Gentili professori Ichino e Terlizzese,
devo iniziare questo post lodando la grinta e lo sforzo di chiarezza con cui da quasi due anni difendete pubblicamente la vostra idea, perché anche chi (come me, per trasparenza) la considera quasi totalmente erronea ha avuto l’occasione di sollevare temi importanti. Da non economista né professore, cercherò di dare anche io un mio modesto contributo al dibattito. Non avendone le competenze ed essendo stati già sviscerati ampiamente, mi asterrò dall’esaminare i vostri calcoli sulla tassazione, focalizzandomi piuttosto su alcune perplessità a riguardo di quelle che credo siano assunzioni implicite ed errate nel vostro ragionare.
(1) UNIVERSITA’ PUBBLICA = ISTRUZIONE PUBBLICA
Nel parlare dell’università pubblica e dei suoi costi stupisce come gli autori la equiparino tout court alla “istruzione pubblica” (salvo poi passare velocemente ad accennare al progresso scientifico con frasi come “Solo così il progresso scientifico sarà maggiore e con esso la «torta» disponibile per la collettività.” (risposta a Palo Palazzi, articolo del 5gennaio)). Ora, qualsiasi studioso (o studente) che si occupa di università sa che generalmente le sue “missioni” sono la DIDATTICA (o istruzione), la RICERCA, la TERZA MISSIONE (che in senso lato può riguardare tutti i contributi dell’università al tessuto sociale, in senso stretto si riferisce generalmente al trasferimento tecnologico). Che le spese dell’università (ammesso e non concesso che si possano disaggregare) siano devolute essenzialmente a favore della ISTRUZIONE è tutto da dimostrare (che siano devolute unicamente all’istruzione è indimostrabile, credo- ma non dubito che il coraggio intellettuale di I&T potrebbero tentare questa difficile sfida). Un esempio di evidenza che la distribuzione delle risorse pubbliche non è pensata come unicamente o quasi devoluta alla didattica potrebbero darlo le seguenti riflessioni:
a) la quota premiale del FFO istituita dalla legge 180/2008 (poi 1/2009) e modificata dalla 240/2010 è calcolata al 66% in base ai risultati della RICERCA, circa il doppio rispetto ai risultati della DIDATTICA (34%);
b) negli atenei esistono ancora (seppure come categoria in esaurimento) circa 24-25mila ricercatori a tempo indeterminato (vai qui per dati 2011). Ora, pur considerando che i loro stipendi siano inferiori a quelli dei professori di I o di II fascia, e pur considerando che spesso partecipano alla didattica, a differenza dei ricercatori a tempo determinato NON hanno alcun obbligo di legge a fare lezioni. In altre parole, il loro stipendio (dai dati MIURpare che nel 2012 ammonti a circa 1 miliardo e cento miliani di euro annui, che mi pare sia circa il 15-20% del FFO – o, anche a voler prendere i 9 miliardi che citate voi, comunque più del 10%;
c) nel vostro computo dei trasferimenti statali alle unviersità rivendicate di non calcolare semplicemente il FFO ma anche gli altri trasferimenti. Come ben saprete, tra quei trasferimenti sono rilevanti quelli dei bandi PRIN e FIRB. Ma i bandi PRIN e FIRB sono un esempio paradigmatico di finanziamento finalizzato alla ricerca (che eventualmente genera esternalità sulla didattica e sulla terza missione).
Ometto di farvi notare che, nelle università statali, CHIUNQUE è benvenuto alle lezioni: anche I&T potrebbero benissimo frequentare dei corsi di economia politica in qualsiasi ateneo statale pur non pagando le tasse universitarie, tutt’al più non avrebbero diritto a sostenere esami di profitto. Ma mi rendo conto che quest’obiezione sarebbe spuntata dal sottoutilizzo che la cittadinanza purtroppo fa di questa interessante possibilità (che pure però esiste, in linea di principio).
Infine, non ho sottomano dati aggiornati delle entrate contributive totali, ma mi pare che siano tra 1,5 e 2 miliardi di euro; ed è plausibile pensare, se si vuole perseguire il vostro progetto di “contabilità analitica”, che quelle entrate vadano considerate come entrate vincolate alla voce “DIDATTICA”. Se non ci sono rilievi da fare sulle precedenti osservazioni, accettando il paradigma della “contabilità analitica” proposto da I&T mi pare che si debba ridimensionare notevolmente l’idea di uno Stato che finanzia massicciamente la didattica. Escludendo che sia stato fatto per ignoranza o per malafede, mi permetto pertanto di invitare gli autori a chiarirci le idee sul perché abbiano negletto RICERCA e TERZA MISSIONE.
(2) IL CALCOLO DELLE ESTERNALITA’
Sono francamente stupito e incuriosito da quanto affermano gli autori a proposito dell’assenza o quasi-irrilevanza delle esternalità positive dovute all’università pubblica (specie quando ci si ricordi che università non significa solo istruzione ma anche ricerca e terza missione). Leggerò il prima possibile il libro che promuovono per poter risalire a questa letteratura, ma intanto chiedo agli autori di aiutarmi allora a interpretare le informazioni contrastanti che si trovano nel 2° capitolo di un altro libro, scritto da economisti che studiano da anni l’università: L’università e il sistema economico (Geuna e Rossi, 2012). Alla tavola 2.1 si citano alcuni esempi di esternalità positive generate dal sistema universitario. Cito da una lista di “CANALI ATTRAVERSO CUI SI MANIFESTA IL CONTRIBUTO DEL SISTEMA UNVIERSITARIO:
Formazione di risorse umane qualificate;
Produzione e disseminazione di conoscenze gestionali, organizzative, strategiche, di marketing;
Creazione di nuove imprese spinoff della ricerca;
Sostegno alla formazione di reti di collaborazione università-impresa;
Produzione e diffusione di nuove informazioni scientifiche;
Produzione di nuovi strumenti e metodologie/tecniche;
Offerta di accesso ad attrezzature e strumenti rari;
Possibilità di collocare giovani ricercatori presso le imprese;
Diffusione della consapevolezza dell’importanza di impiegare risorse umane qualificate;
Possibilità di collocare giovani ricercatori presso le imprese;
Produzione di conoscenze teoriche e di evidenze empiriche sul funzionamento del sistema socioeconomico in generale e sull’impatto socioeconomico delle innovazioni in particolare;
Contributo a processi di rigenerazione urbana;
Contributo all’animazione delle attività culturali e sportive della comunità cui appartengono;
Formazione di reti di relazioni sociali tra studenti, ex studenti, docenti e collaboratori”.
Nelle conclusioni dello stesso capitolo, gli autori scrivono “I contributi che le università offrono all’economia sono molteplici, e la loro rilevanza sembra essere aumentata nel tempo, laddove la crescita della produttività nei sistemi economici avanzati dipende sempre più dalla produzione di innovazioni che hanno origine da conoscenze sviluppate in ambito accademico e dalla loro circolazione tra gli attori economici”. Pur considerando che ci si sta limitando a parlare soprattutto di aspetti economici (o che abbiano ricadute economiche indirette, es. “rigenerazione urbana”), gli autori debbono illuminarmi su come sia possibile che Geuna e Rossi citino tutti questi aspetti. Mi pare che possano o contestare l’esistenza e rilevanza degli aspetti sopra citati (contestando quindi Geuna e Rossi e la letteratura a cui si riferiscono) oppure sostenere che tutti gli aspetti sopracitati siano in maniera consistente riconducibili a benefici degli studenti universitari. Una terza contro-obiezione potrebbe forse essere che nessuno di questi aspetti sia precisamente quantificabile e dunque soggetto a una teorizzazione precisa da parte degli economisti; ma da questa conclusione ciò che trarrei è piuttosto un invito ad un’interpretazione cautelativa di quel che dicono gli economisti (o di quelli che sono citati da I&T), se i loro strumenti di misurazione non sono capaci di cogliere aspetti tanto importanti.
(3) L’UNVIERSITA’ PER LE ELITE’
I&T difendono con trasparenza e coraggio una visione “elitista” dell’istruzione superiore, ritenendo che la priorità di innalzare i fondi (con l’obiettivo, mi pare che inferiscano, la qualità) agli atenei sia superiore a quella di estendere il numero di laureati al punto di poter sacrificare “in estensione” per poter guadagnare “in qualità” (mi si corregga che semplifico troppo, lungi da me trovare le mie analisi su qualche bancarella). I&T sembrerebbero con questo interpretare il dato allarmante di AlmaLaurea della diminuzione % di laureati occupati nella direzione di una necessità di restringimento dell’offerta; in parole più semplici, inutile sfornare troppi laureati che poi tanto dovranno andare nei call center. E’ un’interpretazione legittima, ancorché- mi si conceda- un po’ deprimente.
Nel perseguire questa strada però (ossia: tradeoff di quantità per qualità, sempre ammettendo che possano essere in qualche modo inversamente proporzionali) ci si allontana dagli obiettivi di Europa 2020, che prevedono una percentuale di giovani laureati media del 40% in Europa (26% in Italia, a fronte del 20% circa odierno). I&T sono pronti a sostenere che sia una buona idea andare nella corrente opposta di quanto propone l’obiettivo europeo? Non c’è il rischio che il paese rimanga sprovvisto del c.d. “capitale umano” che, sebbene latente nei momenti di recessione, sarebbe condizione necessaria per traghettarlo nello sviluppo qualora l’economia lo permettesse?
Potrebbe sembrare un po’ retorico comparare il nostro paese al Regno Unito; eppure, si fa menzione esplicita al rapporto Browne nella prima versione pubblica di questa proposta (mi riferisco alla interrogazione parlamentare del 18 maggio 2011 avente come primo firmatario Pietro Ichino, che mi permetto di considerare una versione “antenata” o quantomeno “ispiratrice” della presente proposta). Ora, mi risulta che gli effetti dello sdoganamento delle rette in U.K. (che pure doveva prevedere una parte dei proventi destinate a borse; che pure auspicava che solo alcuni atenei lo portassero a 9000£, laddove invece è stato fatto da una maggioranza) siano stati oggetto di diverse proteste da parte degli accademici del Regno Unito. E mi risulta ci sia stato un notevole calo di immatricolazioni (10% circa). Mi si conceda di presumere che gli atenei in UK abbiano mediamente più appeal di quelli in Italia (vuoi per la maggiore quantità di finanziamenti pubblici, vuoi per il pregiudizio che “UK/US is better” comparato alla diffamazione sistematica operata a ragione o a torto sugli atenei italiani, vuoi banalmente perché parlare l’inglese è più facile/utile che parlare l’italiano).
Ora, se alcuni atenei aumentassero le tasse vertiginosamente come è avvenuto in UK, visto che “il mercato della HE” va anch’esso globalizzandosi (per cercare di esprimermi in un gergo che sia comprensibile e caro a I&T), a che pro uno studente italiano dovrebbe pagare 10000 euro per atenei con cattiva fama, pochi finanziamenti pubblici ecc. quando con meno di 1000 euro può frequentare atenei di ottimi qualità in Belgio? In altre parole, rendere l’istruzione di alto livello più costosa non rischia di contribuire alla fuga dei cervelli estendendola non solo ai ricercatori ma anche già agli studenti universitari?
IN CONCLUSIONE, e scusandomi della lunghezza, vorrei concedere ad I&T di concordare con loro su almeno un punto: quello di una maggiore progressività della contribuzione studentesca. Benché sia chiaro che non assolva al “main goal” degli autori (che è se non erro di rifinanziare il sistema di università statali mediante contributi dei privati), una rimodulazione delle contribuzioni (accompagnata ad una politica di diritto allo studio che tanto per iniziare applicasse i provvedimenti previsti dalla normativa vigente) potrebbe effettivamente incrementare l’equità del sistema, o se non altro massimizzare le possibilità di studiare ai meritevoli ma privi di mezzi. Senza contare che sarebbe decisamente più credibile come proposta da esporre ai partiti “di sinistra” (a meno che I&T non intendano per “sinistra” la coalizione di Monti e P.Ichino in quanto distinta dalla coalizione che fa capo a Silvio Berlusconi, ma parrebbe un uso bislacco della parola).
Per non limitarmi alle enunciazioni di principio, allego un esempio di struttura progressiva della contribuzione, quella recentemente implementata all’Università di Torino elaborata dalla lista di rappresentanza di cui faceva parte il sottoscritto.
Per chi non volesse dilungarsi nell’esaminare il contenuto del link, il succo della proposta è: contribuzione “personalizzata” calcolata in base all’ISEE/ISEU del singolo studente, con varie incidenze percentuali progressive a seconda delle fasce di reddito. Se I&T vorranno dedicare le loro future energie (anche) a sviluppare proposte di questo genere anziché riproporre unicamente la loro policy (che spero comunque che articolino tenendo conto delle mie obiezioni, in particolare 1 e 2) sarò lietissimo di dar loro una mano con successive elaborazioni.
Grazie a Marco Viola della lucida pagina.
Un particolare grazie per avermi fatto scorgere un paio di passaggi nella proposta Ichino & Terlizzese che non avevo colto (confesso che, in mancanza di un antiemetico, non sono riuscito a giungere in fondo alla lettura della loro proposta…).
L’autore del post sicuramente diventera’ docente universitario. Probabilmente di “filosofia dell’economia”.