma imposta dai cultori della “nuova didattica”.
È dai tempi del ministro Berlinguer che si cerca di plasmare la scuola italiana secondo i canoni di una certa ideologia pedagogica, funzionale a quel disegno politico che è stato ben descritto in questo articolo.
La realtà però è che la maggioranza dei docenti si è adeguata al nuovo corso, in alcuni casi per convinzione ideologica, in altri per ignavia o per quieto vivere.
Gli insegnanti italiani presentano ogni anno miriadi di progetti da inserire nel PTOF, si impegnano per la realizzazione dell’alternanza scuola lavoro nei licei, fanno acquistare ai loro studenti libri per prepararsi alle prove Invalsi, in collegio docenti votano per realizzare prove standardizzate per classi parallele, ritengono oramai normale e opportuno che le competenze vadano certificate e magari anche “misurate” (sic!).
Restano fuori quelli che un noto sindacato dei DS ha definito i “docenti contrastivi”, ossia quegli strani esseri che vorrebbero addirittura che venisse rispettato l’articolo 33 della Costituzione.
In queste condizioni, dove vogliamo andare? Bisogna solo aspettare che si tocchi il fondo, in maniera che appaia evidente l’esigenza di voltare pagina. Quanto tempo bisognerà aspettare ancora?
Io non mi sono mai sottratto alle battaglie per difendere la cultura contro la barbarie di questi cialtroni, non credo però di poter continuare a lungo, rischierei di compromettere seriamente la mia salute.
Per quanto riguarda l’università, sebbene ci sia un enorme numero di docenti “odalische” del potente di turno, frutto in massima parte dell’incapacità di produrre un’analisi profonda e di semplice interesse particulare (se serve a fare carriera…), devo anche aggiungere che esiste un bacino consistente di docenti resistenti (non so per quanto) alla massificazione culturale che sta avvenendo attraverso la sostituzione della conoscenza con le competenze.
Per quel che può servire, condivido in pieno.
Firmato: Un docente “contrastivo”
E’ vero, ho visto che nelle scuole miti docenti si sono adeguati. Che disastro!
Ma si, non facciamo più i temi, è sufficiente ripetere poche nozioni imparate a memoria come vuole il prof!!…. E poi vediamo bene le difficoltà che hanno molti studenti all’università quando devono scrivere, fare collegamenti, ragionare…..
Altro che competenze, qui avremo una bella marea di incompetenti!!