escape_from_new_york_1920x1080“Meglio il lavoro oggi che la laurea domani”, “La laurea? inutile per lavorare”, “Troppa formazione può addirittura essere dannosa”, “Rivalutare il lavoro manuale”, “Se rinasco faccio l’artigiano”, “Saldatori ed elettricisti: ecco i posti anti-crisi”. “Meno studi più lavori”, “studiare per troppi anni non serve a nulla”. Negli ultimi anni assistiamo quasi quotidianamente a una potente pervasiva offensiva che non si può definire solo contro-culturale, quanto piuttosto anti-culturale. Portata avanti, in effetti, da persone di cultura medio-bassa, forse bassissima ma certamente con una visione economica e politica di certo refrattaria ad ogni confronto con la realtà e con la complicità e l’avallo dei maggiori organi d’informazione.

Il messaggio che passa all’opinione pubblica è che la formazione non serve ed è comunque un lusso che “non ci possiamo più permettere”. È sufficiente leggere le statistiche Eurostat per l’Unione Europea per comprendere la proiezione politica di questo messaggio. Come percentuale di laureati nel segmento di età 30-34 anni, nel 2004 l’Italia era quartultima (seguita da Slovacchia, Repubblica Ceca e Romania). Oggi, dopo un decennio, l’Italia occupa saldamente l’ultimo posto in Europa. Se consideriamo gli obiettivi per il 2020 di ogni nazione europea i risultati sono ancora più deprimenti: quello dell’Italia è mantenere l’ultima posizione e aggravare il distacco, dato che il suo obbiettivo (26-27% di laureati) è il più modesto di tutta l’Unione Europea.

Non c’è bisogno di essere dei fini economisti per comprendere che ci sono delle evidenti correlazioni fra il grado d’istruzione della popolazione di un paese e la sua capacità di sostenere uno sviluppo economico di qualità: certo si tratta di una condizione necessaria ma non sufficiente allo sviluppo.

Ma nei momenti in cui si hanno dei dubbi circa l’importanza della cultura diffusa in un paese bisogna ricordarsi sempre di una famosa massima di un ex-presidente dell’Università di Harvard, Derek Bok: “Se pensi che l’istruzione sia costosa, prova l’ignoranza”. Grazie alle politiche dissennate dei vari governi che si sono susseguiti negli ultimi dieci anni, compreso l’attuale che ha appena approvato un taglio all’università di 15 milioni di euro (nella prima bozza si era prospettato un taglio di 30 milioni), possiamo facilmente trovare una risposta alla  domanda: senza cultura e senza formazione, dove si va a finire? Bisogna banalmente riscoprire che in un paese in cui il ceto dominante consciamente desidera che i figli degli altri non studino, si va a finire piuttosto male.

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15 Commenti

  1. Studiare non serve? Giusto!

    Prendiamo un precario della ricerca, mettiamo che si stufi dell’univ. e che voglia andare a lavorare nella Pubblica Amministrazione (ad. es. un Ministero, un ente locale ecc……)

    Quanto conta il suo curriculum vitae et studiorum, composto, diciamo, da 3 libri, 20 articoli su rivista, 10 contratti di insegnamento, partecipazione a congressi come speaker, ecc…………………?

    Risposta: ZERO!!!!!!!!!!! in quanto bisogna fare, nel concorso della PA, diverse prove scritte e orali e magari uno non passa, e tutta l’esperienza acquisita e le conoscenze, il dimostrare di essersi impegnato tantissimo (es. 3 libri e 20 articoli) contano ZERO!

    IN questo senso, studiare non serve,

    C’è qualcuno che ha il CORAGGIO di contraddirmi?

    • Quanto conta l’esperienza di un saldatore per fare il meccanico di automobili?
      Ho gia’ letto questo commento e non lo capisco. Perche’ un bravo ricercatore dovrebbe essere anche un bravo amministrativo?
      Posso capire se il concorso in questione e’ nella scuola…
      In ogni caso se uno e’ cosi’ bravo fara’ bene le prove.

  2. @Plymouthian:

    se il ricercatore è uno strutturato, ha ragione Lei,

    se il ricercatore è un precario e non ci sono possibilità di rinnovi o di essere strutturato (siamo milioni ad essere precari senza speranza) per le mille ragioni che sappiamo (soldi, baronaggio), bisogna cambiare lavoro (volendo anche nel settore della PA, ove però il curriculum non conta.

    sono stato convincente?

  3. @Plymouthian:

    ancora una cosa da chiarire, ma la domanda è rivolta a tutti i lettori:

    che senso ha l’obbligo (mi pare ci sia) per i dirigenti o per i dipendenti pubblici di pubblicare il CV nel sito della pubblica amministrazione di afferenza se non sono entrati grazie al CV ma al concorso (che prevedeva prove scritte e orali e non l’esame del CV?)

    grazie

  4. Plymouthian:

    innanzitutto La ringrazio, perché contribuisce al dibattito sui concorsi della PA, che a me sta molto a cuore e del quale non si parla mai.

    Il curriculum del ricercatore precario è soltanto un esempio.

    Un altro esempio è: una persona si laurea in economia in Italia, va in UK, lavora per 10 anni presso Goldman Sachs (importantissima banca d’affari) a Londra, ha un curriculum enorme, torna in Italia e all’età di 40 decide che vuole lavorare al Ministero dell’economia.
    Perché, in tale caso, dovrebbe fare diverse prove scritte ed orali, se ha il curriculum più grande dei membri della Commissione?

    Nei Paesi civilizzati, il concorso pubblico avviene tramite intervista su curriculum, perché lo Stato ci guadagna ad avere i migliori.

    I migliori non si prendono con le prove scritte ed orali, ma con il colloquio ed il curriculum.

    in Usa e in UK non esistono prove scritte ed orali, stile concorso italiano (dove ti fanno anche ricorso al tar ed al consiglio di stato ).

    in USA e in UK, per la PA assumono a colloquio e curriculum stile azienda e non si assiste mai a polemiche sul funzionamento della PA (come qui in Italia).

    in conclusione: soltanto accedendo alla PA con curriculum e colloquio (cosa impossibile in Italia), si potrebbe dire “studiare serve!”, perché tutto il percorso di studi (laurea, master, dottorato, assegni di ric., eventuali pubblicazioni ecc..) non andrebbe sprecato.

    ultimissima cosa:

    una volta in banca si entrava per concorso, poi lo hanno abolito e ora si entra con colloquio: non mi sembra che il personale sia peggiore di un tempo perché gli attuali lavoratori non hanno svolto il tema scritto.

    • Prima di tutto, studiare serve anche a fare un buon scritto, quindi non vedo come eliminarlo possa “aiutare” chi ha studiato.
      E poi fare un esame scritto e’ un modo come un altro per valutare il candidato.
      Soprattutto quando i posti sono centinaia e i candidati decine di migliaia.
      Anche i ricercatori universitari prima facevano uno scritto per entrare ed ora non lo fanno piu’.
      Il problema secondo me non e’ quali prove fai fare, ma come e da chi.
      Nel mondo anglosassone valgono le lettere di raccomandazione (quelle serie) e si valuta la motivazione del candidato, cose che in Italia si declinano in modo molto diverso.
      Gli anglosassoni hanno una mobilita’ della societa’ molto superiore e soprattutto possono licenziare gli impiegati improduttivi.
      I centri dell’impiego sono piu’ funzionali e permettono un primo screening dei candidati.
      Avendo esperienza diretta dei due mondi, posso solo dire che sono profondamente diversi, un confronto serio e’ difficile.

  5. D’accordo al 100%. Purtroppo, batti e ribatti anche molte persone “colte” stanno abboccando. Molti universitari cominciano a credere davvero che la ricerca di base non serve a niente. Il presidente del Consiglio ignora le università e va a visitare l’IIT. E basti pensare alla furia distruttiva nei confronti del liceo classico: ma se le iscrizioni a questo liceo sono in calo, ma che diamine ve ne importa di bastonarlo a più non posso?…

  6. È vero: c’è una campagna, mediaticamente forte e sistematica, volta a convincere gli studenti e le loro famiglie che studiare non serve, e men che meno studiare all’università. Ma occorre anche dire che lo stesso sistema universitario ce la mette tutta per accreditare questa idea. Quando parlo di sistema universitario, non mi riferisco alle università ma alla governance complessiva del sistema: Ministero, CUN, CRUI, ANVUR. Se guardiamo i documenti fondamentali di indirizzo politico prodotti nell’ultimo decennio (tanto per rimanere nel periodo citato da Sylos Labini), vi possiamo facilmente rinvenire l’affermazione che l’università o serve al mondo del lavoro e della produzione o non serve. I programmi triennali di sviluppo firmati dagli ultimi tre ministri vietano l’istituzione di nuovi corsi con la motivazione che non assicurerebbero sbocchi occupazionali. Accanto all’ormai classico Scienze della comunicazione (vittima più della gelosia del sistema dei media che di problemi occupazionali maggiori di altri titoli), si citano i corsi dams, agraria e veterinaria. In altre parole, proprio i settori nei quali l’Italia eccelle nei mercati, gli ultimi due addirittura strettamente connessi all’Expo 2015. Ma non basta: nel sistema di AQ dei corsi di studio, una parte preponderante è riservata alle relazioni con il mondo della produzione e delle professioni, dai quali dovrebbe venire per intero la sola domanda di formazione ritenuta legittima. Nelle Linee guida per l’accreditamento di nuovi corsi di studio è previsto che le commissioni di valutazione debbano rispondere a diverse questioni su questo punto. Per citarne una: “Le organizzazioni consultate sono state interpellate in merito ai risultati di apprendimento attesi specifici e a quelli generici? In che misura si è tenuto conto del loro parere?”. Ora, non vi è dubbio che studiare debba servire anche a collocarsi nel mondo del lavoro, ma non mi riesce di pensare che i giovani laureati coreani (oltre il 60% laureati) siano tutti occupati in attività professionali corrispondenti al tipo di laurea conseguita: non sarebbe un successo, ma una tragedia da società pianificata dalla culla alla tomba.
    Qui sta, a mio avviso, l’equivoco: è lo stesso sistema universitario italiano che fa credere che l’università debba essere una sorta di centro di formazione professionale orientato al breve termine. Siamo molto lontani dall’idea che l’università sia un luogo di studio e di elaborazione critica: o si esce manutentori laureati o meglio non entrarci. Con questi indirizzi politici che delegittimano l’autonomia universitaria e con i luoghi comuni sulla ricerca scientifica italiana che non produrrebbe, non possiamo stupirci dell’ultimo posto brillantemente conquistato in Europa per quanto riguarda la percentuale di giovani laureati.

  7. Credo che questa storia dell’Università finalizzata all’impresa ci ammazzerà. Si è tradotta in una marea di corsi-buffonata e nella visione di uno studente-prodotto da sottoporre a un processo formativo manco fosse una scatola di pelati.

  8. Rimane sempre il problema di come aumentare il numero dei laureati senza abbassarne ulteriormente il livello, che è già basso. Mi sembra un argomento di cui non si parla mai. Le percentuali da sole non hanno molto senso. Vedo studenti con la media del ventidue alla triennale premiati con punti extra perché fanno in fretta. Che cittadini saranno? Quali competenze effettive hanno acquisito? Qual è il valore della loro preparazione?

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