La debolezza del sistema universitario italiano nel reagire a sette anni di fortissima compressione è anche frutto di politiche di “divide et impera”, attuate attraverso indicatori che hanno ripartito in misura discrezionale e molto selettiva i tagli. Chi è relativamente “protetto” dai tagli tende, comprensibilmente, a protestare meno. Un ulteriore esempio di queste scelte è il D.M. che determinerà l’assunzione di 861 nuovi ricercatori RTDb, una misura insufficiente a bilanciare la  riduzione di 7.809 unità fra il 2008 e il 2015. L’allocazione prevista dal D.M. sottintende e mira ad una configurazione sempre più differenziata, presupponendo  che all’Italia serva più un ristretto numero di università “forti” che un sistema “forte” nel suo insieme, trascurando gli effetti di sperequazione territoriale (Nord vs. Centro-Sud), con possibili, importanti effetti di lungo termine sul benessere dei diversi territori, e quindi del paese nel suo insieme. Qualcuno potrebbe derubricare la cosa alla protesta di chi “perde”. Ma il punto è che non si tratta di un tema “locale”: ma chi “perde” o “vince” alla fine non può che essere l’università italiana nel suo insieme.

Piano_straordinario_RTDb_2016

Rielaborazione da fonte UDU:
http://www.unionedegliuniversitari.it/piano-ricercatori-poche-assunzioni-e-aumento-divario-nord-sud/
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La grande debolezza del sistema universitario italiano nel reagire a sette anni di fortissima compressione del suo ruolo e delle sue attività, che non ha pari nel tempo e in comparazione internazionale, è dovuta anche alla sua divisione interna; frutto di intelligentissime politiche di “divide et impera”, attuate attraverso l’utilizzo di indicatori che hanno ripartito in misura discrezionale e molto selettiva i tagli finanziari e delle risorse umane. Chi è relativamente “protetto” dai tagli tende, comprensibilmente, a protestare meno.

Le vicende degli ultimi giorni forniscono un ulteriore esempio di queste scelte. Il Ministro dell’Istruzione Stefania Giannini ha emanato il 18 febbraio scorso un decreto con il quale provvede alla ripartizione fra le sedi universitarie dei 47 milioni (per l’anno 2016; 50,5 milioni a decorrere dal 2017) messi a disposizione dal comma 247 della Legge di Stabilità per il 2016, per il reclutamento di nuovi ricercatori universitari.

E’ stato sottolineato da più parti come tale stanziamento, che determinerà l’assunzione di 861 nuovi ricercatori (a tempo determinato), non sia assolutamente in grado di bilanciare la fortissima riduzione del personale docente nelle università italiane avvenuta negli ultimi anni. Come documentato, tra gli altri, dal Rapporto della Fondazione Res “Università in declino. Un’idagine sugli atenei da Nord a Sud” (Donzelli Editore), infatti, il personale docente si è ridotto di ben 7809 unità fra il 2008 e il 2015 (anche tenendo conto dell’immissione di nuovi ricercatori con contratto a tempo determinato), e tenderà a ridursi ulteriormente nel prossimo quinquennio.

Ma l’aspetto che più rileva del decreto è la modalità con cui queste possibilità di assunzione sono state ripartite fra gli atenei. I primi provvedimenti che hanno inciso sulle possibilità di assunzione delle università, le hanno bloccate per le sedi con un rapporto superiore al 90% fra spese di personale e Fondo di Finanziamento Ordinario, e consentite per le altre. Poi sono stati introdotti blocchi e limitazioni complessive del turnover del personale. Nel 2012, tuttavia, il Ministro Profumo ha reso tali limitazioni diverse fra sede e sede, legandole ad indicatori di natura finanziaria nei quali – per la prima volta – era anche considerato il gettito della tassazione studentesca. Nel 2013 il Ministro Carrozza ha poi eliminato il tetto massimo, che era vigente, di recupero del turnover: consentendo così ad alcune sedi di superare il 100% (nuove assunzioni maggiori dei pensionamenti), mentre per altre il valore era inferiore al 20%. L’insieme delle disposizioni ha prodotto così politiche assunzionali assai sperequate; dato il rilevante ruolo giocato dalla tassazione studentesca (strettamente legata al reddito procapite dei territori di insediamento), tale sperequazione ha ssunto anche carattere territoriale. Ad esempio nel 2012-14 il turnover medio è stato del 38,7% negli atenei del Nord, del 24,2% al Centro, del 19,9% al Sud e del 15,4% nelle Isole; oltre il 100% per Catanzaro e Sant’Anna di Pisa; inferiore al 20% per 18 atenei del Centro-Sud e per Udine.

Il comma 248 della legge di Stabilità, così come proposto dal Governo e non emendato dal Parlamento, innova ancora una volta questi criteri, e stabilisce che in questo caso “l’assegnazione alle singole università è effettuata (…) tenendo conto dei risultati della valutazione della qualità delle ricerca (VQR)”. Vediamo ora come il Ministro Giannini ha applicato questa norma. Il decreto stabilisce in primo luogo che a ciascun ateneo spettano risorse pari a due ricercatori, allocandone così 132. Il Ministro “tiene conto” poi della VQR assegnando tutti gli altri ricercatori (729) in base ad essa (in particolare per il 75% in base all’indicatore Irfs1 e per il 25% in base all’indicatore Iras3).

Tali criteri allocativi determinano una ulteriore sperequazione fra sedi, come è possibile verificare grazie ad una precisa elaborazione realizzata dall’Unione degli Universitari (http://www.unionedegliuniversitari.it/piano-ricercatori-poche-assunzioni-e-aumento-divario-nord-sud/), che rapporta i nuovi ricercatori per ciascuna sede sia al totale del personale docente in servizio nel 2015, sia alla riduzione avvenuta fra il 2010 e il 2015. La distorsione è duplice. In primo luogo il primo criterio (2 per sede) premia oltremisura gli atenei di dimensione più piccola. Ad esempio si ha un incremento di personale pari al 7,9% per l’Università per Stranieri di Perugia e del 6,2% per la Sant’Anna di Pisa (due università di un certo interesse perché di esse sono state Rettrici il Ministro in carica e il precedente), a fronte di un incremento medio pari all’1,8%. La seconda allocazione, come tutte quelle effettuate sulla base dei dati che si riferiscono alla VQR 2004-10, ha un forte effetto fra circoscrizioni e fra sedi. Come ben noto a tutti, tali dati penalizzano particolarmente le università del Centro-Sud. Gli atenei del Nord infatti ottengono un numero di nuovi ricercatori pari al 14,8% della riduzione di personale registrata fra il 2010 e il 2015; percentuale che scende intorno al 9,5% al Centro-Sud (e intorno al 6% per i grandi atenei di quell’area). Bologna, la sede cui sono allocati più ricercatori, recupera il 13,5% della riduzione 2010-15 (50 su 371); Roma-Sapienza, seconda nell’assegnazione, recupera solo il 6,1% (47 su 766).

Quanto sono in ballo criteri di riparto – specie se si riferiscono a limitate assunzioni di nuovo personale (a tempo determinato) in un periodo di fortissima riduzione degli organici – vi è un comprensibile incentivo per ciascuno a giudicarli in base al proprio specifico tornaconto; determinando così frizioni e contrapposizioni fra chi si ritiene ingiustamente penalizzato e chi giustamente premiato. Nella difficilissima situazione dell’università italiana, è proprio questa la dinamica che va evitata. Sarebbe opportuno uno sforzo di riflessione comune intorno ai notevoli interrogativi che questa vicenda, insieme a tutte le altre che l’hanno preceduta, pone.

Proviamo ad elencarne quattro.

  • E’ opportuno che le possibilità di nuovo reclutamento, dopo le drammatiche riduzioni sperimentate negli ultimi anni, siano diverse fra sedi? Non sarebbe invece meglio che questo recupero così parziale fosse stabilito in semplice proporzione del personale in servizio o, meglio, della riduzione sperimentata negli ultimi anni?
  • E’ accettabile, indipendentemente dall’esito che si determina, un uso così disinvoltamente discrezionale e variabile nel tempo (per ulteriore ampia documentazione si veda il volume: “Università in declino”) dei criteri di riparto (che coincidono con le allocazioni, dato che i dati per ognuna sono già disponibili), da parte delle burocrazia ministeriale e del Ministro?
  • Gli indicatori Irfs1 (che è quello con la più alta varianza fra atenei) Iras3 della VQR 2004-10 individuano davvero un “merito” degli atenei da “premiare”? C’è molto da dubitarne, dato che essi, oltre alle enormi criticità connesse alla VQR in sé, non considerano caratteristiche e dotazioni delle diverse sedi (personale, dotazioni, risorse finanziarie esterne non competitive) che hanno permesso le pubblicazioni valutate; né distinguono fra aree scientifiche all’interno degli atenei (pur sapendo che la varianza dei risultati della VQR è maggiore fra aree all’interno degli atenei che non fra atenei). Il moltiplicarsi, improprio, del loro uso, è con tutta probabilità legato al semplice fatto che essi producono indici di riparto “graditi” al decisore.
  • Infine, anche e soprattutto. Anche prescindendo da quanto appena detto: quale indirizzo di politica universitaria e delle ricerca segue l’allocazione asimmetrica di risorse ordinarie (e non aggiuntive!), in questo caso nuovi ricercatori, fra sedi in base al “merito”, “premiando” le sedi “forti”? Essa sottintende e mira ad una configurazione sempre più differenziata, duale, fra sedi dell’università italiana. Non si preoccupa del rafforzamento, in ottica di sistema, di quelle relativamente “deboli”, che tenderanno nel tempo a deperire: presuppone quindi che all’Italia serva più un ristretto numero di università “forti” che un sistema “forte” nel suo insieme; non considera la grandissima sperequazione territoriale (Nord vs. Centro-Sud) che essa produce (in parte dovuta agli indicatori), con possibili, importanti effetti di lungo termine sul benessere dei diversi territori, e quindi del paese nel suo insieme.

Se un docente di un ateneo “debole” (come nel caso di chi scrive) solleva questi problemi, è facile derubricare la cosa alla protesta di chi “perde”. Ma il punto è che non si tratta di un tema “locale”: ma che, come si è appena provato a fare, solleva interrogativi importanti e generali sull’università italiana. Sarebbe perciò auspicabile che un contributo a questa discussione venisse anche da colleghi delle sedi che hanno “vinto” (ad esempio da colleghi di Bologna o della Sant’Anna), provando a recupere la convinzione che chi “perde” o “vince” alla fine non può che essere l’università italiana nel suo insieme.

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17 Commenti

  1. Aggiungerei che anche a voler prendere per accettabile la ripartizione in base ai risultati della valutazione, distribuire nel 2016 risorse in base agli esiti di una valutazione ormai vecchia di sei anni è assurdo. E noto che si parla pochissimo anche del fallimento della SUA-RD come strumento “intermedio” di valutazione tra un esercizio VQR e l’altro.

    • Credo che questo argomento non regga. E’ l’argomento usato dalla CRUI per giustificare la fretta di realizzare una nuova (pessima) VQR. Punto 1. Fare valutazione è assai costoso (tra i 150 e i 300 milioni secondo le stime). Se un legislatore poco illuminato (ed un MIUR ancora meno illuminato) vogliono usare automaticamente dati di valutazione per distribuire risiorse, devono saoere che produrre quei dati costa; e quindi quei dati devono durare nel tempo. Sennò la valutazione incide troppo in percentuale sul finanziamento. In UK HEFCE ha distribuito fino a quest’anno i soldi sulla base del RAE 2010. NOn c’è da scandalizzaris. Data l’incapacità di programmare di ANVUR e MIUR in Italia si disegnano esercizi che producono dati già vecchi: avremo a fine 2016 la valutazione riferita al perioso 2011-2014. Cioè una valutazione già vecchia di due anni. E’ inutile che sottollinei che quello dei dati vecchi è ovviamente il problema minore. Il problema maggiore è che i risultati VQR sono inconsistenti a causa dell’adozione di tecniche di valutazione palesemente errate. Diciamo che il MIUR distribuisce la parte premiale del FFO sulla base delle “scie valutative” prodotte da ANVUR.

  2. Condivido pienamente quanto detto. Trovo veramente aberrante continuare con questa politica così sfacciatamente sbagliata in nome della premialità.
    La premialità dovrebbe essere applicata al di più, non al necessario.
    Al mio cane do la bacchettina di pelle quando è stato bravo, ma i croccantini non mancano mai.
    E come ho detto tante volte, è assurdo che MISE ed Europa destinino specifici fondi al Sud, quando poi il Miur fa il Robin Hood al contrario!
    Tra otto mesi vado in pensione, oggi mi è arrivata la comunicazione del Rettore, sono piemontese, ma lavoro al Sud, e trovo che le Università del Centro-Sud dovrebbero rivoltarsi in massa contro questa politica sbagliata!

  3. “Qualcuno potrebbe derubricare la cosa alla protesta di chi ‘perde’. Ma il punto è che non si tratta di un tema ‘locale’: ma chi ‘perde’ o ‘vince’ alla fine non può che essere l’università italiana nel suo insieme” (Viesti).

    E’ proprio così ed è quello che sta accadendo e che è già accaduto a partire dal 2007. Si reitera la solita accusa verso chi protesta: “siete una minoranza”, “è inutile protestare per perdere”.
    Certo, certo siamo una minoranza: ma quando mai le proteste sono partite dalle “maggioranze”?

    Ormai, quella universitaria si sta sempre più trasformando in una maggioranza silenziosa e meschinamente silente

  4. Confrontare le università del Sud e quelle del Nord con criteri identici senza considerare il contesto socio-economico è una assurdità. E come confrontare il numero di scudetti vinti da squadre del Nord rispetto al Sud.

    • Vallo a spiegare agli studenti del Sud, che si illuderebbero di trovare nelle loro università la stessa qualità che devono strapagare spostandosi al Nord.

  5. Non si può sperare niente di buono da un’Università che è in mano a burocrati, quando non a consorterie e gruppi di potere, interessati a tutto tranne che al rispetto del lavoro e alla qualità della ricerca e dell’insegnamento.

  6. @Giuseppe De Nicolao:

    Se ho bene capito….

    Quindi, le ridotte possibilità per il precario di entrare sono dovute alle ridotte produzioni scientifiche di chi, da dentro, non ha prodotto come avrebbe dovuto?
    Cioè, alla fine il destinatario della sanzione è il precario che ha meno possibilità di essere assunto a prescindere da suo curriculum (estraneo alla VQR in quanto non strutturato)?
    Cioè, il precario (che magari ha tanti titoli) paga per colpe altrui?

    Ho capito bene?

    • i destinatari delle sanzioni (tagli a tutto il sistema e riduzioni turn-over) sono i precari di tutta Italia, ma quelli del sud hanno il privilegio di essere sanzionati di più.

  7. […] Articolo su http://www.roars.it (Return on Academic ReSearch) di Gianfranco Viesti La debolezza del sistema universitario italiano nel reagire a sette anni di fortissima compressione è anche frutto di politiche di “divide et impera”, attuate attraverso indicatori che hanno ripartito in misura discrezionale e molto selettiva i tagli. Chi è relativamente “protetto” dai tagli tende, comprensibilmente, a protestare meno. Un ulteriore esempio di queste scelte è il D.M. che determinerà l’assunzione di 861 nuovi ricercatori RTDb, una misura insufficiente a bilanciare la riduzione di 7.809 unità fra il 2008 e il 2015. L’allocazione prevista dal D.M. sottintende e mira ad una configurazione sempre più differenziata, presupponendo che all’Italia serva più un ristretto numero di università “forti” che un sistema “forte” nel suo insieme, trascurando gli effetti di sperequazione territoriale (Nord vs. Centro-Sud), con possibili, importanti effetti di lungo termine sul benessere dei diversi territori, e quindi del paese nel suo insieme. Qualcuno potrebbe derubricare la cosa alla protesta di chi “perde”. Ma il punto è che non si tratta di un tema “locale”: ma chi “perde” o “vince” alla fine non può che essere l’università italiana nel suo insieme Continua a leggere […]

  8. […] Articolo su http://www.roars.it (Return on Academic ReSearch) di Gianfranco Viesti La debolezza del sistema universitario italiano nel reagire a sette anni di fortissima compressione è anche frutto di politiche di “divide et impera”, attuate attraverso indicatori che hanno ripartito in misura discrezionale e molto selettiva i tagli. Chi è relativamente “protetto” dai tagli tende, comprensibilmente, a protestare meno. Un ulteriore esempio di queste scelte è il D.M. che determinerà l’assunzione di 861 nuovi ricercatori RTDb, una misura insufficiente a bilanciare la riduzione di 7.809 unità fra il 2008 e il 2015. L’allocazione prevista dal D.M. sottintende e mira ad una configurazione sempre più differenziata, presupponendo che all’Italia serva più un ristretto numero di università “forti” che un sistema “forte” nel suo insieme, trascurando gli effetti di sperequazione territoriale (Nord vs. Centro-Sud), con possibili, importanti effetti di lungo termine sul benessere dei diversi territori, e quindi del paese nel suo insieme. Qualcuno potrebbe derubricare la cosa alla protesta di chi “perde”. Ma il punto è che non si tratta di un tema “locale”: ma chi “perde” o “vince” alla fine non può che essere l’università italiana nel suo insieme Continua a leggere […]

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