La drammatica situazione economica del Paese, richiederà ogni caso, e con qualsiasi governo, tagli decisi alla spesa pubblica. In queste condizioni non ha senso cullarsi sugli slogan della intoccabilità dei fondi per l’università e la ricerca, come ha fatto
finora l’opposizione di sinistra. E’ il momento in cui anche la sinistra dovrà
chiedersi se sono possibili risparmi di spesa da parte del sistema
universitario, o, quanto meno, quali provvedimenti siano necessari perché gli
inevitabili tagli non danneggino il sistema universitario.
Purtroppo cominciamo male, perché la riforma Gelmini, che avrebbe avuto un costo tollerabile a finanziamenti costanti, costringerà invece le università a bloccare le assunzioni di giovani, in attesa della inevitabile promozione a professore di oltre 15.000 meritevoli ricercatori universitari. Questa gravissima conseguenza sul sistema universitario potrà, forse, essere alleviata stabilendo che le assunzioni di personale esterno al sistema (nella nuova forma di ricercatore a tempo determinato di “tipo b”, cioè suscettibile passaggio nei ruoli) avvengano, ogni anno e per ogni sede, in una proporzione fissa rispetto alle promozioni. Per adottate un simile provvedimento bisognerebbe allungare il periodo di validità delle abilitazioni a professore. Ma i costi della “riforma Gemini” risulterebbero spalmati su diversi anni.
Per procedere ulteriormente sulla strada di limitare i danni
dei tagli nei finanziamenti, dobbiamo innanzitutto chiarire alcune scelte di
fondo per il sistema universitario. Se vogliamo, come ci chiede l’Europa,
aumentare la percentuale dei giovani che conseguono un diploma universitario
passando dall’attuale 30% di una coorte giovanile ad un auspicabile 40%, i
tagli dovranno avere effetti sull’offerta didattica delle lauree magistrali, ma
non sulle lauree di primo livello. Questa politica non potrà essere
coerentemente conseguita senza una attenuazione del valore legale delle lauree
magistrali, che le renda non indispensabili per la maggior parte delle
professioni ed impieghi. A questo proposito ci sono state due circolari del
Ministro della Funzione Pubblica, che invitavano le amministrazioni pubbliche a
non richiedere la laurea magistrale per concorsi a funzioni non dirigenziali.
Le stesse circolari prevedono che il funzionario pubblico entrato con la laurea
(triennale), dopo cinque anni di servizio possa partecipare a concorsi per
dirigente. Queste disposizioni sono state completamente ignorate. Basterebbe renderle cogenti ed imporre agli ordini professionali di ammettere alle
prove per l’iscrizione al livello “senior” anche i possessori di laurea di
primo livello iscritti da cinque anni all’ordine “junior” per rendere
appetibile a molti studenti l’uscita dal sistema universitario dopo la laurea
triennale. La laurea magistrale non più sorretta dal valore legale acquisterebbe
il valore che merita in alcune, forse poche, sedi, mentre altre sedi sarebbero costrette ad offrire, per carenza di studenti, solo lauree triennali. Gli studenti insomma si indirizzerebbero solo verso le lauree magistrali che offrono vantaggi concreti nelle professioni e negli impieghi o preparano ad attività di ricerca. Si determinerebbe, almeno parzialmente un regime di concorrenza tra le diverse sedi per l’offerta delle
lauree magistrali.
Resta naturalmente il peso di scelte costose e improvvide avvenute
nel passato in merito alla formazione degli insegnanti. Sarebbe stato
ragionevole prevedere che la formazione generale di un insegnante possa
concludersi con una laurea triennale ed essere seguita da non più di un anno di
formazione-tirocinio professionale. La scelta di richiedere cinque anni di
formazione generale (e sei anni in tutto) è stata imposta da alcune
corporazioni di docenti universitari. In questa occasione, come in altre, i
costi, per gli studenti e per lo stato, del prolungamento della formazione
universitaria degli insegnanti non sono stati nemmeno presi in considerazione.
Un altro ambito dove, prima ancora di pensare a tagli, bisognerebbe cercare di fare chiarezza è quello delle funzioni assistenziali, svolte dalle Facoltà di Medicina.
Il Comitato Nazionale per la Valutazione del Sistema Universitario, nel rapporto annuale
del 2008, ha calcolato che l’onere dell’assistenza pesava, nel 2007, sulle spese per il personale del sistema universitario, per almeno 350 milioni di euro. A livello nazionale il costo totale per assegni fissi al personale impegnato anche in attività assistenziale
superava nel 2007 il miliardo di euro.
Questa attività assistenziale delle facoltà di medicina non viene né valutata, né premiata in termini di finanziamenti. Le università che hanno una facoltà di medicina si trovano quindi svantaggiate nella distribuzione dei fondi di finanziamento.
Altro sarebbe se le facoltà di medicina godessero di autonomia finanziaria e quindi di un autonomo finanziamento, comprendente una quota relativa alla attività assistenziale che, a rigor di logica, dovrebbe essere a carico del servizio sanitario nazionale. La “quota premiale” del finanziamento delle autonome facoltà di medicina potrebbe essere
calcolata anche in relazione a parametri di qualità dell’assistenza clinica, in
competizione con altre strutture ospedaliere. La chiarezza sarebbe propedeutica
ad una migliore allocazione delle risorse e a potenziali risparmi.
Pubblicato su Il Riformista il 16 luglio 2011