Agli occhi di Emiliani, di cui oggi si ripubblica il celebre saggio, esiste la più stretta continuità tra politica e tutela: quest’ultima è presentata come “braccio secolare” dell’azione del partito di riferimento. L’attività degli storici dell’arte si staglia in modo grandioso e in parte romanzesco. Simili a etnografi (o meglio, dal punto di vista dell’autore, a partigiani abnegati e intrepidi, usciti dalle pagine di Hemingway, Vittorini o Fenoglio) questi sono chiamati a muoversi per la “Montagna” o i borghi abbandonati per portare in salvo tesori di devozione e “umanità” perdute.
E’ utile rileggere Una politica dei beni culturali di Andrea Emiliani, ripubblicato a distanza di quaranta anni dalla prima edizione Einaudi, per misurare la distanza che corre tra i due momenti storici. Quando Emiliani scrive il libro, nel 1974, le attese per la riorganizzazione dello Stato italiano in senso regionalistico sono all’apice. Si immagina, e Emiliani immagina, che la conoscenza “capillare” del patrimonio diffuso possa orientare le scelte della classe dirigente e che la storia dell’arte, intesa come storia sociale e antropologia culturale, possa condurre al rispetto delle diverse vocazioni territoriali. E’ un progetto non semplicemente antiquario, al contrario, riflette posizioni e attitudini maturate a contatto con l’arte e la critica d’arte contemporanee. Non a caso Una politica dei beni culturali si apre con il riconoscimento del debito di gratitudine di Emiliani per Giorgio Morandi e Francesco Arcangeli, l’uno e l’altro aperti alla migliore cultura internazionale ma profondamente legati alla “provincia” emiliana.
Agli occhi di Emiliani esiste la più stretta continuità tra politica e tutela: quest’ultima è presentata come “braccio secolare” dell’azione del partito di riferimento, il PCI. L’attività degli storici dell’arte si staglia in modo grandioso e in parte romanzesco. Simili a etnografi (o meglio, dal punto di vista dell’autore, a partigiani abnegati e intrepidi, usciti dalle pagine di Hemingway, Vittorini o Fenoglio) questi sono chiamati a muoversi per la “Montagna” o i borghi abbandonati per portare in salvo tesori di devozione e umanità perdute.
Le campagne di catalogazione di arredi o pale d’altare “minori” sembrano poter contribuire in modo immediato e diretto al riscatto civile della nazione. Niente è più lontano da Emiliani (o per meglio dire dalla sua autorappresentazione professionale) dello storico dell’arte estetizzante dedito al riconoscimento della mano del Maestro e al culto dei soli capolavori. Un’ideologia popolare (e gramscianamente nazionalpopolare), antiformalistica e antielitaria, sorregge l’intera trattazione assieme alla più viva pietà per le forme d’arte anonima e l’umile bottega.
Comprendiamo che all’origine di Una politica dei beni culturali stanno ferite storiche recenti: la cura del patrimonio materiale e immateriale è tanto più impellente, dal punto di vista dell’autore, quanto più estesa è stata la distruzione. La prima ferita è stata inferta dalla guerra: il passaggio del fronte dall’Appennino tosco-emiliano ha causato lutto e rovina (di culture e comunità). La seconda ferita dal dopoguerra e dal miraggio della prosperità. Con il boom e la “mutazione” le campagne si sono spopolate. I contadini hanno cercato impiego nelle fabbriche. Una millenaria opera di manutenzione del territorio è venuta meno assieme a una radicata tradizione culturale – conoscenze tecniche, miti, leggende e moralità.
Nella breve prefazione che apre il volume Emiliani prende congedo dal suo “libro dei sogni” e riflette oggi sul progetto di ieri. Velleità e astrattezze emergono in modo crudo a distanza di decenni, ma sarebbe ingiusto, oltreché scorretto sotto profili di metodo, contestarle retrospettivamente. Certo l’importanza politica della storia dell’arte appare affermata in modo enfatico e unilaterale, e il mondo contadino di cui ci si erge a difesa appare in non piccola parte il mito esotizzante e proiettivo dei ceti medi urbani entre deux guerres. Come pensare poi che una particolare disciplina, sia pure la storia dell’arte, possa trasformare le classi dirigenti o addirittura indirizzare lo sviluppo economico di un intero paese?
La rimozione del paesaggio non antropizzato appare essa stessa parte di una più generale (e implicita) finzione culturalistica e iperletteraria. Emiliani conosce solo “paesaggi storici”: il punto di vista del vivente non umano non gli è proprio. Eppure una maggiore familiarità con le scienze della vita avrebbe permesso di cogliere in modo più vitale e profondo la nostra appartenenza a ciò che non è semplicemente storico, e imposto una vigorosa correzione al basso continuo della nostalgia. Anche l’eccessiva fiducia nella diversità regionale italiana è un presupposto fuorviante. Episodi di speculazione, corruzione e negligenza sono (ed erano) diffusi in tutta la penisola, e un turbinoso amore per la propria “provincia” non può costituire (oggi come allora) rimedio contro malaffare e disaffezione. Nel proporci di decentrare la tutela avremmo forse dovuto (e dobbiamo) considerare con maggiore allarme il problema.
“L’Italia non vuole più essere l’Italia”, scriveva Goffredo Parise nel 1975 sul Corriere della Sera, replicando a un lettore indignato per la scarsa cura riservata già allora al patrimonio. “Gli italiani (parlo della grandissima maggioranza) non vogliono più essere italiani. Se ne fregano dei monumenti, dei musei, di San Pietro, della chiesa cattolica, dei Palazzi Pitti e Uffizi; ci mandano i loro figli con la scuola, ma se ne fregano e se ne fregheranno i lori figli quando sarà il momento”.
Semplice malumore o partito preso polemico? Non credo. Lo scrittore vicentino accenna piuttosto a una controstoria della tutela che le più edificanti ricostruzioni recenti, pronte a impugnare documenti preunitari o a retrodatare virtuosi sentimenti di “appartenenza”, hanno contribuito a tacitare. “Gli italiani non vogliono più essere italiani perché vogliono essere ancora meno che regionali (che tempismo regressivo le regioni!), vogliono essere ‘paesani’, ‘paisà’, perché l’unità d’Italia, che del resto non c’è mai stata, oggi c’è meno che mai”. Cito Parise per invitare alla noncuranza o all’inazione? Per niente. Piuttosto per ricordare che l’istanza della conservazione acquista tanta più forza quanto più riesce a dialogare con istanze (o “beni comuni”) di immediato interesse generale: la mobilità sociale, ad esempio, il lavoro qualificato, la legalità, la buona formazione, le politiche di sviluppo, l’innovazione tecnologica e cognitiva, l’immaginazione di futuro.
Emiliani lamenta che il dibattito sulla tutela si sia sempre tenuto, in Italia, su ristretti piani tecnico-giuridici. Credo che dobbiamo essergli grati per quest’osservazione, oggi non meno vera che in passato. Come studiosi del patrimonio e persone attivamente impegnate per la sua salvaguardia dovremmo evitare pose sacerdotali e futili moralismi. Non esiste un’unica storia della tutela, in Italia, coronata dall’articolo 9 della Costituzione: ne esistono molte e contrarie. Una proposta politica one issue, portata avanti in modo avulso e dogmatico, per di più in odio alla “società di massa”, non può che rivelarsi inadeguata.
@MicheleDantini
Una versione ridotta dell’articolo è apparsa sul Giornale dell’arte, 348, dicembre 2014, p. 26