È forse venuto il momento di iniziare a redigere un primo bilancio di come
sia cambiata la governance dell’università dopo la riforma Gelmini, specie per quanto concerne l’organo che in essa è diventato il principale centro di governo, ovvero il Consiglio di Amministrazione, che ha di fatto spodestato il Senato Accademico, in passato simbolo del potere “baronale”. Come è noto la L. 240/2010 lasciava in merito alle università ampi spazi di deliberazione in quanto fissava solo dei vincoli che potevano essere interpretati variamente.
Infatti, secondo la legge il CdA è composto da un massimo di 11 membri tra cui il rettore, una rappresentanza degli studenti e da altri componenti (in sostanza otto) scelti “tra personalità italiane o straniere in possesso di comprovata competenza in campo gestionale ovvero di un’esperienza professionale di alto livello, con una necessaria attenzione alla qualificazione scientifica culturale” (art. 2, c. 1, punto i); tra questi almeno tre (in caso di CdA di 11 membri) non devono più appartenere ai ruoli dell’ateneo da almeno tre anni. Questa norma tuttavia può dar luogo a un CdA completamente formato da esterni al mondo accademico, in quanto afferma che almeno tre dei suoi membri non appartengano ai ruoli dell’ateneo da almeno tre anni: ciò significa che anche tutti i membri del CdA possono essere costituiti da personalità esterne tranne il rettore e la rappresentanza studentesca. Considerato che quest’ultima è costituita da due membri (in base a norme preesistenti e nel caso di un CdA di 11 membri), restano 8 membri. Ma può anche accadere – altro caso limite – che l’ateneo opti per una composizione tutta accademica con rettore, due studenti, 3 membri esterni scelti tra docenti di altra università (la norma prescrive che non appartengano ai ruoli dell’ateneo, non che non siano professori universitari), 5 docenti di ruolo nell’ateneo. E se costoro vengono scelti tra i docenti ordinari (nessuna limitazione viene espressa in tal senso dalla legge), si avrebbe una università diretta dai “baroni”. Si va pertanto da un’ipotesi “privatista” (formata da rettore, che può essere anche un ordinario di altro ateneo, due studenti e 8 membri esterni) a una “baronale” (tutti i componenti ordinari o ex docenti ordinari), con le possibili varianti intermedie.
Per quanto riguarda la tipologia dei componenti che fanno parte del CdA, già da ora è possibile avere un’idea di verso dove ci stiamo muovendo dando una scorsa al confronto tra gli Statuti sinora approvati e/o pubblicati sulla G.U. (vedi la Tabella 1), nella quale abbiamo censito 38 università (abbiamo escluso le private quelle telematiche e quelle aventi statuto speciale). Di esse 15 hanno un CdA fatto di 11 membri, 10 sono con CdA di 10 membri, 10 con CdA di 9 membri, Venezia IUAV ha solo 7 componenti e Pisa S. Anna 5. Nel caso di composizione 11 membri ci si è attenuti in generale alla formula del 5+3, ovvero cinque componenti appartenenti al corpo accademico e 3 esterni (oppure 2 , nel caso di un CdA con 10 o 9 membri). In generale i componenti facenti parte del corpo accademico sono docenti e a volte è prevista anche la presenza di qualche componente del personale tecnico-amministrativo (TA), e ciò avviene in 18 casi su 37. Altre volte non viene fatta distinzione tra docenti e TA, per cui si sceglie indifferentemente, a seconda della varie modalità. Infine, nella scelta dei docenti solo in pochi casi si rispetta una proporzione tra le fasce (ordinari, associati e ricercatori) (Bari, Parma, Piemonte Orientale) o una ripartizione in aree disciplinari, effettuando delle aggregazioni delle 14 aree del CUN (Foggia, Palermo, Parma, Pisa, Salerno).
Per quanto riguarda gli esterni sono in generale 3 o 2 (in base al numero dei componenti il CdA), con qualche eccezione, come ad es. Venezia Ca’ Foscari, che ne ha 4. Se non fosse per l’eccezione di Trento (e in parte anche per l’Insubria – v. art. di APeR Insubria), si direbbe che tutte le università hanno resistito alla tentazione di una immissione massiccia di componenti esterni al mondo universitario, lasciando saldamente il governo degli atenei in mano ai docenti espressi dal suo personale di ruolo. Tranne Trento, per la quale invece sembra che il pendolo si sposti tutto dalla parte di uno degli estremi prima indicati; suo il CdA più politicizzato (e provincializzato): dei suoi nove membri i 4 esterni sono scelti totalmente da organi diversi da quelli universitari, ovvero dalla Provincia e dal Ministero, previo parere di un Comitato i cui 3 membri sono individuati d’intesa tra Provincia e SA; e i tre interni sono scelti dal citato Comitato, ma con atto di nomina emanato dalla Provincia. È troppo presto per sapere come vengano nominati questi membri esterni e di cosa siano rappresentanti, se del potere politico, della realtà economica o di istituzioni e organismi statali. Ad esempio nell’università di Catania (tra le prime in Italia a formalizzare la nomina di tutti i membri del CdA) i tre esterni sono un ex prefetto e attuale commissario per l’edilizia penitenziaria, un docente di ingegneria ed ex rettore dell’università di Reggio Calabria e il direttore sanitario dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale di Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta.
In tutti gli statuti e per tutte le tipologie dei componenti viene recitata la formula della presentazione delle candidature con curriculum che comprovi esperienza ecc., tra i quali poi si sceglie o designa in vari modi. Si prevede anche spesso che delle commissioni, composte in modo vario, procedano alla verifica dei requisiti presentati da coloro che si candidano e quindi compilino delle liste dalle quali si sceglie con le modalità previste nei diversi statuti. In certi casi – per evitare l’inquinamento della politica – ci si cautela stabilendo nello statuto (è il caso dell’università del Salento) che “la carica di membro esterno del Consiglio di amministrazione è incompatibile con la contestuale titolarità di incarichi pubblici elettivi o di dirigenza di partiti o di organizzazione sindacale, o con cariche di rappresentanza di categorie, ovvero con la sussistenza di rapporti contrattuali di collaborazione e di consulenza con le suddette organizzazioni”. Tuttavia bisogna distinguere la fuffa dalla sostanza: tutta una serie di norme sono mera fuffa, ovvero paravento ideologico per nascondere o rendere meglio digeribili le scelte discrezionali effettuate da coloro che detengono nella sostanza il potere di scelta. Così il ritornello che si trova nella legge e che viene ripetuto in ogni statuto, per cui – scelgo a caso – “Tutti i componenti designati sono individuati tra personalità italiane o straniere in possesso di comprovata competenza in campo gestionale ovvero di un’esperienza professionale di alto livello con necessaria attenzione alla loro qualificazione scientifica e culturale” (Piemonte Orientale Avogadro), non toglie la sostanza che di fatto chi ha il potere della scelta può anche pilotare le opportune candidature (e di conseguenza anche la procedura dell’avviso pubblico, della presentazione delle candidature e così via, è mera fuffa) che abbiano i requisiti necessari affinché poi la scelta venga fatto garantendo gli equilibri di potere consolidati e che sono graditi a chi di fatto ha il controllo del governo delle università.
E qui infatti arriviamo alla sostanza della nuova mappa di potere che si è venuta a disegnare dopo l’approvazione della L. 240 che, oltre a spostare gli equilibri verso il CdA a scapito del Senato, ha poi permesso di stabilire una serie di norme che possono lasciare più o meno spazio a pratiche di scelta democratica e a procedure condivise. Di fronte alla dizione della legge che parla di “designazione o scelta” tra le candidature individuate “anche mediante avvisi pubblici” si sono avute diverse linee interpretative. In molti atenei la si è interpretata come una esplicita esclusione di un processo elettivo comunque concepito, per cui si è intesa la scelta come una prerogativa del rettore, o di organismi da questo controllati, in base alla necessità di assicurare una governance efficace grazie a una “squadra di governo” coerente con la sua linea politica, che evitasse i mali dell’assemblearismo democratico e la sua conseguente deresponsabilizzazione: il caso più estremo è quello dell’università di Enna Kore, in cui il Presidente – che predomina all’americana sul Rettore – nomina in pratica tutto il CdA, senza alcuna mediazione o precedente preselezione. Si è in sostanza equiparata la democrazia con la irresponsabilità e la paralisi operativa, confondendo così procedimento di scelta (che può essere quanto più democratico possibile) e responsabilità gestionale, che deve rispondere a criteri precisi di natura contabile ed essere sottoposta a valutazione, con conseguente assunzione di responsabilità da parte di chi ha esercitato il governo. E del resto questa confusione non meraviglia in un paese in cui nessuno è responsabile delle scelte che fa, né politicamente, né civilmente, né penalmente.
Altri statuti hanno invece addirittura inteso la scelta come procedura elettiva più o meno indebolita o mascherata, secondo varie modalità; oppure hanno concepito il processo di scelta dei componenti interni ed esterni in modo da sottrarli quanto più possibile alla discrezionalità del rettore, per evitare che questo si trasformasse in un dominus. La conseguenza di ciò è stata la strana circostanza che il MIUR ha dovuto fare delle obiezioni sia agli atenei che hanno imboccato la linea della centralizzazione nelle mani del rettore del potere di designazione (come a Catania, nel qual caso il Miur ha invocato la sospensiva dello Statuto al TAR, che l’ha respinta), sia a quelli che invece hanno stabilito una procedura elettiva (come il Politecnico di Torino, da cui paradossalmente proviene lo stesso Ministro – il TAR dovrebbe emettere il giudizio di merito il prossimo 17 giugno). In altri casi, come a Milano lo statuto è stato modificato a seguito delle osservazioni del Miur, per cui la modalità della designazione degli 8 componenti (4 interni e 4 esterni) – prima tutti designati dal SA a scrutinio segreto – avviene ora per 3 dei 4 esterni su proposta del Rettore. E ancora ci sono altri statuti (Messina, Firenze, ecc.) che sono stati contestati dal Miur per i più vari motivi e di cui ancora non sappiamo come andrà a finire.
È significativo il fatto che nel caso dello statuto di Roma La Sapienza (impossibile da trovare nel sito dell’università o in quello della Crui e il link della Cgil è stato rimosso – alla faccia della trasparenza!) sappiamo da un articolo su “Repubblica” (11 marzo 2012) che esso è stato bocciato dal Miur tra l’altro perché cercava di spostare sul SA alcune attribuzioni del CdA, per cui il Ministero ricorda che “spetta esclusivamente al consiglio di amministrazione la materia contabile così come quella dell’attivazione dei corsi di laurea e delle nuove sedi universitarie”. Inoltre viene bocciato perché esso sarebbe costituito da 14 consiglieri. Ma a quanto pare nulla viene detto sulle modalità di elezione del CdA, in cui la designazione dei 5 membri interni viene fatta dal SA e quella dei 3 esterni sempre dal SA fra una rosa di sei membri proposta dal Rettore. In sostanza viene colpito il tentativo di ricollocare tra le competenze del SA quella di formulare le strategie complessive che concernono l’indirizzo, la programmazione, il coordinamento e la verifica delle attività didattiche e di ricerca, che invece nella L. 240 sono attribuite al CdA (vedi in merito l’articolo di Roberto Capuzzo Dolcetta)
Dal quadro complessivo della nuova mappa del potere nelle università da noi censite (contenuta nella Tabella 2), una considerazione emerge chiara: nessuna fatalità o necessità imposta dalla L. 240 prescriveva una scelta univoca che facesse pendere il pendolo a favore del peso preponderante del rettore a preferenza di altri sistemi assai più democratici di designazione (quali quelli di Firenze, Genova, Milano Politecnico, Parma). Le modalità concrete con cui si sono concepite nei vari Statuti le procedure di designazione o scelta dei membri interni ed esterni è stato il frutto delle dinamiche interne a ciascun ateneo e della sensibilità democratica con cui i loro organismi hanno concepito il futuro assetto della governance. E senza dubbio vi sono molti esempi di bilanciamento di potere tra rettore, SA, corpo elettorale e altri organismi (che contraddistinguono la gran parte degli Statuti) che sembrano essere meglio in grado di assicurare la partecipazione alla vita dell’ateneo, la responsabilizzazione dei gruppi dirigenti e la loro autonomia dai poteri esterni.
(Updated 21-03-12 h. 7.54)
Riferimenti
Nel sito ARGO, in un articolo che affronta la questione dello statuto dell’università di Catania, è contenuto un altro quadro sinottico elaborato dal Coordinamento unico d’Ateneo di Catania, in cui si riassume la situazione nelle varie università sul modo in cui gli Statuti concepiscono le modalità di designazione dei membri del CdA (ma censisce meno atenei rispetto alla nostra tabella 2)
Il testo degli Statuti già pubblicati sulla GU è possibile ritrovarlo al seguente link: http://www.crui.it/HomePage.aspx?ref=2016#
Quadri sinottici sui principali organi di governo sempre nel sito della Crui (censisce solo le università il cui statuto è stato pubblicato sulla G.U.): http://www.crui.it/HomePage.aspx?ref=2020
Un’analisi assai lucida e ben documentata che mette in luce esiti a macchia di leopardo, dai tratti a volte inquietanti. Con riferimento all’Università di Trento, le cui vicende e la cui eccentricità nel panorama nazionale Coniglione cita riferendosi ad un articolo del giornale locale Adige, posso riferire l’autore e il lettore che voglia saperne di più ad un sito – “Diario di una delega” – nel quale un collega dell’università di Trento ha documentato meticolosamente quanto accaduto nella terra ove l’autonomia locale ha “abbracciato” l’autonomia universitaria: http://www.jus.unitn.it/users/pascuzzi/diario_di_una_delega/home.html
[…] Qui, invece, c’è un’interessante analisi sui nuovi cda dei vari Atenei italiani, così come predisposto dai nuovi Statuti. Questa voce è stata pubblicata in Comunicazioni. Contrassegna il permalink. ← Stop alle docenze ad 1 euro […]
Una soluzione ulteriormente “originale” è stata adottata all’Università dell’Insubria, il cui statuto – approvato in seconda lettura in attualmente in pubblicazione in GU – prevede la presenza di diritto in SA e CdA non solo del rettore bensì anche di una figura di prorettore “vicario” addetto alla sede comasca dell’Ateneo (istituito in Varese e con due Facoltà originariamente collocate in Como). Il MIUR trovò da eccepire in prima battuta argomentando che la legge non prevede la figura, ammette di diritto il solo rettore (e gli studenti in CdA) e in ogni caso per il SA richiede una “base elettiva”. Nonostante ciò la soluzione è stata confermata con l’assenso (si dice) del ministero medesimo.
Riguardo alle modalità di designazione degli altri componenti del CdA, 4 sono 1 PO, 1 PA, 1 RU e 1 PTA tutti scelti sulla base di candidature e proposti dal rettore al SA in numero “pari al doppio o comunque superiore al numero dei componenti da designare” (ne basta uno in più? davvero non si capisce, ma così si è approvato).
Infine, i deu esterni sono ricavati da “una lista costituita da almeno tre nominativi che siano espressione del territorio di ciascuna delle due sedi”, proposta al rettore dalla Consulta Ateneo-Territorio (ovvero dalla politica locale) e nominati “uno per ciascuna delle liste di sede, sono nominati con Decreto rettorale”, senza nemmeno un parere del SA.
Difficile fare peggio.
Qui lo statuto completo di Uninsubria:
http://code.google.com/p/aperinsubria/downloads/detail?name=120228%20-%20STATUTO%20rivisto%20finale.pdf&can=2&q=
Grazie per le informazioni. Ho provveduto ad aggiornare di conseguenza l’articolo.
[…] universitario, opera portata a termine nel 2010 da Maria Stunnel Gelmini. Il punto 3 è il vero capolavoro della legge Gelmini, anche se il merito andrebbe dato al suo principale ghostwriter: a detta di […]
[…] universitario, opera portata a termine nel 2010 da Maria Stunnel Gelmini. Il punto 3 è il vero capolavoro della legge Gelmini, anche se il merito andrebbe dato al suo principale ghostwriter: a detta di […]