L’inchiesta della Procura di Firenze, che vede indagati per corruzione alcune decine di docenti (un intero settore disciplinare!) riporta alla ribalta della cronaca una delle peggiori patologie del nostro sistema universitario: modalità di reclutamento che al di là delle regole in alcuni casi continuano a essere permeabili a logiche spartitorie spesso molto lontane dal merito dei candidati. O addirittura capaci di allontanare i migliori spesso fino a espellerli dall’accademia. Una vergogna italica, è vero. Tuttavia, bisogna prestare attenzione a non trasformare un fatto grave su cui aspettiamo l’esito dell’inchiesta nell’ennesimo pretesto per costruire un processo mediatico all’università italiana, nel goffo tentativo di rilegittimare la legge 240 del 2010, la “riforma” Gelmini, che ha devastato le nostre università.

La riforma Gelmini infatti ha costruito una governance universitaria centralistica che in nulla ha migliorato il nostro sistema, al pari di una gestione del reclutamento confusa e facilmente permeabile al controllo da parte di pochi influenti, esattamente il contrario di quello che diceva di voler fare. Essa ha innanzitutto creato il doppio livello tra abilitazione scientifica nazionale e concorsi/chiamate locali. Ha limitato ai soli professori ordinari la partecipazione alle commissioni di concorso. Quindi le abilitazioni, originariamente proposte solo per verificare la qualificazione scientifica degli studiosi reclutati a tempo determinato (cosiddetto Tipo B) dagli atenei, sono state erroneamente applicate anche per i docenti già strutturati.

Si tratta di un coacervo di norme che lungi dal combattere “le lobby baronali” hanno solo avuto l’effetto di rendere più difficili le già scarse assunzioni nell’università. È anche vero che il rischio di fenomeni come quelli oggetto dell’inchiesta non riguarda allo stesso modo tutti i settori disciplinari, colpendo forse maggiormente quelli vicini ad alcune “professioni” che hanno un forte e ben remunerato mercato esterno. Proprio in questo le modifiche della legge alla già debole disciplina del “tempo pieno” liberalizzando il lavoro esterno e le consulenze hanno avuto l’effetto opposto.

Inoltre al meccanismo farraginoso del reclutamento post Gelmini, si sono affiancate le diverse procedure di chiamata diretta o di concorsi riservati, di rientro dei cervelli, di chiamata per chiara fama. La responsabilità di chi valuta e seleziona, e la trasparenza delle procedure, sono infatti fondamentali per il corretto funzionamento dell’università. La legge Gelmini, al contrario, non ha risposto a queste necessità. Da un lato, si è inseguito il mito tecnocratico di poter misurare il “merito” attraverso parametri e indicatori insensati, siano essi citazionali, oppure basati su ranking di riviste scientifiche.

Con l’obiettivo illusorio e pericoloso di garantire un’Abilitazione Scientifica Nazionale neutra e oggettiva: che rischia di tradursi esattamente nell’opposto della responsabilità piena e trasparente dei professori universitari nella scelta dei loro pari. Agente di questa operazione l’Anvur, agenzia il cui direttivo è di nomina ministeriale, quindi né terza, né indipendente. Dall’altro lato, non si sono effettivamente costruite quelle condizioni di contesto e quegli incentivi che rendono più difficili le pressioni indebite su commissari e candidati prima e intorno la procedura abilitativa (come è avvenuto nello specifico caso di diritto tributario). Se chi è chiamato a valutare non è in prima persona responsabile, innanzitutto professionalmente, per le scelte fatte, comportamenti illeciti saranno sempre possibili.

Senza un’etica diffusa, e strumenti che facciano rispondere in pieno i valutatori delle loro scelte, qualsiasi procedura è permeabile. Ma le procedure previste dalla legge Gelmini sono facilmente aggirabili e manipolabili come può accadere anche nell’uso d’indici di produttività quantitativi apparentemente neutri. Indici che potrebbero dimostrarsi tutt’altro che imparziali: basti pensare che gruppi di ricerca numerosi possono accrescere il proprio impatto citazionale, oppure – nei settori non bibliometrici – il ruolo decisivo che hanno assunto le riviste di fascia A (e i relativi comitati scientifici). Si sbaglierebbe quindi a interpretare quanto accaduto in questi giorni come il risultato dell’insufficiente automaticità o misurabilità delle procedure di valutazione e selezione.

In questo quadro, risulta paradossale che si invochi un’ulteriore agenzia esterna, l’Anac guidata dal magistrato Cantone, per introdurre nuove procedure ancora una volta astratte dalle prassi internazionali e talvolta astruse, come quelle proposte nel recente Piano Nazionale Anticorruzione. L’idea di avere membri esterni nelle commissioni ricorda il fallimentare tentativo di inserire studiosi esteri della prima Asn, dando per scontato che, anche nei settori più vicini alle professioni, questi “esterni” siano più indipendenti e immuni a pressioni illegittime. Queste soluzioni non solo non intervengono sui rischi di manipolazione dei concorsi, ma rendono ancor più opachi e confusi i processi di reclutamento.

Lo stesso richiamo della ministra Fedeli all’autorità anticorruzione, per l’elaborazione di una “normativa vincolante per rendere più trasparenti i concorsi” sembra più improntato a una logica emergenziale nei confronti dello scandalo del giorno, e a una sorta di ripiego mediatico, che a una concreta riflessione sulle deformazioni dell’accademia e i danni provocati dalla legge Gelmini sul reclutamento negli atenei.

Inoltre, molto gravi appaiono le illazioni che accostano questo fatto di cronaca ai docenti che in queste settimane scioperano per il riconoscimento dei propri scatti stipendiali. Come Flc Cgil, che si sono più volte espressi sul senso politico di questa iniziativa, sollecitando una riflessione e un allargamento della protesta.

Esprimo quindi subito solidarietà a chi, mentre sta lottando per il riconoscimento dei propri diritti, viene accostato strumentalmente a uno specifico fatto di cronaca, con l’evidente intento di delegittimare un’intera categoria e le iniziative rivendicative che parte di essa ha messo in atto. Allo stesso modo, appare del tutto improprio che si rappresenti l’Università come un luogo in cui “solo poche nicchie” si salvano da un generalizzato malcostume. O che gli attuali studiosi, tanto precari quanto già strutturati, vengano descritti come necessariamente affiliati a consorterie che disegnano canali di accesso preferenziali. Semmai, sarebbe necessario mettere chiaramente in discussione la contraddizione tra un sistema che opera in via formale per mezzo di concorsi pubblici comparativi, ma che deve pure garantire che tradizioni o gruppi di studio e di ricerca possano selezionare quegli studiosi che ritengono migliori perché più vicini ai propri metodi e obiettivi di ricerca. Questa tensione, mai risolta nel nostro sistema universitario, continua a condizionare dall’interno il reclutamento nei nostri atenei.

La generale delegittimazione dell’Università, inoltre, contribuisce ad allontanare sempre più gli studenti e a renderli ancora più scettici sulla necessità di formarsi a quei livelli. Già in questi anni, per ragioni economiche, per la disillusione che ha colpito le nuove generazioni per un mercato del lavoro che le respinge, per il depotenziamento degli atenei, soprattutto al Sud, si è immatricolato in media meno della metà dei giovani maturati. Se ora si costruisce mediaticamente l’immagine che l’intero sistema universitario è marcio e corrotto, si annientano i sogni di quei giovani, se ne annichiliscono le speranze, si uccide il senso per il quale essi si formano. Davvero si vuole questo? Rendere l’università il luogo dei pochi privilegiati?

È necessario evitare che la tensione mediatica spinga i decisori politici a costruire nuove normative e regolamenti senza intervenire sulle condizioni di contesto. L’università italiana ha già infatti mille emergenze e altrettanti problemi: dalla persistente insufficienza del diritto allo studio, garantito costituzionalmente, agli scarsi finanziamenti della ricerca di base; da un precariato diffuso ad una burocrazia pervasiva e soffocante; dalla crescente disuguaglianza tra le sedi alla necessità del rinnovo dei contratti del personale. Conviene allora a tutti non chiamare in causa i “vigilantes” dell’anticorruzione per le regole concorsuali, ma riaprire un confronto approfondito e generale sullo stato dell’Università, coinvolgendo anche le rappresentanze sindacali e studentesche. Conviene a tutti ripensare quel pessimo meccanismo di reclutamento escogitato dalla Gelmini, “apparentemente oggettivo” ma in realtà arbitrario, rivedendo completamente la sua formulazione, dall’egemonia dell’Anvur ai criteri di partecipazione e selezione sino alla formazione delle commissioni, solo per citare alcuni punti nevralgici.

Sarebbe pertanto più opportuno che i riflettori mediatici si focalizzassero oggi sui veri bisogni degli atenei, dal cronico sottofinanziamento alla necessità di reclutare un numero adeguato di docenti di tutte le fasce. Riformando o cancellando la legge Gelmini ed elaborando, con la collaborazione dell’intero mondo accademico e della ricerca, nuovi criteri di selezione, scientificamente rigorosi e condivisi dall’intera comunità. Altrimenti, non se ne esce: altri casi di cronaca avveleneranno i pozzi, e daranno altri alibi al governo e ai decisori politici, per continuare a destabilizzare e privatizzare il sistema universitario nazionale.

 

(Pubblicato su Huffingtonpost)

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10 Commenti

  1. L’errore secondo me è continuare ad affermare che la presenza di gruppi o scuole sia normale. A mio avviso non dovremmo essere noi strutturati a scegliere altri possibili prossimi strutturati ma si dovrebbe creare una sorta di ufficio di reclutamento. Quando si apre una posizione si definiscono a grandi linee i parametri di base per l’accesso tramite concorso nazionale (un profilo che preveda possesso di dottorato, numero di pubblicazioni, anni di docenza, progetti di ricerca, assegni etc.)ovviamente nelle materie per cui si è aperta la posizione ma abolendo gli ssd – ad esempio un grande male e’ avere micragnosi ssd dei quali fanno parte poche decine di soggetti che si conoscono tutti per cui se uno è corrotto lo sono tutti, vedi lo scandalo di firenze – per ritornare a più ampie aree disciplinari coerenti; il concorso prevederà una prova scritta e orale e ne emergerà una graduatoria secondo punteggio, del quale il primo otterra il posto mentre la graduatoria restera valida per tot anni per eventuale altre posizioni. Le commissioni dovrebbero essere miste, interni ed esterni.

    • Due prove scritte erano possibili per l’accesso ai ruoli di ricercatori + una prova orale, due prove orali per l’associato che, fra l’altro, costruiva una lezione (questa prova la farei fare a chi non l’ha fatto per il posto di associato in seguito per l’ordinariato), mentre per la fascia più alta lascerei la valutazione dei titoli.
      La macro-area che già c’è ha permesso che a giudicare venissero chiamate persone che, ovviamente, non potevano avere conoscenze e capacità di discriminare in settori così diversi e, perciò anche, non si sono potuti opporre a tattiche di altro tipo (se mai è possibile in questo mondo chiuso senza pagare penale)

    • Ma per favore, le prove scritte e orali sono state eliminate proprio perchè rendevano soggettivi i giudizi. Bisogna utilizzare pochi dati oggettivi. Per valutare obiettivamente non basta tuttavia solo guardarsi i titoli, ma anche accettando ad esempio le lettere di raccomandazione come nei paesi anglosassoni, in modo tale che uno studioso ci metta sul serio la faccia quando ha intenzione di sostenete un candidato. Inoltre, per evitare cordate precostituite bisogna imporre il sorteggio anche in sede locale delle commissioni di concorso. E chi commette illegalità deve essere segnalato anche in sede penale (semmai dalla stessa autorità anticorruzione)e non solo amministrativa.

    • A mio avviso le prove scritte e orale hanno invece un calore per testare la preparazione. Francamente di studiosi esperti dolo dell’ermellino della savana senza una conoscenza più ampia non se ne fa niente soprattutto in sede didattica che dovrebbe essere la priorità. Non sono stato d’accordo nemmeno quando è stato eliminato dai dottorati. Ti ritrovi con gente, in parole spicciole, che non sa far di conto o scrivere…

  2. Continuo a pensare che i problemi dovrebbero essere affrontati, sì, dall’alto verso il basso, ma anche nella direzione contraria. Cosa fa uno studioso-docente a metà della sua carriera, all’incirca, o anche oltre la metà, dalla mattina alla sera? Per non parlare dei precari, anche loro non giovanissimi? Ma perché queste storie di vita non vengono fuori? Io (che sono in pensione ma che continuo ad avere contatti con i colleghi) li vedo stremati fin dall’inizio dell’AAccademico. Corsi annuali compressi in un semestre; certe volte, coll’obbligo delle 120 ore di didattica, anche due corsi annuali compressi in un semestre. Ricercatori TI con carichi didattici da associati, anche perché gli altri ricercatori hanno didattica frontale per contratto. E poi la valanga degli esami, scritti o orali, svolti il più delle volte nella più completa irregolarità formale, perché con tali carichi didattici i co-commissari non possono essere compresenti, perché non hanno il dono dell’ubiquità, né il tempo o l’energia per esserlo/averlo. Vice versa commissioni di ‘lauree’ triennali sovrabbondanti, quando basterebbero tre persone. Tutto sta scritto in montagne di regolamenti, rifatti annualmente, tutto deve essere registrato online, se funziona. Poi le riunioni, dove regna la ‘democrazia’ di facciata. Tirando le somme, sia docenti, sia i TA, lavorano ciascuno quanto due persone, in un caos burocratico crescente, dove si cerca soltanto di non affondare. Così si è arrivati a risparmiare, a livello del MIUR, distribuendo poi le elemosine della premialità anziché dare gli scatti stipendiali e badare all’equa distribuzione del lavoro. Nel secondo semestre, o nel primo se la didattica sta nel secondo, si fa ricerca. Ogni tanto anche qualche convegno, ma il tempo per recuperare le ore perse non c’è, oppure ci si arrampica sugli specchi (dove trovo l’aula?, ad es.) per la assoluta mancanza di elasticità dell’organizzazione complessiva. La quale affligge anche gli studenti, che corrono da un posto all’altro e non hanno quiete per studiare giorno dopo giorno. Soltanto stati di compressioni e di decompressioni di impegni a distanza di 2-3 mesi.
    Se si risparmiasse sull’Anvur coi suoi prodotti derivati (visti i risultati), oppure sulla Crui (vista la completa inutilità), ci sarebbero soldini per assumere personale oppure per investire in ristrutturazioni, ammodernamenti in maniera sistematica e non come capita. Comunque, sempre visto dal basso, i quadri di responsabilità intermedi hanno per lo più fatto il gioco del MIUR, sin dagli inizi delle ripetute riforme, appellandosi o sottostando con zelo alle leggi, ai regolamenti, e stravolgendo nonché permettendo di stravolgere anche quello che poteva essere gestito in loco con intelligenza, tipo la conformazione dei piani di studio degli studenti, dando senso fattibile e realistico al concetto di credito (la cui storia internazionale è assai interessante ma la cui storia italiana è grottesca).

  3. Penso che sia impossibile per Francesco Sinopoli capire i problemi dell’università. Probabilmente l’ha frequentata, non so se ha fatto il dottorato, certamente non i concorsi per ricercatore/associato/ordinario, non entra in aula, non scrive lavori scientifici, non li presenta ai convegni, non partecipa ai consigli di CdS e di dipartimento, nè alle riunioni “di fascia” per le programmazioni. Non ne sa niente, ecco perchè scrive queste cose.

  4. Non voglio che ci siano arresti preventivi o che vengano spaccate le vetrine dei negozi.
    Però, ammetto con dolore che si parla dei problemi dell’università solo se succedono simili episodi.
    Eppure in questi ultimi 5 anni i problemi erano noti, abbiamo avuto 2 ministre rettori, si è ignorato tutto; la politica poco illuminata ha pensato ad altro.
    Tempo fa, e’ uscita, a livello nazionale, una notizia di una vincitrice di un ERC che aveva detto alla Giannini una cosa come “non ci faccio nulla dei suoi complimenti perché per ottenere questi risultati ho dovuto lavorare all’estero e non in Italia e la ricerca verrà svolta all’estero” (mi pare di ricordare).
    Mi ricordo anche la pagliacciata “la primavera della ricerca”, che non è servita a nulla.

  5. Ma invece di inventarci chissà quali nuovi meccanismi di reclutamento perchè non prendiamo come riferimento i paesi esteri? Ci fanno così schifo? Oppure abbiamo paura che le cose cambino veramente? Non credo che siano perfetti e sicuramente ci sono anche in quel caso delle mele marce ma immagino che la selezione e i finanziamenti di gran lunga maggiore permettano anche di sbagliare qualche volta senza grandi ripercursioni.

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