Esce in questi giorni “Rischio e previsione – cosa può dirci la scienza sulla crisi” (Laterza) di Francesco Sylos Labini. Ne pubblichiamo uno stralcio. “L’Ue ha il 10% della popolazione mondiale ma produce il 30% della conoscenza. I divari tra i Paesi però sono enormi e crescenti: quelli con meno tecnologia, come l’Italia, investono sempre meno. E si condannano al declino.”
La Cina ha speso nel 2014 il 2% del Pil in ricerca e sviluppo (R&S), il doppio rispetto al 2000; gli Stati Uniti circa il 2,8%, mentre l’Europa, nel suo insieme, si trova indietro, nonostante la Strategia di Lisbona – il programma di riforme economiche approvato a Lisbona, nel 2000, dai capi di Stato e di governo dell’Unione Europea – avesse l’obiettivo di raggiungere entro il 2010 una spesa del 3% in R&S da parte dei Paesi membri. Mentre la Strategia di Lisbona sembra essere stata dimenticata da tutti, i più ottimisti notano che l’Europa, con meno del 10% della popolazione del mondo, produce più del 30% della conoscenza. In realtà, la situazione diventa sempre più preoccupante: l’Europa non è un’entità economica e scientifica omogenea perché al suo interno vi sono enormi e crescenti squilibri che già oggi sono pericolosi ma che, immaginando il loro impatto in un futuro prossimo, mettono in dubbio la stessa possibilità di coesistenza dell’Europa così come la conosciamo oggi.
La contrazione delle risorse umane nei settori dell’università e della ricerca nei Paesi mediterranei – accentuata dai tagli alla spesa pubblica dovuti alle politiche di austerità – finisce persino con l’essere coerente con la scarsa richiesta che ne fa il sistema economico, dato il maggior peso che in questi Paesi detengono i settori tradizionali.
Le differenze di crescita tra i Paesi europei sono, dunque, chiara espressione di una disomogenea capacità di sviluppo delle conoscenze scientifiche e tecnologiche e d’innovazione dei loro sistemi produttivi. Nei Paesi dell’Europa meridionale, la bassa spesa in ricerca attribuibile all’industria è il segno della marginale presenza di settori avanzati, nei quali è invece più elevata la propensione all’investimento in ricerca.
La marginalità dei settori avanzati implica a sua volta una crescente marginalità di questi paesi, con una perdita complessiva di potenziale di sviluppo economico. La situazione, anziché migliorare, negli ultimi anni si è aggravata: basti considerare che in Germania la spesa pubblica in ricerca è aumentata del 15 per cento dal 2009, mentre in Italia, nello stesso periodo, è diminuita di quasi il 20 per cento. Per effetto delle cosiddette politiche di austerità, adottate secondo convinzioni ideologiche ma i cui fondamenti teorici sono stati smentiti dai dati, la dinamica della crisi non ha fatto altro che accentuare divergenze strutturali tra le economie dell’eurozona, che a loro volta precedono perfino l’introduzione della moneta unica.
Così, in seguito alla crisi finanziaria 2008-2009, le misure di austerità in paesi come la Grecia, la Spagna, il Portogallo o l’Italia hanno influenzato negativamente i loro sistemi di ricerca, compromettendo il futuro di diverse generazioni di giovani ricercatori. Situazioni simili erano già state osservate nei paesi dell’Est e dell’Europa centrale e, in forme diverse, in Irlanda e in altri paesi dell’Unione Europea. Il risultato è uno sviluppo scientifico ancora più squilibrato degli Stati membri della Ue, che contribuisce sempre più a una crescente divisione economica e sociale dell’Europa e che mette in crisi la sua stessa sostenibilità.
La Commissione europea non ha intrapreso alcuna azione per fermare lo smantellamento dei sistemi nazionali di R&S in alcuni paesi: anzi, i continui tagli alle risorse finanziarie e umane, incoraggiati o imposti dalla stessa Commissione, hanno peggiorato la situazione. D’altra parte, la Commissione europea avrebbe potuto adottare misure per incoraggiare i governi nazionali a fare dell’investimento in R&S una priorità. La Commissione ha certamente già dimostrato di poter esercitare una forte influenza sulle politiche nazionali, quando lo ritiene opportuno.
Le istituzioni europee devono assumersi la responsabilità di ridurre al minimo il crescente divario di ricerca e innovazione tra gli Stati membri, che alimenta a sua volta il grande divario di benessere sociale. Ciò richiede una visione a lungo termine per R&S, con investimenti anticiclici che le forniscano sostegno congiunturale. Ad esempio, i fondi strutturali dovrebbero essere utilizzati per fermare la fuga di cervelli. L’investimento pubblico in R&S non dovrebbe essere conteggiato nel calcolo del deficit nazionale. Un altro suggerimento riguarda qualcosa di simile a un credito d’imposta: quando uno Stato membro con un deficit di R&S aumenta i suoi investimenti pubblici in questo settore, il suo contributo globale al bilancio europeo potrebbe essere ridotto di una percentuale dello stesso importo, seguendo la medesima filosofia attuata per i fondi strutturali.
Sarebbe necessario che la Commissione europea ricorresse a incentivi per aumentare i finanziamenti nazionali per la ricerca. Inoltre le intenzioni della Strategia di Lisbona dovrebbero essere riprese cercando di attuarle sul serio: sembra che la Commissione europea abbia i mezzi per far rispettare agli Stati membri le sue imposizioni di una lunga serie di parametri finanziari, ma non sia affatto interessata a perseguire il loro corretto sviluppo in termini di ricerca e innovazione.
I soli processi economici qui ben descritti non sono da soli sufficienti a spiegare tutto ciò che sta accadendo. La stessa idea di ricerca e conoscenza sono decadute dapprima nella scuola, ora anche all’università. Le scienze pure sono osteggiate, le materie umanistiche addirittura svilite e sbeffeggiate. Non si spiegherebbe altrimenti che in paesi nord-europei largamente benestanti cattedre p.es. di natura filologica o linguistica vengano chiuse tout-court o sostituite con insegnamenti che si intitolano, poniamo, ‘pragmatica della pubblicità’. Prevale inoltre la volontà di umiliare chi studia, impedendogli di vivere del suo lavoro, di avere una casa, una famiglia, un programma esistenziale. Il personale stabile si riduce ed entrano prestazioni occasionali. P. es. in un corso di Scienze Politiche una cattedra di storia viene chiusa, ma entra a contratto un promotore finanziario.
La comunità europea, invece di osteggiare questi processi, si è servita di una compatta unità politica filo-americaneggiante e affaristico-informatico-pratica per diffondere tali velenose metastasi all’interno di tutte le istituzioni universitarie.
La cultura di sinistra ha ampiamente avallato l’abbassamento complessivo di livello nell’area umanistica. Da una parte si stracciano le vesti per lo stato di degrado, dall’altra si adeguano volentieri alla situazione.
Se la rotta non viene invertita è facile prevedere un’Europa dedita a corsi ‘applicativi’ e sempre più marginale rispetto alla produzione di conoscenza, riservata a pochi e non gratuiti centri sparsi qua e là per il mondo. Il contrario, per esempio, del modello tedesco diffuso nell’Ottocento: piccoli atenei sparsi sul territorio con elevatissima qualità media in ogni settore. Sarebbe questa, tutto sommato, la prospettiva (e anzi la retrospettiva) a cui guardare per una rinascita.
Personalmente ritengo che l’attuale e passato degrado del sistema della ricerca italiano non sia affatto una “anomalia” nell’orizzonte europeo. E’ stata in realtà la stessa lobby tecnocratico-bancaria che da tempo governa l’Europa ad imporre al nostro Stato queste scelte, che “premiano l’eccellenza” concentrando le risorse su pochi poli, “favoriscono la competizione” imponendo ai ricercatori di spendere quasi metà del loro tempo in attività brocratiche di presentazione dei progetti e di rendicontazione degli stessi, “valutano obiettivamente” il nostro operato con meccanismi “scientifici” in perfetto stile ANVUR, etc.
Io vedo un unico disegno in tutte queste cose, apparentemente scollegate. Per me il disegno è chiaro, e chi sta davvero al potere (non il fantocio di turno, che viene sistematicamente telecomandato) ha già fatto capire chiaramente cosa vuole imporre:
1) Stabilire la priorità di chi controlla i flussi di denaro rispetto a chi produce davvero cibo, vestiti, macchine, case, etc…
2) In modo del tutto analogo, stabilire la priorità di controlla i flussi dell’informazione e della conoscenza su chi le crea
3) Instaurare un meccanismo premiale/punitivo in modo da privilegiare chi sposa tale visione e far morire d’inedia chi non si adegua
4) Creare milioni di posti di lavoro inutili nel settore del “management” (sia del denaro, che della conoscenza), preparando per ciò giovani adepti tirati su nel “verbo” da tempo sbandierato da “centri del sapere” come la Bocconi e soci, da sempre nelle mani dello stesso gruppo di econo-tecnocrati che ormai comanda il mondo
5) differenziare la popolazione in sole due macro-categorie, cioè una “plebaglia” con livello di istruzione prettamente tecnico-produttiva, ottimi lavoratori ed ottimi consumatori, che siano preparati a farsi governare dai “manager”, che è poi la cricca di cui al punto 4), cioè la nuova “classe dirigente” perfettamente allineata e coesa nel perseguimento degli obiettivi comuni
In questa visione, guai a diffondere troppa conoscenza nella “plebaglia”, soprattutto conoscenza di tipo storico, politico, socio-economico, etico, etc..
L’unica “scienza” degna di nota diventa quella finalizzata alla produzione di beni avente valore economico, ed anche la ricerca va canalizzata in questo modo.
Siccome tutto questo viene palesemente propangadato dai vertici delle istituzioni europee, e lo si vede bene anche dai bandi competitivi con cui i fondi per la ricerca vengono distribuiti, e dai meccanismi di valutazione dei progetti, allora mi chiedo come si possa sperare che la salvezza del sistema possa venire anch’essa dall’Europa, che è la prima ad aver spinto, negli ultimi 20 anni, nella direzione che ci ha portato alla situazione attuale. L’Europa è in realtà ben contenta che Italia, Portogallo, Spagna e Grecia perdano progressivamente le loro capacità di innovazione, perchè in una logica di “Nazione Europea” che valorizza le proprie eccellenze, ottimizzando l’allocazione delle risorse, le aree dove concentrare le risorse per la ricerca sono altre.
I nostri governi succedutisi negli ultimi 20 anni hanno sempre pedissequamente seguito le imposizioni che venivano da Bruxells, sia su questo che su tutti gli altri temi. Questo spiega perchè, pur alternandosi governi di vario colore, l’azione demolitiva è continuata imperterrita.
Il gioco è ben più grande del solo mondo della ricerca, ovviamente, e la partita ormai la si è perduta: la crisi del 2008 non aveva alcun reale fondamento nel mondo reale (nessun terremoto, nessuna carestia, nè pestilenza, nè guerra). E’ stata una crisi creata a tavolino da chi controllava la finanza internazionale, ed ha avuto lo scopo, ormai chiaro, di stringere per la gola i governi dei paesi europei, facendo capire a chi ancora non l’aveva fatto chi è a comandare.
Ed ora siam tutti con guinzaglio e museruola, se ci mettiamo ad abbaiare ci tolgono cibo ed acqua…
Sperare che sia lo stesso “padrone” che ci ha ridotto cosi’ a salvarci, è una pia illusione.
Giuliano Amato lo aveva detto: diventeremo la Disneyland d’Europa. Siete stati in una università svedese ? In una spagnola ? Si ? In una Greca ? Avete già la risposta.
Libro comprato qualche tempo fa – dopo averne visto qualche stralcio – e finito di leggere proprio ieri! (nonostante la tesi in corso! :) )
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Vorrei fare i miei più sinceri complimenti all’Autore, mi è piaciuto molto!
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Desidero anche esprimergli la mia gratitudine perché, mancandomi una preparazione in questo ambito, devo ammettere che ho sempre adottato un atteggiamento di “presunzione di correttezza” riguardo alle linee generali delle attuali politiche economiche. Ne ho sempre attribuito i fallimenti a problemi di carattere tecnico – per quanto riguarda l’inaffidabilità delle previsioni – o storico – per la difficoltà che la “giusta ricetta” potesse essere applicata nel modo corretto. Non avrei mai immaginato che potesse instaurarsi un così perverso feedback positivo tra una teoria (para-)scientifica e le pratiche adottate dalla stessa comunità accademica fino a provocare una crisi generalizzata nelle possibilità di autocritica e innovazione.
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Devo anche ammettere che ho sempre sottovalutato l’importanza di conoscere la storia della scienza: al contrario, i molti esempi riportati nel libro sono efficacissimi nel descrivere i rischi insiti negli attuali sistemi di finanziamento e lasciano chiaramente intuire quale sarebbe il modo migliore di procedere.
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Grazie di essersi dedicato a questo argomento!
Le preoccupazioni di Sylos Labini sono sacrosante, ma invocare l’Europa per riportare gli investimenti in ricerca è irrealistico. Oggi si parla di “Europa” in un modo molto simile a quello in cui negli anni settanta o primi ottanta si evocava la “Russia”: era l’URSS del socialismo reale, ma anche (su tante tavole di osteria come in tante aule universitarie) lo spazio ideale di redenzione politica dalla mediocrità delle democrazie borghesi. La confusione tra i due piani era continua: allora non era un male, ha aiutato tanti a inoltrarsi nel grigio delle loro esistenze tenendo viva la speranza in una palingenesi elettorale (da spostare, sempre, alle elezioni successive). Oggi, confondere l’Europa del liberismo reale con l’Europa delle utopie mazziniane e azioniste dovrebbe essere un po’ più difficile. Ci siamo dentro: non lo vediamo come funziona il gioco? L’Unione Europea non è l’Europa delle alte idealità postbelliche. E’ un sistema di governo economico, che giova ad alcuni e nuoce ad altri, ed è controllato da coloro che ne traggono vantaggio. Invocare l’Unione Europea (non l'”Europa”: sono cose diverse) per riportare gli investimenti in ricerca in Italia ricorda le insistenze di Tsipras (vecchia maniera) davanti all’Eurogruppo (una lieta compagnia di ministri molto sensibile al tema dello sviluppo della Grecia, no?)
L’UE è il motore primo del taglio di investimenti pubblici. Il nodo fondamentale è il costo del lavoro: i redditi da lavoro dipendente devono calare per rendere competitivo il sistema produttivo nazionale. Per far calare il costo del lavoro ci deve essere MENO istruzione, non più istruzione, perché la gente deve essere pronta ad accettare lavori meno pagati. Il meccanismo è coerente con il Jobs act, imposto da Draghi a Renzi così come è stato imposto a Hollande: se è più facile essere licenziati si è più pronti ad accettare lavori a bassa retribuzione. Il costo del lavoro scende, il prezzo del made in Italy ridiventa concorrenziale, l’industria italiana ha una chance di recupero.
L’esempio tedesco (“In Germania si aumenta l’investimento in ricerca” ecc.) non è un esempio buono per noi, nel sistema economico vigente: una cosa è il centro, altra cosa è la periferia. E’ quest’ultima che deve tagliare il costo del lavoro, ed è quest’ultima che ha bisogno di meno università.
pienamente d’accordo con indrani maitravaruni, anche se la sua prospettiva sopravvaluta il ruolo dell’ideologia; sono convinto che, partendo dall’ottimo F.SylosLabini, i post di Angelo Farina e Leone Porciani ‘ci azzecchino’ assai: ma non è confortante… a meno di non organizzare una resistenza politica a questi processi, resistenza di cui all’orizzonte non vedo alcun barlume :(
Le diagnosi sono ottime. Adesso bisogna trovare la cura (una forza politica che si faccia carico di queste istanze?).
Nel frattempo occorre resistere.
Ieri ho letto questa pagina in base alla quale ci sarebbe un incremento favoloso dei finanziamenti. Corrisponde a verità? https://ec.europa.eu/research/infrastructures/index_en.cfm?pg=framework_prog
programmi europei di finanziamento alla ricerca = più potere ai burocrati –> NEIN, DANKE