Si fa un gran parlare degli articoli di Stefano Feltri (vicedirettore del Fatto Quotidiano) sull’utilità delle lauree umanistiche. Da studiosa di area umanista mi sono sentita chiamata in causa: ho letto con attenzione l’articolo del CEPS citato da Feltri e ho anche cercato altri dati relativi al contesto che conosco meglio, quello del sistema universitario anglosassone in cui opero ormai da più di un decennio. Ma cosa dice l’articolo del CEPS che Feltri ha usato per giungere alle sue conclusioni? E perché il suo approccio è semplicistico e poco costruttivo, e anche piuttosto ingenuo e disinformativo? Cosa cogliere da questi dati? Che le lauree umanistiche sono una perdita di tempo e soldi e quindi adatte solo a chi non ha bisogno di lavorare per vivere, come conclude con convinzione Feltri? Forse sì e forse no. Secondo me le riflessioni da fare sono altre, e ben più importanti, soprattutto per le donne italiane.
Negli ultimi giorni si fa un gran parlare dei tre articoli [ora sono quattro, NdR] pubblicati su Il Fatto Quotidiano dal vicedirettore Stefano Feltri a partire dal 12 agosto sull’utilità delle lauree umanistiche. Da studiosa di area umanista, una di quelle persone che ha preso una delle ‘lauree inutili’ citate da Feltri, mi sono sentita chiamata in causa (che è diverso da risentita) e mi sono documentata (fa parte della mia formazione e del mio training, per altro). Ho letto con attenzione l’articolo del CEPS citato da Feltri e ho anche cercato altri dati relativi al contesto che conosco meglio, quello del sistema universitario anglosassone in cui opero ormai da più di un decennio (per esempio un report recente sugli STEM subject—le lauree in Scienze, Tecnologia, Ingegneria e Matematica—pubblicato di recente sul sito del Parlamento Britannico). Essendo una storica, e non un’economista o una sociologa, non pretendo di capire tutti i dettagli contenuti nello studio del CEPS, ma a quanto pare li ho capiti almeno tanto quanto il Dott. Feltri, che ha una laurea in una materia più utile della mia (ma che ha dovuto rettificare l’articolo proprio perché non aveva interpretato correttamente i dati numerici, anche se giustamente dichiara che le correzioni apportate non cambiano la sostanza delle sue argomentazioni). Quello che ho colto, e che avrei tanto voluto venisse detto negli articoli del vicedirettore di un giornale nazionale che in genere stimo, è riassunto qui sotto. Quanto segue è un tentativo, modesto e alquanto scarno, di fornire alcune riflessioni per una discussione costruttiva sullo stato dell’università italiana che vada al di là della facile banalizzazione di titoli come ‘Il conto salato degli studi umanistici’ oppure ‘Università, studiate quello che vi pare, ma poi sono fatti vostri’.
L’articolo del CEPS: discipline STEM e divario di genere
Procediamo con ordine: che nelle università italiane le materie umanistiche, in particolare lettere e filosofia, offrano meno sbocchi professionali ben remunerati di molti altri indirizzi universitari è risaputo. Non servono articoli e statistiche: l’esperienza di molti, moltissimi laureati in queste materie (inclusi miei compagni di corso e di liceo) lo conferma, e non avrebbe molto senso provare ad argomentare il contrario. Lo sapevo io, svariati anni fa, quando uscivo con ottimi voti da un liceo scientifico e mi apprestavo a scegliere la facoltà. Lo sapevano i miei genitori, che all’università non c’erano andati, e che speravano, come i genitori del Dott. Feltri, che facessi Economia e Commercio, o ancora meglio Scienze Bancarie, Finanziarie ed Assicurative all’Università Cattolica, corso di laurea a numero chiuso per il quale avevo superato il test di entrata.
Ma cosa dice l’articolo del CEPS che Feltri ha usato per giungere alle sue conclusioni? E perché secondo me il suo approccio è semplicistico e poco costruttivo, e anche piuttosto ingenuo e disinformativo? L’articolo in questione propone un’analisi del ritorno economico privato (quindi per il singolo studente che affronta gli studi, non per i governi che forniscono fondi alle università) dei vari tipi di laurea. Questi sono stati divisi (traducendo vagamente dall’inglese) in: scienze dell’educazione, scienze umanistiche e arti; scienze sociali, economia, legge; STEM (le materie scientifiche sopracitate); medicina e altre lauree affini. Lo studio rientra in una discussione europea che ormai va avanti da anni sul valore aggiunto delle lauree STEM, area in cui, secondo altri lavori citati nell’articolo, i paesi europei soffrono di carenza d’offerta rispetto alla domanda. Qui nel Regno Unito, dove vivo e lavoro, questo dato si è tradotto in una serie di incentivi da parte del governo volti a supportare le discipline STEM e non le discipline umanistiche (in cui, per altro, confluiscono anche legge e scienze sociali, che nello studio del CEPS occupano una categoria a parte con economia). L’insegnamento di queste ultime ora si basa quasi esclusivamente sulle entrate date dalle rette universitarie, che nel Regno Unito sono di circa £9.000 l’anno per corso di laurea (questi gli stanziamenti pianificati per le università inglesi dall’organo preposto nell’anno accademico 2015-16). Peraltro, quella di alzare le tasse universitarie e ridurre il supporto statale per tutte le discipline non STEM resta una scelta governativa molto controversa e in controcorrente con il resto dei paesi europei.
La conclusione più sorprendente dello studio del CEPS sembra essere che una laurea in STEM non fornisce, rispetto alle altre, i benefici di carriera ventilati in altre occasioni. Questo è di per se significativo. Le discipline che invece emergono come vincenti sono scienze sociali, economia e legge, che darebbero un rapporto costi/benefici superiore a tutte le altre ad esclusione di medicina e lauree affini. La seconda considerazione interessante per Italia e Francia è quella relativa al genere. Lo studio divide i dati tra uomini e donne portando risultati interessanti seppure piuttosto deprimenti. Nel contesto italiano, la discrepanza del NPV (Net Present Value, il valore del rapporto costi/benefici di una laurea calcolato a cinque anni dalla laurea, che è alla base dello studio citato da Feltri) tra uomini e donne è considerevole. Il dato diventa ancora più allarmante per le discipline STEM (ambito in cui si laureano, ci dice lo studio, 39,8 donne italiane su 100 iscritti), dove a fronte di un trend positivo sul valore di riferimento per gli uomini (di 55 punti), viene registrato un trend negativo di -32 punti per le donne. Le cose vanno leggermente meglio per scienze sociali, economia e legge, dove tuttavia lo scarto uomo/donna è di circa 146 punti. Dal punto di vista dell’uguaglianza di genere, però, la sorpresa è che le donne ottengono valori superiori agli uomini solo nel campo umanistico, registrando un -15 a fronte di un -265 per i colleghi maschi. Come dire che solo e unicamente in questo settore una brava laureanda fa meglio del suo collega uomo.
Cosa cogliere da questi dati? Che le lauree umanistiche sono una perdita di tempo e soldi e quindi adatte solo a chi non ha bisogno di lavorare per vivere, come conclude con convinzione Feltri? Forse sì e forse no. Secondo me le riflessioni da fare sono altre, e ben più importanti. Per le donne italiane una laurea in scienze umanistiche non è certo la scelta peggiore. Peggio sarebbe, per esempio, laurearsi nelle discipline STEM (-32 contro il -15 delle scienze umanistiche). Per me il dato più inquietante di questo studio è rappresentato proprio da questo scarto tra donne e uomini italiani quando si tratta di educazione e mondo del lavoro. A fronte di un contesto sociale dove il numero totale di donne che si iscrivono all’università è simile a quello degli uomini, ma il numero di donne che si laureano in discipline STEM è inferiore, quelle poche donne che scelgono materie scientifiche risultano ulteriormente penalizzate a cinque anni dalla laurea. Così non è per le scienze umanistiche, dove il trend va in senso contrario. E lo scarto è notevole anche per scienze sociali, economia e legge, dove il divario tra uomini e donne nel rapporto costi/benefici è maggiore che in tutte le altre categorie analizzate. In sostanza, ogni buon genitore che abbia una figlia femmina che vuole studiare dovrebbe indirizzarla, se non verso medicina e affini, almeno verso studi sociali, economia o legge, preparandola tuttavia fin dall’inizio ad accettare il fatto che nella vita guadagnerà meno della metà del proprio coetaneo maschio.
Quello che io colgo dagli articoli di Feltri è in primo luogo una sconcertante mancanza di capacità di lettura e comprensione dei risultati dello studio del CEPS. Tale capacità, a mio avviso, dovrebbe essere non solo alla base di ogni laurea in economia e commercio, ma soprattutto alla base di una pratica giornalistica seria. Feltri, infatti, ha deciso di ignorare completamente la questione di genere che era uno degli elementi centrali dell’articolo (insieme alla questione delle discipline STEM), citando solo i valori maschili e volutamente ignorando i dati femminili, ma senza mai specificare che i dati forniti riguardano solo i laureati uomini. Cosi facendo, oltre a dirci che a contare al mondo sono solo quelli come lui, dotati di gene Y, fornisce informazioni non solo parziali ma anche scorrette. Inoltre, conferma che ancora una volta risulta più facile sensazionalizzare ciò che già si sa (e che non era il fulcro dell’articolo del CEPS) piuttosto che affrontare un discorso serio sul problema delle lauree umanistiche e più in generale dell’università italiana.
Come aiutare l’università italiana: modernizzazione e investimento
Lavorando da anni al di fuori del contesto italiano, forse non sono la persona più adatta a trovare soluzioni e dare consigli su un problema tanto complesso, ma qualcosa mi sento di dirla. Nel suo terzo articolo in meno di una settimana, Feltri dichiara laconico che “il sistema universitario italiano fa un po’ schifo”. Se fosse davvero così, tuttavia, non si capirebbe come mai i nostri laureati italiani abbiano così spesso notevole successo all’estero sia nelle discipline umanistiche che nelle scienze e nelle scienze sociali. Né lo studio del CEPS né gli altri dati citati nel terzo articolo (relativi per altro alle scuole superiori) sembrano giustificare le conclusioni alle quali Feltri giunge. Come in tutti i paesi del mondo, ci sono università d’eccellenza e altre meno buone, laureati bravissimi e altri meno bravi. L’eccellenza si trova sia nelle scienze sociali, legge e economia (inclusa la Bocconi di Feltri), che nelle scienze umanistiche (in università come la Scuola Normale Superiore di Pisa ma non solo). Il problema vero, semmai, è la scarsa modernizzazione delle università italiane di fronte a un mercato del lavoro sempre più complesso e articolato. Tale modernizzazione è al centro di un recente rapporto indirizzato alla Commisione Europea che invita le università e i governi europei a investire non solo in ricerca ma anche in insegnamento di alta qualità. In sostanza, perché le università europee e italiane raggiungano valori di eccellenza nella ricerca e producano studenti competitivi nel mondo del lavoro nazionale e internazionale bisogna che la qualità dell’insegnamento sia elevata e integrata con la ricerca (quello che nel mondo anglosassone si chiama ‘research-led teaching’). Eppure, stando a un recentissimo rapporto prodotto dall’European Parliamentary Research Service (EPRS), l’Italia è uno dei paesi europei che a livello governativo investe meno di tutti nella formazione universitaria (al pari, ahimé, del Regno Unito nell’era di Cameron), mentre l’investimento privato richiesto alle famiglie pare essere in crescita (Fig.1-2). L’investimento del governo negli anni 2008-2013 inoltre, è calato di oltre il 10% (Fig. 3). Quindi il vero ascensore sociale, rispondendo ad un altro punto discusso nell’ultimo articolo di Feltri, non è tanto la materia scelta all’università quanto l’accesso a un’istruzione pubblica di qualità.
La conclusione che se ne trae, quindi, non è che le università italiane fanno schifo, ma che le università italiane non sono adeguatamente supportate e valorizzate. Nel caso di università private a numero chiuso come la Bocconi, va da sé che l’insegnamento d’eccellenza auspicato dal rapporto alla Commissione Europea citato più sopra è garantito da una ratio docenti professori più bassa (rapporto usato nella stesura di molti ranking universitari internazionali) e di strutture moderne e adeguate. Purtroppo né il rapporto della EPRS da cui questi dati sono tratti, né lo studio del CEPS citato da Feltri fanno distinzione tra corsi universitari privati o pubblici, a numero chiuso e non, eppure è chiaro che in un contesto di calo di investimenti da parte del governo questi aspetti non sono irrilevanti. Senza contare che il fatto che medicina e lauree affini (come pure a volte economia e commercio e scienze della finanza) siano a numero chiuso da una parte opera una selezione sui laureati e dall’altra regola il mercato di domanda e offerta, cosa che generalmente non avviene in molti altri campi, lauree umanistiche incluse.
Tornando poi alla questione di genere, il governo e le università italiane dovrebbero intervenire con politiche serie atte a mitigare gli effetti di un mercato del lavoro che, stando ai dati dell’articolo CEPS, risulta svantaggiare in modo considerevole le laureate italiane. Nel contesto universitario britannico, il problema di ‘gender equality’ è da tempo al vaglio di governo e istituzioni attraverso il programma ‘Athena Swan’. Inizialmente concepito per cercare di incrementare il numero di scienziate donne nell’università (nelle materie STEM citate dall’articolo CEPS), il programma è ora stato esteso a tutte le discipline universitarie ed è volto a garantire una più equa distribuzione di uomini e donne negli ambiti di ricerca, insegnamento e amministrazione. È un fatto riconosciuto, infatti, che la perdita di laureande nel passaggio dal mondo universitario a quello lavorativo (la cosidetta ‘leaking pipeline’) si traduce anche in una perdita economica e sociale. La scarsa parità di genere, sia nel settore universitario che nel settore privato, è percepita come un problema da risolvere, e le aziende sono incoraggiate ad attivarsi per farlo (trovate qui uno dei documenti prodotti dal Government Equalities Office britannico).
Cosa fare dunque per le moribonde e tanto bistrattate scienze umanistiche (oltre a cantare un requiem, come vorrebbe Feltri)? La risposta è da un lato modernizzazione e dall’altro un adeguato finanziamento pubblico. Bisogna, dunque, mirare ad un rapporto docenti/professori più contenuto volto a supportare un insegnamento d’avanguardia e aggiornato che fornisca capacità teoriche ma anche pratiche. Bisogna anche fornire incentivi all’internazionalizzazione, allo sviluppo di contatti con le imprese, e alla formazione in impresa (il mestiere, in sostanza, si impara anche facendolo). Se questo vale per tutte le discipline è ancora più importante per quelle umanistiche dove la spinta al cambiamento è stata minore. È innegabile che l’Italia non abbia bisogno di milioni di laureati in scienze umanistiche che spesso si trascinano per anni e raggiungono la laurea con risultati deludenti (nelle scienze, forse, tali candidati lascerebbero prima di arrivare in fondo). Tuttavia, è anche vero che l’Italia ha un tasso di laureati tra i più bassi d’Europa e il numero di abbandoni più alto (dati Anvur per il 2013). Non abbiamo bisogno di meno laureati in lettere, abbiamo bisogno di più laureati ben formati e motivati. Quindi, invece di incoraggiare i diplomati a studiare materie che a loro non piacciono o per le quali non sono portati, come vorrebbe Feltri, forse sarebbe il caso di supportarli nelle loro scelte e cercare di valorizzare le loro risorse e capacità nel mondo del lavoro.
Non è assolutamente vero, inoltre, che le lauree umanistiche siano del tutto inutili, almeno se insegnate in un certo modo. Nel contesto anglosassone la discussione sul valore delle scienze umanistiche è da tempo vivace, e le proposte non sono mancate. Molti osservatori hanno posto l’accento sulle capacità pratiche che possono essere acquisite grazie a studi umanistici e trasferite in una varietà di contesti lavorativi diversi (si parla infatti di ‘transferable skills’). Queste includono la creatività e la capacità di lettura e analisi, di ricerca di informazioni, di elaborazione dati, di scrittura e di comunicazione, senza contare le doti linguistiche nel caso dello studio di lingue straniere. Tutte queste capacità, se valorizzate e applicate, possono risultare utili nell’industria come in altri campi. È auspicabile dunque che anche in Italia si sviluppi una riflessione analoga e che le lauree umanistiche vengano adeguatamente modernizzate e valorizzate per consentire ai laureati di trovare una collocazione più diversificata di quella offerta finora. Questo non vuol dire che si debba abbandonare quanto c’è di buono e importante nelle lauree italiane per copiare maldestramente quelle anglosassoni, ma forse semplicemente ridimensionare una formazione nozionistica in favore di un approccio più analitico e pragmatico che risponda meglio alle esigenze del mondo del lavoro.
Inoltre, anche mettendo da parte il valore umano delle ‘humanities’ e l’importanza di studiare la nostra e altre culture con apertura mentale e curiosità intellettuale (che è ben diverso dal sapere citare versi di Dante o Petrarca, come ironizza Feltri), il valore economico delle scienze umanistiche è tutt’altro che irrilevante. Il risvolto monetario delle ‘creative arts’ (ora spesso chiamate ‘creative industries’) è evidente nel caso di un Festival come quello di Edimburgo, il cui beneficio per l’economia scozzese è stato valutato in svariati milioni di sterline (per essere precisi £261 milioni soltanto per il 2010). Chi fosse interessato può leggersi il report del 2011 proprio sull’argomento, come pure il più breve articolo della BBC. Senza contare che a riaffermare il valore delle scienze umanistiche sono anche innumerevoli articoli (come questo del Washington Post o quello dell’Universita’ di Stanford, che indicano come persone con studi umanistici alle spalle lavorino sempre più spesso nel settore della tecnologia avanzata) o libri importanti e diversi come Not For Profit di Martha Nussbaum o The Value of the Humanities di Helen Small. In sostanza, le ‘tranferable skills’ degli studi umanistici, oltre ad avere un valore sociale, possono aiutare in settori lavorativi che vanno dalle ‘creative industries’ (settore che in Italia è certamente poco valorizzato considerando l’incredibile patrimonio artistico e culturale del paese), alla pubblica amministrazione, alle industrie tecnologiche.
Per tutti coloro i quali, come me, possiedono una laurea ‘inutile’ in scienze umanistiche e leggono Il Fatto Quotidiano, la migliore consolazione è sentire quello che ha da dire in proposito un grande storico americano che di questi temi si occupa da anni, Anthony Grafton (qui trovate un suo articolo molto bello scritto a due mani con il collega James Grossman, direttore della American Historical Association, e qui un altro che amo condividere con i miei studenti, ai quali spesso ricordo che devono essere ambiziosi perché nessuno vuole uno storico mediocre!). In sostanza, non conta tanto quel che si fa, ma come lo si fa. Per gli altri, quelli come Feltri, che pensano di essere superiori perché loro sì che hanno fatto una scelta intelligente, resta solo la condiscendenza che merita tale arroganza: ‘Non ragioniam di lor ma guarda e passa’ (Inf. III, 51).
La differenza di NPV uomini/donne tra le discipline STEM credo abbia una spiegazione: le donne sono largamente prevealenti (in Italia fino all’80% del totale) tra le discipline scientifiche “biologiche”, che sono di gran lunga le meno redditizie, mentre gli uomini prevalgono (con punte dell’80% per alcuni CdL di ingegneria) nei corsi più redditizi.
Quando viene calcolato il dato aggregato, emerge ovviamente questa chiara discrepanza uomini/donne nell’area STEM.
Il solo effetto di composizione non è comunque sufficiente a spiegare la differenza, come discusso nella XVII Indagine Almalaurea sulla condizione occupazionale dei laureati:
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«L’analisi a cinque anni, riferita anche in questo caso ai soli laureati che hanno iniziato l’attuale attività dopo la laurea e lavorano a tempo pieno (Fig. 60), mette in luce come in tutti i percorsi disciplinari gli uomini risultino costantemente più favoriti. Il differenziale, complessivamente pari al 21%, è confermato, con diverse intensità in tutti i gruppi disciplinari. Un’analisi approfondita, che ha tenuto conto del complesso delle variabili che possono avere un effetto sui differenziali retributivi di genere (percorso di studio, età media alla laurea, voto di laurea, formazione post-laurea, condizione occupazionale alla laurea, tipologia dell’attività lavorativa, area di lavoro, tempo pieno/parziale), mostra che a parità di condizioni gli uomini guadagnano in media, ad un anno dalla laurea, 90 euro netti in più al mese, che salgono a 167 euro tra i laureati 2009 a cinque anni dalla laurea.» (Fonte: XVII rapporto Almalaurea sulla condizione occupazionale dei laureati)
Negli sport i record maschili sono migliori dei record femminili del 20% circa. Perché quindi sorprendersi se gli uomini riescono ad eccellere in misura comparabile anche nel mercato del lavoro, e voler apoditticamente interpretare questa differenza come discriminazione? Inoltre l’articolo manca il vero motivo per cui una laurea STEM ha in Italia meno valore di una laurea in letteratura: l’Italia è un paese in via di sottosviluppo che ha perso la competizione nel mercato dell’alta tecnologia. I laureati STEM italiani hanno grande successo in Svizzera, USA etc
MarcelloGA: «l’articolo manca il vero motivo per cui una laurea STEM ha in Italia meno valore di una laurea in letteratura»
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Non so se l’IQ sia correlato alle capacità di comprensione testuale, ma l’articolo non dice che “una laurea STEM ha in Italia meno valore di una laurea in letteratura” (affermazione che, in base ai dati Almalaurea, appare anche falsa).